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Basta con i ricatti e le etichette di "destra" e "sinistra"

di Francesco Lamendola - 20/12/2007

 

 

 

Se vivessimo in una situazione normale, queste riflessioni sarebbero assolutamente inutili.

In un situazione normale, non dovrebbe esservi bisogno di qualificarsi ideologicamente come persone «di destra» o «di sinistra»; e neanche, ovviamente, «di centro». Né dovrebbe esservi  bisogno che lo faccia qualcun altro per noi, per garantire la nostra affidabilità o per bollare la nostra indegnità.

In un situazione normale, le persone valgono per quello che sono; non devono dichiarare le proprie simpatie politiche: lasciano parlare i fatti. Non conta quello che dicono di essere e neanche quello che gli altri dicono di loro: sono, e basta.

Noi, però, non viviamo in una situazione normale.

Dai tempi di Dante Alighieri, quando orde di esiliati vagavano per l'Italia in attesa della rivincita, poco è cambiato: siamo ancora divisi tra Guelfi e Ghibellini. E, quel che è peggio, non ci si divide sulla base delle idee e dei comportamenti, ma su quella degli slogan e delle frasi fatte.

Nella confusione generale, ve ne sono alcuni che approfittano per arraffare quanto più denaro pubblico sia loro possibile, quante più poltrone e cariche pubbliche, ovviamente di quelle ben remunerate. Quelle dove, se te ne vai lasciando un'azienda di stato in condizioni disperate, ti liquidano con una buonuscita miliardaria. E il bello è che sono proprio questi ultimi che, se vengono pescati con le mani nel sacco, si mettono a starnazzare che i magistrati li stanno perseguitando per motivi politici.

Poveri perseguitati.

Però la cosa ha una sua verosimiglianza: in un Paese dove anche la scelta della marca di stuzzicadenti da acquistare per una mensa pubblica diventa una faccenda ideologica (con relativi risvolti finanziari), certo che è un'impresa non sempre facile quella di distinguere la giustizia comune da quella politica.

La politica è diventata il paravento per ogni sorta di maneggio, d'intrallazzo, di abbuffata; non vi è cialtrone che non se ne faccia scudo per meglio organizzare le proprie ruberie o, come minimo, i propri privilegi.

Dunque, viviamo in una situazione in cui non basta cercar di essere se stessi con coerenza e con dignità; bisogna anche esibire il proprio tesserino, farsi identificare a prima vista come amico o come nemico.

E allora diamogliela, questa soddisfazione: sono in tanti a rodersi il fegato perché ancora non sono riusciti a cucirci addosso una etichetta qualsiasi.

Qui, però, incominciano le difficoltà: non per astuzia e per voluta ambiguità da parte nostra, ma perché la destra e la sinistra, oggi, in Italia, non esistono.

Forse non sono mai esistite.

Ai tempi di Cavour e dei suoi immediati successori, la Destra storica pensava alla buona amministrazione, al pareggio del bilancio, a metter su l'ossatura dello Stato unitario risparmiando fino al centesimo; e si teneva lontana da tentazioni imperialistiche e avventure coloniali. La Sinistra, quando andò al potere nel 1876, passò dal liberismo economico al protezionismo, cominciò a spendere senza riguardi, favorì il blocco degli industriali nascenti e degli eterni agrari; in politica estera si alleò con gli Imperi Centrali assolutisti e militaristi e si lanciò in una serie di spregiudicate imprese coloniali. Chi faceva in realtà una politica di destra, e chi una di sinistra?

Ma le cose si complicarono ulteriormente con la prassi del trasformismo, di cui fu maestro Depretis. Maggioranze d'interessi si formavano tra il centro della Sinistra e il centro della Destra: accordi sospetti, realizzati non sui banchi parlamentari, ma nei corridoi del Palazzo. La dialettica politica s'insabbiava davanti a maggioranze ciniche e fittizie, fermamente decise a non fare assolutamente niente pur di autoperpetuarsi il più a lungo possibile.

E siamo ancora lì.

