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Relativismo e perdita di certezza: il "male oscuro" del pensiero moderno

di Francesco Lamendola - 20/12/2007

 

 

Abbiamo recentemente sostenuto, nell'articolo La scienza moderna è una degenerazione del vero concetto di scienza (sul sito di Arianna Editrice), che la filosofia contemporanea si differenzia nettamente dalla filosofia delle età precedenti  non in questo o in quello specifico indirizzo di pensiero, ma nel suo insieme. per la svolta relativistica che ne segna l'impostazione generale e ne condiziona possibilità, prospettive e risultati, nonché per una complessiva perdita di certezza. Ne abbiamo tratto, pertanto, la conclusione che essa si può identificare, di contro - ad esempio - all'idea platonica di una ricerca della verità oggettiva e stabile, come una scienza mancata (un pensiero debole) o, meglio ancora, come ciò che oggi rimane di un sapere perduto.

Desideriamo ora approfondire questo concetto non sotto il particolare angolo visuale della epistemologia o filosofia della scienza, ma del pensiero tout-court: dalla logica alla matematica, dalla fisica alla linguistica.

Partiamo da alcune considerazioni svolte da Maurizio Pagliari nel suo articolo Il sapere perduto, pubblicato sulla rivista Iter. Scuola, cultura, società dall'Istituto della Enciclopedia Italiana (n. 6 del 1999, pp. 108-109).

 

"Con l'avvento dell'epistemologia contemporanea, è diventato possibile ammettere che nei diversi campi del sapere esistono molte 'verità' aventi ciascuna una sua logica interna e anche una sua 'dignità' come paradigma esplicativo di particolari fenomeni: non esisterebbe, insomma, l'autorità di una legge statutaria che stabilisca la linea di demarcazione tra teorie 'buone' e teorie 'cattive'. Così, non solo le aree della conoscenza non ancora dotate di uno statuto scientifico organizzato secondo canoni rigorosi, come l'area socio-antropologica, ma anche le scienze empiriche e le scienze deduttive hanno visto mettere in discussione la loro infallibilità e la loro immunità dall'influsso di un contesto epistemico 'esterno'. Le istituzioni della scienza avrebbero perso le loro caratteristiche di irrevocabilità e di inesorabilità, e si sarebbe rivelata illusoria la pretesa di una 'certezza teorica fondatrice'. Alla concezione cartesiana, secondo cui la razionalità della conoscenza scientifica è garantita dal suo metodo, si è sostituita una concezione 'anarchica' secondo cui, con la scomparsa del metodo la scienza perde il suo valore conoscitivo. L'avvento delle 'tesi della varianza' ha prodotto un mutamento sostanziale dell'immagine della scienza, da conoscenza certa e indubitabile a conoscenza congetturale e fallibile, e l'avvento dell'anarchismo metodologico  ha trasformato quello che era un paradigma del sapere in una delle tante forme di pensiero possibili per l'uomo, e neanche quella che offre speciali vantaggi metodologici su altre 'scienze' comunemente ritenute dominio dell'irrazionale, come la parapsicologia e l'astrologia.

"Il paradigma del determinismo, elemento portante della struttura della scienza, è stato sostituito, in un processo di capovolgimento degli schemi usuali di spiegazione dei fenomeni naturali, dai nuovi concetti di evoluzione, di caos, di instabilità e di imprevedibilità. Il principio dell'atemporalità delle leggi che regolano l'universo, così radicato nel pensiero scientifico, ha lasciato il posto alla possibilità di mutamento di queste leggi.

"Il passaggio da un paradigma all'altro ha luogo per effetto di una 'conversione improvvisa' che non può essere imposta dalla logica (Kuhn, Thomas, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1999, ed. orig. 1962). Nella storia della scienza non c'è alcuna regola metodologica che non sia stata violata, e nella lotta tra teorie rivali qualunque mezzo è lecito (Feyerabend, Paul K, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Milano, Feltrinelli, 1997, ed. org. 1975)  E secondo il 'programma forte' della nuova sociologia della scienza, la conoscenza scientifica non è una 'credenza vera' ma si riduce a quello che gli esponenti di una data società reputano essere una conoscenza, ossia diventa un puro 'costrutto sociale', una 'concezione trasfigurata' di questa stessa società e non può di fatto accampare nessuna pretesa di accogliere di fatto la 'verità' (Bloor, David, La dimensione sociale della conoscenza, Milano, Raffaello Cortina, 1994, ed. orig. 1976).

