Per questo il santo indossa rozze vesti / e cela nel seno la giada*
di Silvia Voltolina - 30/12/2005
Fonte: estovest.net
Un maestro è tale se c'è un discepolo del quale egli è maestro e un discepolo è tale se c'è un maestro del quale egli è discepolo: ci possono essere un maestro e un discepolo se fra due c'è relazione.
In fatto, dunque, di relazioni fra uomini si sono scelte queste due proposte.
Diogene, interrogato su che cos'è un amico, diceva: «Un'anima che riposa in due corpi»2.
Mentre Chuang-tzu seguiva un funerale, passò davanti alla tomba di Hui-tzu. Voltatosi disse a coloro che lo seguivano: «Un uomo di Ying aveva sulla punta del naso uno schizzo di fango grande come l'ala di una mosca. Incaricò di toglierla l'artigiano Shih, il quale, roteando l'ascia, suscitò un vento che l'asportò. Il fango sparì senza che il naso fosse danneggiato, mentre l'uomo di Ying se ne stette immobile senza batter ciglio. Quando Yüan, principe di Sung, udì ciò mandò a chiamare l'artigiano Shih e gli disse: "Prova a farlo sull'uomo di scarsa virtù". "È vero che il suddito è stato capace di togliere il fango -disse l'artigiano Shih- però il materiale è morto da molto tempo". Da quando il maestro (Hui-tzu) è morto non ho più il mio materiale. Non ho più nessuno a cui parlare»3.
Quello che meraviglia del racconto di Chuang-tzu è il comportamento dell'uomo di Ying e dell'artigiano Shih.
Di solito, infatti, se uno ha uno schizzo di fango sul naso se lo toglie da sé, o comunque non se lo fa togliere da un altro, per giunta con un'ascia roteante, temendo di rimetterci la testa. Con lo stesso timore, d'altra parte, l'altro non accetterebbe questa proposta, anche se gli fosse fatta. I due sono convinti che l'uno non sarebbe capace di controllare la mano dell'altro e che l'altro non sarebbe capace di sentire il naso dell'altro. Di solito, più due sono legati, più si astengono da simili gesta.
L'uomo di Ying e l'artigiano Shih, invece, le compiono, e con una serenità meravigliosa, come se si trattasse di naturali gesti dell'agire quotidiano. Oltre al buon esito dell'operazione è, infatti, notevole la condotta dei due, i quali non battono ciglio per quello che accade.
Non, dunque, due attori intenzionati a stupire il loro pubblico con la recita di una parte che a loro stessi pare improbabile, ma la spontaneità di due uomini i quali stanno togliendo di mezzo uno schizzo di fango così, come in altri momenti dormono o parlano. In effetti, fra l'uomo di Ying e l'artigiano Shih l'intesa è tale che l'uno è come il naso per l'altro e l'altro è come la mano per l'altro, e fare quello che fanno per l'uno è come grattarsi con la propria mano e per l'altro è come grattare il proprio naso.
In pratica, due anime in un corpo. Come gli amici del detto di Diogene.
Parlare di due anime in un corpo e di un'anima in due corpi così, come fanno Chuang-tzu e Diogene, è, in effetti, parlare in modi simili della stessa relazione. La relazione, appunto, che c'è fra anima e corpo, fra due uomini, fra un maestro e un discepolo. La relazione che c'è fra le parti di quel tutto che è l'universo.
I taoisti, infatti, sono soliti prestare attenzione al ch'i, al respiro (e in greco 'psyché' significa sia 'respiro' sia 'anima') dell'universo, al respiro che fa sì che il tutto sia un insieme di parti e che le parti siano sottoinsiemi di un tutto.
Sottoinsiemi complementari, che si alternano l'uno all'altro. Come la notte e il dì che succedendosi formano il giorno. La notte non potrebbe esserci se fosse sempre dì e il dì non potebbe esserci se fosse sempre notte; e la notte non potrebbe essere notte se non fosse preceduta dal tramonto, fine del dì, e se non fosse seguita dall'alba, inizio del dì, e il dì non potrebbe essere dì se non fosse preceduto dall'alba, fine della notte, e se non fosse seguito dal tramonto, inizio della notte, dove il limite fra notte e dì non è dì e non è notte ma è quello che fa sì che la notte sia notte e il dì sia dì e il giorno sia giorno; e il giorno non potrebbe esserci se non ci fossero la notte e il dì e la notte e il dì non potrebbero esserci se non ci fosse il giorno; e quando la notte fa spazio al dì fa spazio a sé dato che più si avvicina l'inizio del dì, più si avvicina la fine del dì, più si avvicina l'inizio della notte e quando il dì fa spazio alla notte fa spazio a sé dato che più si avvicina l'inizio della notte, più si avvicina la fine della notte, più si avvicina l'inizio del dì.