Con una destra cialtrona e populista e una  sinistra velleitaria e parassita; e con una gran voglia di trasformismi, d'inciuci e di ammucchiate. Tutti insieme appassionatamente, per dare il sacco alle casse dello Stato e spartirsi la torta del potere: dal Parlamento, giù giù, fino all'ultimo ente inutile di qualche scalcagnata amministrazione locale.

E non è nemmeno facile dire che non si è né di destra né di sinistra, perché subito si viene bollati come "qualunquisti"; e anche ciò, purtroppo, con qualche fondamento.

Il qualunquismo è esistito veramente, è stato addirittura un partito politico: una creazione nostrana, come lo era stato il fascismo; ma che, a differenza del fascismo, non ha fatto scuola nel resto del mondo. Era troppo squisitamente italiano.

Allora, cominceremo col dire perché non siamo di destra.

In un Paese normale, la destra non sarebbe rappresentata da un magnate dell'informazione che, dopo essersi fatto dare carta bianca da Craxi nella scalata alle reti televisive, cosa impensabile in qualsiasi altro paese dell'Occidente, si è poi fabbricato un partito su misura, strombazzando la rivincita del "nuovo" su un sistema "vecchio" e inadeguato.

Se fossimo di destra, ci vergogneremmo fino ad arrossire di marciare sotto simili bandiere.

Ma tanto, stiamo parlando per un puro gioco di fantasia: perché una destra, in Italia, non esiste. Al suo posto c'è un comitato d'affari che, col paravento del populismo, fa di tutto per aumentare i profitti di chi è già ricco e straricco, e per fare in modo che a pagare meno tasse siano quelli che possiedono i maggiori patrimoni e che vivono di pura rendita.

Quando in televisione sfilano i Bondi, i Cicchitto, i Casini, i Bossi e i Fini, l'unica salvezzza sta nel girare velocemente canale. Le loro frasi stereotipate, il rito col quale pontificano tre minuti a testa al microfono del telegiornale, parlando del bene del Paese e pensando solo alla propria fazione, è infinitamente triste, logoro, deprimente.

Che l'Italia abbia prodotto il fascismo, questo è un fatto storico che farà discutere ancora a lungo, in patria e fuori; accenderà passioni e discussioni, provocherà malumori e fierezze, recriminazioni e alzate d'orgoglio. Comunque, una cosa è certa: dalle tasche del Duce, appeso per i piedi al distributore di Piazzale Loreto, non è uscita neanche una monetina. Può darsi che Mussolini sia stato un personaggio infausto per l'Italia, tuttavia era un uomo del popolo, il figlio di un fabbro; e, a suo modo, aveva amato il nostro Paese. Ha provocato lutti e disastri, ma alla fine ha pagato di persona.

Che l'Italia abbia prodotto il berlusconismo, è e rimarrà sempre un marchio di vergogna. Se ne parlerà a lungo con disprezzo, così come se ne parla con disprezzo, e non da oggi, in tutto il resto del mondo, prima di tutto negli ambienti conservatori. Perché si può essere conservatori, ma persone serie; e, appunto per questo, non ci si può turare il naso oltre un certo limite. Il berlusconismo è stato, ed è, una malattia politica da cui ci vorranno generazioni per guarire: ha introdotto un nuovo stile nella politica italiana, lo stile dei soldi. L'idea che coi soldi si può fare tutto, aggiustare tutto, comprare tutto. Che tutto ha un prezzo, che tutto è in vendita. Povera Italia messa all'asta.

Ciò chiarito, passiamo a spiegare perché non siamo di sinistra.

In un paese normale, la sinistra non sarebbe rappresentata dai rimasugli, ripetutamente rivisti e corretti, dei due partiti politici che maggiormente hanno contribuito - in un arco di quasi mezzo secolo - a fare della propria patria un Paese anormale: la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista. C'è soltanto una cosa più brutta della ottusità clericale e della ottusità marxista, ed è la somma di queste due ottusità, per giunta intrise di moralismo d'accatto.

Anche qui, ci tocca vedere i vecchi arnesi della Prima Repubblica, quelli stessi che hanno portato l'Italia alla bancarotta morale e materiale, pavoneggiarsi nei panni dei salvatori della patria e dei campioni del "nuovo". Il nuovo che si chiama Andreotti, Dini, Amato, Prodi: diteci che è un brutto sogno, per favore. Che ci sveglieremo e scopriremo di aver solamente avuto gli incubi, conseguenze di una cattiva digestione.