"Così, dopo la svolta relativistica, i percorsi del sapere appaiono non più come un processo cumulativo prescritto in base a qualche criterio privilegiato di demarcazione, ma come uno dei tanti modelli che continuamente si formano e si trasformano nei singoli contesti. Numerosi sono gli esempi che vengono portati a sostegno di questo processo di 'perdita della certezza' anche nel campo della matematica e della logica, considerate come l'ultimo baluardo della 'conservazione'. Basti pensare, in campo matematico, all'avvento delle geometrie non-euclidee e dei quaternioni; in ambito logico, ai teoremi di incompletezza di Kurt Gödel o al teorema di indefinibilità di Alfred Tarski; e, in campo fisico, al principio di indeterminazione di Werner Heisenberg.

"Ancora, all'interno della matematica attuale non c'è un corpo di conoscenze universalmente accettato, formato da dimostrazioni che sono assunte come il prodotto  più elevato del 'corretto ragionare'. Per esempio, all'interno delle diverse scuole fondazionali si trovano posizioni contrastanti sulla natura degli 'enti matematici' come nel caso dell'impostazione insiemistica, dove, come è noto, esistono diverse assiomatizzazioni alternative.

"La pretesa di poter sviluppare dimostrazioni inconfutabili è stata abbandonata, e la molteplicità delle scelte produce differenti matematiche (Kline, Morris, Matematica. La perdita della certezza, Milano, Mondadori, 1985 , ed. orig. 1980). Addirittura, sembra rinascere la concezione che tutta la matematica non sia da considerare come una disciplina deduttiva, di tipo 'euclideo', in cui la verità si trasmette dall'alto verso il basso, ossia dagli assiomi ai teoremi. La matematica sarebbe, al contrario, più simile a una disciplina 'quasi-empirica', in cui il flusso logico significativo è dato dalla trasmissione della falsità dal basso verso l'alto, ossia dalle asserzioni di base alle ipotesi; con una fondazione, cioè, di tipo 'induttivo' (Lakatos, Imre, Scritti filosofici, vol. II, Matematica, scienza e epistemologia, Milano, Il Saggiatore, 1985, ed. orig. 1978).E così come nel campo della geometria è caduto il presupposto che il sistema euclideo sia privilegiato in quanto rigorosamente applicabile alla realtà, anche nel campo della logica è caduto il presupposto che le regole 'classiche' di ragionamento corrispondano a una descrizione dell'andamento effettivo degli eventi del mondo. L'avvento delle 'logiche a tre valori', dove non vale il principio del terzo escluso ma che sono, ciononostante, perfettamente coerenti, ha negato la possibilità di attribuire un valore di unicità o di verità a qualsiasi sistema di regole di ragionamento. Nell'ambito delle 'logiche vaghe' è stata perfino ammessa la possibilità di assegnare a una proposizione un insieme di 'valori di verità' variabili in modo continuo nell'intervallo compreso tra 0 ('assolutamente falso') e 1 ('assolutamente vero'), con valori intermedi come 'molto vero', 'abbastanza vero' e 'più o meno vero'. Più di un sistema di logica può essere utilizzato come metodo di ragionamento, e uno di questi può essere più 'comodo' di un altro, ma non più 'giusto'.

"Aggiungiamo a tutto questo l'ipotesi del relativismo linguistico, per cui i mondi nei quali vivono società diverse e che vengono descritti con sistemi linguistici diversi sono realmente mondi distinti, e non uno stesso mondo a cui vengono apposte etichette linguistiche diverse (Whorf, Benjamin Lee, Linguaggio, pensiero e realtà, Torino, Bollati Boringhieri, 1970, ed. orig. 1956).

"Ma di tutte queste' crisi fondazionali' è stata data spesso una lettura che stravolge lo sviluppo dei fatti. È ben vero che quando si vuole sovvertire l'ordine stabilito degli 'schemi di spiegazione accettati' si scatenano entro le comunità di ricercale guerre di religione più spietate.

"Per esempio, quando la controversia sulle geometrie non euclidee si scatenò alla fine del XIX secolo, non furono risparmiati da nessuna parte (filosofica, teologica e scientifica) gli epiteti più ingiuriosi (quali: assurdità, allucinazione, paranoia, caricatura, farsa, chimera, libertinaggio geometrico, malattia dei matematici, geometria satanica, elucubrazione, peste morale, eresia).

"Così pure, quando apparvero le 'logiche a tre valori' furono subito considerate come devianti, mentre le 'logiche vaghe' furono accolte come una pericolosa calamità e come una cocaina della scienza, che introduceva un eccesso di permissività nel regno della precisione e della certezza, o furono considerate al massimo come un 'travestimento' del concetto di probabilità.