Come yin e yang, come il nero e il bianco nel t'ai chi tu. Come un uomo e una donna: un uomo non è una donna e una donna non è un uomo, così un'anima e un corpo, un uomo e un altro uomo, un maestro e un discepolo. E come un uomo non è complementare a tutte le donne e non è complementare a una donna qualunque, e come una donna non è complementare a tutti gli uomini e non è complementare a un uomo qualunque, così un maestro e un discepolo. Infatti Chuang-tzu sente la mancanza di Hui-tzu, e l'artigiano Shih non ripete il gesto con il principe Yüan, in quanto un'anima, per poter essere a suo agio in due corpi, deve poter essere a suo agio in ciascuno dei due.
E, dunque, anche Diogene sta al gioco dell'héteron ón, alla dialettica dei contrari, da cui nasce, bellissima, harmoníe.
Stando a questo gioco, un maestro sa che non può forzare uno a essere discepolo suo e non di un altro maestro e un discepolo sa che non può forzare uno a essere maestro suo e non di un altro discepolo; e un maestro è capace di non essere egoista con il discepolo, dato che sa che quello che dà al discepolo lo dà a sé; e è capace di non essere altruista con il discepolo, dato che sa che quello che fa per sé lo fa per il discepolo; e un discepolo è capace di non essere servile con il maestro, dato che sa che quello che fa per il maestro lo fa per sé; e è capace di non essere alienato dal maestro, dato che sa che quello che riceve dal maestro lo riceve da sé.
Infatti,
«la grande completezza è come spezzettamento / che nell'uso non si rompe»4,
dato che
«qualora tu avessi pensiero di qualche altro, allora non avrai cura di te stesso»5,
se senti l'altro come non in relazione con te, mentre
«la Via del Cielo / come è simile all'armar l'arco! / Quel ch'è alto viene abbassato, / quel ch'è basso viene innalzato, / quel che eccede viene ridotto, / quel che difetta viene accresciuto. / La Via del Cielo / è di diminuire a chi ha in eccedenza / e di aggiungere a chi non ha a sufficienza»6.
Così Diogene:
«e si meravigliava dei grammatici che ricercano i mali di Odisseo ma ignorano i propri. E certo anche che i musici armonizzano le corde nella lira ma hanno le consuetudini dell'anima disarmoniche; i matematici guardano su verso il sole e la luna ma non vedono le cose tra i piedi»7,
e
«vedendo uno stolto che si armonizzava un salterio, "Non ti vergogni" diceva "armonizzando i suoni al legno, ma non armonizzando l'anima alla vita?"»8,
sapendo che
«quando hai finito d'enumerar le parti del carro / ancor non hai il carro»9
(e in greco 'hárma', che significa 'carro', ha la stessa radice di 'harmoníe') se manca quel qualcosa che fa sì che il carro sia un carro.
Quel qualcosa c'è quando
«le creature voltano le spalle allo yin / e volgono il volto allo yang, / il ch'i infuso le rende armoniose»10
e quando non c'è è la fine di quell'universo che da esso ha vita, al punto che
«dicono che Diogene morì trattenendo il respiro»11.
Non è da tutti, però, saper rispondere alla domanda:
«preserva l'Uno dimorando nelle due anime: / sei capace di non farle separare?»12;
e anche Diogene,
«interrogato su qual è la cosa più pesante, diceva: "Il conoscere se stesso, infatti ciascuno pone su se stesso molte cose per egoismo"»13.
D'altra parte, vale la pena di tentare dato che, come racconta Lieh-tzu,
«il luogo equidistante dai quattro mari è detto l'Impero del Mezzo, a meridione e a settentrione del Ho, ad oriente e ad occidente del T'ai-shan, per diecimila e più li. Il volversi dello yin e dello yang è regolare e perciò una volta è stagione fredda e una volta è stagione calda, la divisione tra oscurità e chiarore è discernibile e perciò una volta è giorno e una volta è notte. Il suo popolo è composto di saggi e di stolti, le diecimila creature vi abbondano e vi prosperano, il talento e l'abilità vi assumono molteplici aspetti, v'è la reciproca assistenza tra principi e sudditi e la reciproca osservanza tra riti e leggi. Ciò che dicono e fanno non può essere narrato e calcolato. Una volta sono desti e una volta dormono: reputano reale ciò che fanno nella veglia e irreale ciò che vedono nel sogno»14.