Quando vediamo in televisione la sfilata dei Rutelli, dei Mastella, dei D'Alema; quando li udiamo recitare al microfono le solite formulette da catechismo, i soliti scongiuri e le solite giaculatorie,  non possiamo fare altro che cambiar canale. È uno spettacolo troppo avvilente e troppo monotono, privo del benché minimo volo di fantasia.

Ma la realtà è che una sinistra, oggi, non esiste. Una sinistra che dice sì alla base americana nel centro di Vicenza; che sposta i soldati dall'Iraq all'Afghanistan, per non urtare troppo l'amico George; ma che non li manda troppo in prima linea, adelante Pedro, con juicio, per non urtare troppo i propri elettori; che come primo atto di governo non sa far di meglio che varare l'indulto per mettere in libertà qualche decina di migliaia di detenuti, compresi (e soprattutto) quelli colpevoli di reati finanziari: ma che razza di sinistra è?

Se fossimo di sinistra, non potremmo fare altro che arrossire al posto loro; arrossire fino alla radice dei capelli.

Ma tanto, parliamo per gioco: perché lo sanno tutti che una sinistra, in Italia, non esiste. C'è solo una cultura statalista e catto-comunista che, per difendere i posti di lavoro, non sa far di meglio che stringere il catenaccio intorno ai dipendenti pubblici, qualunque cosa facciano o non facciano. Impossibile licenziare un professore che non insegna, un bidello che si finge malato, un postino che invece di consegnare la posta, la butta nel cassonetto. In nome della nobile difesa del più debole, si incoraggia la Repubblica dei fannulloni. E ci si assicura un bel serbatoio di voti, il che non guasta.

Ma è poi così importante essere di destra o di sinistra, coltivare la religione dell'appartenenza?

Evidentemente no.

Al mondo ci sono le persone oneste e ci sono i cialtroni; e questa distinzione è più che sufficiente. I cialtroni sono cialtroni e basta; le brave persone sono, semplicemente, delle brave persone.

Se la società italiana non si è ancora sfasciata completamente, il merito è delle brave persone; e chi se ne frega se sono di destra o di sinistra. Ce ne vorrebbero altre come loro.

Probabilmente non faranno carriera nelle università, perché non amano leccare il sedere dei baroni; né nella politica, o negli affari, o nella pubblica amministrazione, per la medesima ragione. Le brave persone sono essenzialmente persone libere. Libere da ricatti, da condizionamenti, da etichette che altri vorrebbero appioppare loro ad ogni costo.

Se dire queste cose significa far l'elogio del qualunquismo, tanto peggio.

Ma il vero qualunquista è furbo: non si espone, non dice come la pensa; critica tutti per non criticare veramente nessuno. Il qualunquista è un moralista ipocrita, un conservatore senza spina dorsale, un rivoluzionario che si prostituisce al miglior offerente.

Noi, invece, preferiamo coltivare un sogno: quello di un'Italia di cui si possa andare fieri e a testa alta.

Di una politica che non sia la misera occupazione del potere fine a se stesso; di un vivere civile che non si riduca all'astuzia di fregare il prossimo, prima che il prossimo freghi noi.

Di un mondo del lavoro dove si affermino la competenza e l'onestà, e non il clientelismo mafioso e para-mafioso.

Di una giustizia che sia veramente imparziale, che emetta le sentenze in tempi ragionevoli, che non sia vergognosamente debole coi forti e arrogantemente forte coi deboli.

Di un'informazione che non sia al soldo del padrone: perché oggi, per sapere quel che succede veramente nel nostro Paese, bisogna andare all'estero e leggere la stampa estera. Solo i lettori di Repubblica e del Corriere della Sera non lo sanno: loro credono ancora alle favolette di una stampa totalmente addomesticata. Una stampa che, giudicata dall'estero, fa semplicemente ridere.

Certo, è solo un sogno.

Ma un proverbio brasiliano dice: Quando si sogna insieme, è la realtà che incomincia.