"Ma alla fine i risultati 'eretici' hanno quasi sempre finito per essere accolti dalle comunità di ricerca (e non sempre per la morte degli oppositori) e hanno spesso contribuito in modo determinante al progresso del sapere, connettendosi organicamente al complesso dei risultati già noti."

 

Si tratta di considerazioni sensate e fondamentalmente condivisibili, in quanto descrivono la situazione reale degli odierni sviluppi della logica, della matematica, della linguistica, insomma sia delle scienze empiriche che di quelle che un tempo si solevano definire "esatte". Noi, oggi, possiamo tranquillamente ammettere che i singoli valori di verità di ciascuna disciplina logica e scientifica possano andare soggetti a una banda di indeterminatezza e che, per esempio, pronunziare la parola "casa" in giapponese significa evocare non lo stesso oggetto concettuale che si intende quando si dice "casa" in italiano, ma un oggetto concettuale del tutto diverso; senza che tutto ciò sconvolga più di tanto le nostre vite o i nostri orizzonti di certezza.

Dov'è dunque il problema?

Il problema è che, da Cartesio e Spinoza in poi - cioè dall'avvento di un razionalismo meccanicistico e antifinalistico - il relativismo della scienza è penetrato dal mondo degli oggetti sensibili a quello a quello dell'Essere in sé, arrivando a negare la possibilità della metafisica (Kant) o riducendo il mondo intero a percezione sensoriale (Condillac) o negando  esplicitamente l'esistenza di una realtà sostanziale che costituisca il fondamento, logico e ontologico, di quella empirica e  materiale. In altre parole, come già ammoniva il fisico e matematico Luigi Fantappié, il pensiero moderno ha abolito le cause finali ed è giunto ad affermare che vediamo perché ci è capitato di avere gli occhi, negando che gli occhi ci siano stati dati per vedere. Ogni cosa, di conseguenza, è stata attribuita alla materia stessa oppure al caso; e la natura non è più stata vista come il prodotto intelligente e armonioso di una volontà superiore, ma come un labirinto più simile a un manicomio o a una grande fabbrica impazzita, ove si trasformano incessantemente degli enti che non hanno né origine né scopo.

Eppure, uno dei capisaldi della sana filosofia insegna che ogni effetto deve corrispondere a una causa e che, pertanto, lo si può conoscere meglio conoscendone la causa. Ma tale principio è stato abbandonato in nome di una scienza puramente descrittivista, che cioè si occupa solo di descrivere i fenomeni, ma non si cura affatto di risalire alle loro cause; anzi, che guarda con supponenza e fastidio al tentativo di altre forme di conoscenza (filosofia, teologia) di porsi il problema delle cause ultime. I concetti platonici di doxa ed episteme sono stati rovesciati: adesso la "certezza" è nel sapere relativo alle cose contingenti - e per giunta, come si è visto, è un sapere sempre più vacillante -, mentre le cose necessarie sono divenute oggetto di una "opinione" assolutamente privata e non-scientifica, in quanto non "intersoggettiva" (quest'ultimo termine essendo entrato in uso da quando la stessa scienza post-cartesiana ha abbandonato la pretesa di descrivere la realtà in modo oggettivo).

Scrive ad esempio - e sembra non accorgersi delle implicazioni del suo discorso, che possono nascere solo o da una immensa arroganza intellettuale o da una immensa ingenuità speculativa - Silvano Fuso in suo articolo da noi già citato (Scienza, pluralismo culturale, metafisica, sulla rivista Iter. Scuola, cultura, società dell'Istituto della Enciclopedia Italiana, 2002, n. 16-17, pp. 95-96):

 

"Anche i filosofi della scienza che non riconoscono a quest'ultima alcuna posizione privilegiata nei confronti di altre forme culturali (esistono 'nemici della scienza' anche fra gli epistemologi) devono ammettere la sua efficacia pragmatica. Il più noto tra questi, Paul K. Feyerabend (acceso dissacratore del sapere scientifico) difendendo il pluralismo culturale, ha affermato: «Ci sono altri modi di vivere in questo mondo. La gente è intervenuta sul mondo in modi diversi: alcune azioni hanno trovato riscontro, altre non sono mai decollate» (Feyerabend, P. K., Dialoghi sulla conoscenza,  Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 104; ed. orig. 1991). La scienza evidentemente ha 'trovato riscontro', a differenza di altri modi di indagare la realtà , indipendentemente da quello che può sostenere Feyerabend in altri suoi scritti.  L'intersoggettività e l'efficacia pragmatica caratterizzano dunque la scienza, distinguendola nettamente da tante pseudoscienze che vanno pericolosamente diffondendosi nella nostra società. Purtroppo, come tutte le attività umane, anche la scienza non è immune da errori (Kohn Alexander, Falsi profeti. Inganni ed errori nella scienza, Bologna, Zanichelli, 1991, ed. orig. 1986; Di Trocchio, Federico, Le bugie della scienza. Perché e come gli scienziati imbrogliano, Milano, Arnoldo Mondadori, 1993). Tuttavia la sua stessa apertura, il suo senso autocritico e la continua disponibilità a modificarsi le consentono di autocorreggersi continuamente. Questo non accade nelle pseudoscienze che rimangono invece  uguali a sé stesse, prive di alcuna evoluzione. Esistono alcuni settori dell'attività umana in cui l'intersoggettività non è raggiungibile. In alcuni di essi, la soggettività e la libera fantasia dei singoli sono addirittura auspicabili: si pensi al campo artistico o a quello dei sentimenti. In altri, pur non essendo possibile un accordo intersoggettivo unanime, lo si deve necessariamente adottare in modo convenzionale per semplici questioni di convivenza: si pensi alle norme etiche e giuridiche."

 

A parte la mancanza qualsiasi tentativo, non già di confutare, ma almeno di prendere in considerazione le acute e pertinenti argomentazioni con le quali Feyerabend mostra l'assolta mancanza di quella "netta distinzione" fra scienze e pseudocscienze di cui parla Fuso e a parte la sviolinata sulla "apertura" della scienza e sul suo "senso autocritico", che ha tutto il sapore di un auto-incensamento ("se la fanno e se la dicono", come avviene nel mondo della politica e in quello dell'informazione), non si può non restare ammutoliti di fronte alla disinvoltura con cui si riconosce che "esistono alcuni settori dell'attività umana in cui l'intersoggettività non è raggiungibile", come si trattasse di lacune nella mappa del sapere scientifico. Si parla dell'arte, dell'etica e della giurisprudenza; si cerca, insomma, di delineare (e delimitare) tali lacune; non si prende nemmeno in considerazione l'ipotesi che il più e il meglio dell'umana conoscenza possano restare fuori dal quadro di una scienza così delineata, ossia come (supposto) trionfo della intersoggettività. Né che si tratti non solo delle opere d'arte o dei sentimenti umani, ma di altre forme di conoscenza che non sono affatto "soggettive" nel senso di non verificabili, ma che giacciono su un altro piano di realtà rispetto all'ambito di competenza della scienza moderna (quantitativa, meccanicista, riduzionista e materialista).

Insomma si concede che esistono altre forme di conoscenza, ma ci si preoccupa di chiarire che, non essendo scientifiche, sono qualche cosa di puramente soggettivo o di puramente convenzionale. Queste conclusioni "scientiste" sembrerebbero in un primo tempo evitate, là dove l'Autore in questione, muovendosi con una certa prudenza, chiarisce che la metafisica ha altrettanto diritto di esistere quanto la scienza fisica, anche se si compiace di ricordare che Kant ha "mostrato" l'impossibilità di fondare la metafisica come scienza; e anche se, definendo la metafisica come l'insieme delle ipotesi scientifiche non ancora verificate e convalidate dalla scienza stessa, ne misconosce totalmente lo statuto ontologico, che è quello di una scienza altra.

 

"La scienza non si propone di scoprire la natura ultima della realtà. Il suo ambito è costituito dai soli fenomeni empiricamente accertabili. La nascita della stessa scienza empirica moderna e il suo distacco dalla filosofia sono consistiti proprio nella delimitazione del proprio campo d'azione.

"La disciplina che ambirebbe a una spiegazione ultima (che vorrebbe cioè 'tentar di penetrare l'essenza') della realtà è, al contrario, quella branca della filosofia che vien chiamata 'metafisica' e che si è talvolta identificata con la filosofia tout court. Purtroppo, fin dai tempi di Kant (nella Critica della ragion pura, 1781), ci si è resi conto dell'impossibilità di fondare una metafisica come scienza. In altre parole, di ciascuna affermazione metafisica siamo assolutamente incapaci di stabilire il valore di verità o di falsità.

"Ciò non significa tuttavia che scienza e metafisica siano completamente estranee l'una all'altra. Osteggiata per decenni dalle concezioni positiviste e neopositiviste, la metafisica è stata in parte rivalutata dalla filosofia della scienza più recente.  Già Karl Popper (Logica della scoperta scientifica, Torino, Einaudi, 1970, ed. orig. 1935; Congetture e confutazioni, Bologna, Il Mulino, 1972, ed. orig. 1962) individua nelle concezioni metafisiche (in pratica, le ipotesi a priori degli scienziati) un utile serbatoio d'idee, da sottoporre successivamente al controllo empirico. Inoltre, altri epistemologi (Agazzi, Evandro, Considerazioni epistemologiche su scienza e metafisica, in Teoria e metodo delle scienze, a cura di Carlo Huber, Roma, Università Gregoriana, 1981, pp. 311-40). Hanno fatto osservare che la metafisica equivale a sostenere che non esiste nulla al di fuori di ciò che è empiricamente accertabili (posizione tipica di quella concezione filosofica nota con il nome di 'scientismo'). Tuttavia, una tale affermazione è essa stessa metafisica. Infatti, fornisce un giudizio (sia pure di non esistenza) su ciò che non è empiricamente rilevabile.

"Una scienza illuminata, quindi, non dice assolutamente nulla su ciò che non è empiricamente accertabile (direttamente o indirettamente attraverso gli strumenti logico-matematici). La scienza e la metafisica possiedono domini ben definiti e distinti. La prima, occupandosi per definizione di fenomeni empirici, esclude ogni problematica di competenza della metafisica( e quindi della religione): Di conseguenza, essa non può pronunciare alcun giudizio sulla seconda se non vuole rischiare di essere contraddittoria.

"Nella vita di ciascuno vi sono inevitabilmente molti aspetti che si collocano al di fuori delle competenze della scienza. In tali settori può trovare spazio la metafisica e, al suo interno, anche la fede religiosa. La scienza, per esempio, può fornirci preziosissime informazioni su che cosa sia la vita e su come funzioni, ma non potrà mai dare risposte sul suo senso ultimo. Analogamente, può offrirci straordinari elementi per capire la struttura dell'universo e forse anche la sua origine, ma non potrà mai spiegarci perché esista e quale sia il suo scopo. Queste domande, pure assillano da sempre la mente umana, non possono trovare una risposta nella scienza (Wittgenstein, Ludwig, Tractatus logico-philosophicus, Torino, Einaudi, 1964, ed. orig. 1921)."

 

Ora, a parte la contraddittorietà di definire la metafisica come un preliminare ipotetico a priori della scienza e, poi, affermare che la fede religiosa si colloca al suo interno (come se la fede fosse una ipotesi scientifica in attesa di dimostrazione), il discorso sin qui svolto sembrerebbe tutto sommato moderato e aperto alla fondazione di saperi non scientifici; ammesso che la scienza moderna sia l'unico modo di intendere ciò che è scienza e ammesso che si possa parlare della "scienza" come di un'entità astratta e pur fornita di una sua logica interna, laddove si dovrebbe piuttosto parlare di "scienza istituzionalizzata" per intendere l'ambito concreto e i concreti condizionamenti (accademici, professionali, editoriali, economici e politici) che ne determinano gli sviluppi. Un altro elemento di forte perplessità è dato peraltro dall'affermazione che "una scienza illuminata, quindi, non dice assolutamente nulla su ciò che non è empiricamente accertabile (direttamente o indirettamente attraverso gli strumenti logico-matematici", dato che in diversi campi della ricerca scientifica odierna, primo fra tutti la cosmologia, quel confine è stato abbondantemente superato, e senza il minimo scrupolo.

Ad esempio, secondo Stephen Hawking, titolare della cattedra di matematica lucasiana a Cambridge e generalmente considerato il maggiore cosmologo vivente, esiste oggi la concreta possibilità di scoprire la teoria definitiva dell'Universo. Essa sarebbe in grado di spiegare una volta per tutte non solo l'origine e il destino dell'Universo, ma anche di leggere, per così dire, nei pensieri di Dio, mettendoci sul suo stesso livello di comprensione cosmica. Egli enuncia senza batter ciglio questa strabiliante teoria, lasciando intendere che i tempi "romantici" della relatività sono superati e che no possediamo oggi ben più solide basi, rispetto ad Einstein, per lanciarci all'assalto dell'ultima frontiera: una teoria cosmologica unificata capace di spiegare tutte le forze fisiche fondamentali dell'Universo, il mistero della sua nascita così come quello del destino che lo attende, abbattendo una volta per tutte, a vantaggio della scienza, la tradizionale distinzione fra l'ambito di quest'ultima (il come dei fenomeni) e quello della filosofia (il perché essi avvengono).

Egli esprime senza batter ciglio tale convinzione nel suo libro La teoria del tutto. Origine e destino dell'universo (Milano, Mondolibri, 2003, pp.167-168), con queste parole:

 

"Una volta, Einstein si pose questa domanda: 'Quanto fu ampia la libertà di scelta di Dio nella costruzione dell'universo?'. Se la proposta dell'assenza di confini è corretta, Egli non ebbe alcuna libertà nella scelta delle condizioni iniziali. Avrebbe avuto ancora, naturalmente, la libertà di scegliere le leggi alle quali l'universo doveva obbedire, ma questa, in realtà, potrebbe non essere stata poi una gran scelta: ci potrebbero infatti essere soltanto poche (e forse solo una) teorie complete unificate non autocontraddittorie e tali da permettere l'esistenza di esseri intelligenti.

"Ma possiamo interrogarci sulla natura di Dio anche se c'è solo una possibile teoria unificata, che si riduce a un semplice insieme di leggi ed equazioni. Che cos'è che soffia il fuoco vitale nelle equazioni, e crea un universo che esse possono descrivere? L'approccio solitamente adottato dalla scienza,  quello di costruire dei modelli matematici, non può rispondere alla domanda del perché dovrebbe esserci un universo descrivibile da quei modelli. Perché mai l'universo si dà la pena di esistere? La teoria unificata ha una forza tale da determinare la sua propria esistenza? O ha invece bisogno di un creatore? E, in tal caso, questo creatore esercita qualche altro effetto sull'universo oltre a essere responsabile della sua esistenza? E chi ha creato questo creatore?

"Fino a oggi, gli scienziati sono stati troppo occupati a elaborare nuove teorie che descrivono che cos'è l'universo per porsi la domanda del perché. D'altro canto, le persone il cui lavoro è proprio quello di chiedersi il perché delle cose - ossia i filosofi - non sono riuscite a tenere il passo con il progresso delle teorie scientifiche. Nel XVIII secolo, essi ritenevano che l'intero scibile umano, scienza inclusa, fosse di loro competenza, e discutevano su questioni come 'l'universo ha avuto un inizio?'. Nel corso del XIX e del XX secolo, però, la scienza è diventata troppo tecnica e troppo matematica per i filosofi o per chiunque altro, tranne per pochi specialisti. I filosofi hanno quindi a tal punto ridotto l'ambito delle proprie ricerche che Ludwig Wittgenstein, il filosofo più illustre del XX secolo, è venuto ad affermare che «l'unico compito che resta alla filosofia è l'analisi del linguaggio». Che declino rispetto a quella tradizione filosofica che da Aristotele va fino a Kant!

"Tuttavia, se riuscissimo a scoprire una teoria completa, col tempo tutti - e non solo pochi scienziati - dovrebbero essere in grado di comprenderla, almeno nei suoi principi generali. Saremmo quindi tutti in grado di prender parte alla discussione sul perché l'universo esiste. E, se trovassimo la risposta a quest'ultima domanda, decreteremmo il definitivo trionfo della ragione umana, poiché allora conosceremmo il pensiero stesso di Dio."

 

Altro che netta delimitazione del campo della scienza e di quello della metafisica! Ci viene da domandarci, con tutto rispetto, su quale pianeta abbiano vissuto i sostenitori di una tale divisione, mentre Hawking e molti altri suoi colleghi stavano progettando di dare l'assalto al cielo con la loro moderna Torre di Babele scientista.

E non è tutto.

Nel seguito del suo ragionamento, Fuso abbandona i toni 'morbidi' di scientista moderato per mostrare apertamente la rigida impalcatura dogmatica del suo concetto di scienza, in modo particolare là dove si sofferma a considerare i fenomeni che vanno comunemente sotto la definizione di "miracolo". Consapevolmente o meno, egli sfodera tutto il più trito armamentario illuminista, secondo il quale il miracolo, essendo una 'violazione delle leggi di natura', semplicemente non può esistere. Par di leggere la voce "miracolo" nel Dizionario Filosofico di Voltaire (una delle menti meno filosofiche del pensiero occidentale), che si caratterizza per una povertà concettuale pari solo alla sua rozzezza. Siamo nel terzo millennio, ma l'impostazione mentale è sostanzialmente la stessa: una cosa da far cadere le braccia! È come se, negli ultimi due secoli e mezzo, nonostante tutti i vantati "progressi" della scienza moderna, il pensiero occidentale non fosse stato in grado di fare il minimo passo avanti verso un concetto meno legnoso di "leggi naturali" e meno chiuso ed esclusivista verso quegli aspetti della realtà che il Logos strumentale non è tuttora in grado di spiegare né di comprendere.

Scrive infatti Silvano Fuso (op. cit., p. 96):

 

"Di fronte all'impossibilità di fornire una risposta a questi interrogativi, l'atteggiamento può essere vario. Da un lato, ci si può accontentare di sospendere il giudizio e di assumere una posizione agnostica. Dall'altro, si possono inventare risposte di tipo metafisico e religioso. Dal punto di vista strettamente logico, l'atteggiamento agnostico appare più razionale. La scelta di cedere a una spiegazione metafisica è inevitabilmente irrazionale o meglio arazionale. Egualmente irrazionale è la scelta di coloro che negano categoricamente ogni possibile risposta metafisica, sfociando in un ateismo rigoroso. In entrambi i csi si tratta di un'irrazionalità perfettamente lecita e del tutto innocua, che può tranquillamente convivere con una mentalità di tipo scientifico. Si tratta, infatti, di scelte il cui unico arbitro è l'individuo stesso e sulle quali ogni opinione è lecita. Di conseguenza anche uno scienziato, come tale, deve necessariamente sospendere il giudizio, ma come uomo può benissimo seguire una scelta atea, agnostica o religiosa.

"La convivenza tra scienza e diventa invece più difficile quando quest'ultima fa affermazioni che rientrano nell'ambito empirico. L'esempio più evidente è quello dei miracoli. Il problema di fondo che bisognerebbe in primo luogo chiarire è la loro esistenza, ma finora non sono mai state fornire prove scientificamente accettabili al riguardo. Se poi, per ipotesi, fossero trovate prove inconfutabili che dimostrassero l'esistenza di un fenomeno prodigioso, cosa dovrebbe fare la scienza? Dovrebbe forse unirsi al coro di coloro che gridano al miracolo? Evidentemente, se così facesse, la scienza verrebbe meno al suo compito. Essa ha il dovere di essere scettica e di ricercare spiegazioni naturalistiche: a costo di rivedere sé stessa e le proprie convinzioni. Le stranezze della meccanica quantistica, per esempio, hanno indubbiamente aspetti prodigiosi rispetto alle conoscenze elaborate dalla fisica classica. Tuttavia, tali fenomeni sono stati accertati al di là di ogni dubbio.

"Un cenno particolare meritano le cosiddette guarigioni miracolose. A parte i numerosi casi dichiarati ma non sufficientemente dimostrati, sembra ormai sicuro che in talune gravi patologie (compresi i tumori) siano stati accertati casi di remissioni spontanee, sia pure con incidenze statistiche bassissime. Gridare al miracolo di fronte a tali eventi avrebbe come unico risultato il blocco delle conoscenze nel settore. Alcuni casi di remissione spontanea non sono ancora interpretabili con le attuali conoscenze, ma il loro studio accurato potrebbe, in futuro, facilitare la messa a punto di terapie valide. Se, per esempio, nel XVII secolo si fosse gridato al miracolo di fronte alle guarigioni della malaria indotte dall'assunzione di corteccia di china ('corteccia del Perù'), non si sarebbero mai scoperte le proprietà terapeutiche del chinino."

 

A parte il fatto che di eventi "miracolosi" ce ne sono stati e ce ne sono a migliaia e che la scienza non li ritiene sufficientemente provati solo perché non si è data e non si dà tuttora la pena di studiarli seriamente (pensiamo al caso del guaritore brasiliano Arigò, solo per citarne uno), ci sembra qui evidente la circolarità del ragionamento dell'Autore: i miracoli non sono possibili, perché ogni fenomeno empirico deve avere una spiegazione scientifica; la scienza studia tutti i fenomeni empirici; dunque la scienza, presto o tardi, spiegherà in termini naturalistici tutti i pretesi fenomeni miracolosi. Ma non aveva detto che la scienza è disposta ad ammettere l'esistenza di un ambito della realtà diverso da quello empirico? E non  aveva riconosciuto che, su tale ambito, la scienza non ha nulla da dire? Se, però, da tale ambito provengono fenomeni che si manifestano anche sul piano fisico, ecco che si nega addirittura che tali fenomeni siano possibili o siano autentici! E ciò, sempre partendo dal pregiudizio - inespresso, ma tangibile - che il sapere vero sia quello scientifico; dall'alto del quale il seguace di tale sapere distribuisce le pagelle di "liceità" o "non liceità" alle opinioni che esulano dal suo campo, ossia quelle di tipo ateistico o di tipo religioso. Possibile che a questi signori della Scienza con la S maiuscola non venga mai in mente che, forse, vi è qualcosa di poco lecito proprio in questa loro pretesa di impancarsi a giudici di ciò che è razionale, e quindi - secondo loro - lecito, e di ciò che non lo è?

Ma, per tornare al nostro assunto iniziale, e cioè ai pericoli insiti nel relativismo culturale oggi dilagante e nella perdita generale del valore di certezza, dobbiamo ancora evidenziare come la condizione dell'uomo contemporaneo, sotto tale punto di vista, somigli pericolosamente a quella dell'alienato. Non, si badi, all'alienato dell'antichità o del Medioevo, bensì all'alienato del XVII secolo: il "secolo dei lumi", il secolo della ragione. Grazie ai lumi della ragione, infatti, la cultura del Settecento assunse un nuovo atteggiamento nei confronti del malato di mente: quello di decretarne la deresponsabilizzazione sociale per difetto dell'uso di ragione; per cui, mentre nei secoli precedenti egli poteva essere imprigionato come un delinquente, ora veniva curato come un malato. La sua condizione diveniva inseparabile da quella del medico che lo prendeva in cura, come un fanciullo bisognoso di guida. L'alienato delirava, credeva di essere qualcun altro, sragionava: ebbene, la società decise di non considerarlo più come un ribelle, di lasciargli la sua libertà di dire e credere quel che voleva: ma solo, beninteso, entro le mura del manicomio.

Una pagina memorabile è stata scritta in proposito da Michel Foucault nella sua ormai celebre Storia della follia nell'età classica (Milano, Rizzoli, 1978, pp. 586-587; ed. orig. 1963).

 

"Il folle è ormai completamente libero e completamente escluso dalla libertà. Un tempo era libero nel momento breve in cui cominciava a perdere la propria libertà, ora è libero nel largo spazio dove già l'ha perduta.

"Alla fine del XVIII secolo non si assiste a una liberazione dei folli, ma a una oggettivizzazione del concetto della loro libertà (…)

"Una volta liberato, il folle non può più sottrarsi alla propria verità; egli è gettato in essa ed essa lo confisca interamente. La libertà classica situava il folle in rapporto alla sua follia, rapporto ambiguo, instabile, sempre compromesso, ma che impediva al folle stesso di identificarsi totalmente con la propria follia.(…) A partire da questo istante la follia non indica più un certo rapporto dell'uomo con la verità- rapporto che, almeno silenziosamente, implica sempre la sua libertà; essa indica solo un rapporto dell'uomo con la sua verità. Nella follia l'uomo cade nella propria verità; il che è un modo di viverla interamente, ma anche di perderla. La follia non parlerà più del non-essere, ma dell'essere dell'uomo, nel contenuto di ciò che egli è, e nell'oblio di questo contenuto. E mentre un tempo era Straniero nei rapporti con l'Essere - uomo del nulla, dell'illusione, Fatuus (vuoto del non-essere e manifestazione paradossale di questo vuoto) -, eccolo ora trattenuto nella propria verità e al tempo stesso allontanato da essa. Straniero per se stesso, alienato.

"La follia parla ora un linguaggio antropologico, cercando insieme, e in equivoco che le dà i suoi poteri di inquietudine  per il mondo moderno, la verità dell'uomo  e la perdita di questa verità, e quindi la verità di questa verità."

 

Tale, appunto, è il dramma dell'uomo contemporaneo.

Dopo che gli intellettuali hanno esteso, arbitrariamente, il concetto di relativismo della conoscenza dall'ambito della scienza a quello dell'intera realtà  - morale, culturale, filosofica, religiosa - l'uomo contemporaneo è precipitato nel labirinto del relativismo assoluto, dove la mia verità è uguale alla tua, dove tutto è vero soggettivamente e niente è vero in assoluto.

Un labirinto che somiglia molto, troppo a un manicomio nel quale l'uomo contemporaneo, illudendosi di essersi liberato dai "ceppi" di una Verità assoluta, vaga ripetendo a tutti, con malinconica monotonia, la sua verità, come un pazzo cui nessuno più presta attenzione, perché simile a cento, mille altri pazzi che proclamano, con pari stolidità e convinzione, ciascuno la propria  personale, improbabile verità.