Sicché,
«canzonando uno Diogene il saggio poiché essendo un filosofo mangia focacce, diceva: "Di tutto i filosofi prendono, ma non come i restanti uomini"»15.
Un maestro è tale se insegna qualcosa a un discepolo e un discepolo è tale se impara qualcosa da un maestro: ci possono essere un maestro e un discepolo se è possibile insegnare e imparare qualcosa.
In fatto, dunque, di possibilità e modalità dell'insegnare e dell'imparare si sono scelte queste due proposte.
«Uno voleva filosofare presso di lui; ed egli, dandogli una saperda, lo incitò a seguirlo. Poiché per vergogna gettatala se ne andò, dopo del tempo incontratolo e ridendo, diceva: "Una saperda disciolse la tua e mia amicizia". Ma Diocle così scrive. Dicendogli uno: "Comandi, Diogene", conducendolo via gli dava da portare un cacio da mezzo obolo; rifiutando, diceva: "Un piccolo cacio da mezzo obolo ha disciolto la tua e mia amicizia"»16.
«Mentre il duca Huang stava leggendo nella sala, sotto di essa il carradore Pien costruiva una ruota. Messi da parte martello e scalpello, costui salì su e chiese al duca Huang: "Oso domandare che parole sono quelle che leggi, o duca". "Sono le parole degli uomini santi" rispose il duca. "Questi santi sono vivi?" "Sono morti". "Allora - osservò il carradore - ciò che leggi, o duca, sono le fecce e gli avanzumi degli antichi". "Un carradore come può discutere di quel che legge l'uomo di scarsa virtù?" esclamò il duca Huang. "Se hai una spiegazione passi, ma se non hai una spiegazione morirai". "Il suddito la vede dal punto di vista del suo mestiere" spiegò il carradore Pien. "Nel costruire una ruota se vado piano il lavoro è gradevole ma non è solido, se vado in fretta è penoso e non si incastra. Se non è lento né affrettato, l'ho in mano e mi risponde nel cuore. In questo c'è un'arte, che con la bocca non so dire. Il suddito non può spiegarla a suo figlio e questi non può riceverla dal suddito. Così sono sulla settantina e, vecchio come sono, costruisco ruote. Gli antichi sono morti insieme a quello che non potevano tramandare: allora ciò che tu leggi, o principe, sono le fecce e gli avanzumi degli antichi"»17.
Quello che meraviglia del racconto di Chuang-tzu è il comportamento del carradore Pien.
Di solito, infatti, se uno non sa fare ruote e vuole impararlo va da un altro il quale sa fare ruote per farselo insegnare; e quest'altro gli dà qualche istruzione; e così anch'egli diventa uno il quale sa fare ruote. Il fatto di saper fare, sia l'uno, sia l'altro, ruote fa sì che i due si sentano simili; e lo sono, in quanto fanno ruote, sia l'uno, sia l'altro. Essi sono convinti di avere l'uno imparato e l'altro insegnato qualcosa.
Il carradore Pien, invece, sa che imparare non è imparare qualcosa ma è imparare a essere qualcosa e che insegnare non è insegnare qualcosa ma è insegnare a essere qualcosa. E sa che per insegnare a essere qualcosa bisogna saper essere qualcosa e che per imparare a essere qualcosa bisogna voler essere qualcosa.
Così, egli è un carradore. Sa che per essere un carradore non gli basta saper fare ruote, esercitarsi a fare ruote. Sa che l'esercizio necessario è un esercizio che lo coinvolge per intero, dalle mani al cuore, fino a fargli avere la ruota in mano che risponde nel cuore. Un esercizio di completezza. Che non si può dire ma solo praticare. Questo è quanto il carradore Pien sa, e le ruote vengono da sé. Questo è quanto può insegnare: non qualcosa, insegnare come fare ruote, ma a essere qualcosa, insegnare che è possibile essere carradore se si è come lui il quale ha la ruota in mano che risponde nel cuore.
D'altra parte, egli ha bisogno di qualcuno il quale voglia essere un carradore per insegnare a essere un carradore. E suo figlio non è tale. Ma questo non gli pesa così, come non gli pesa la sua settantina e non gli pesa il suo mestiere. Il carradore Pien sa, infatti, che due completezze possono essere diverse essendo uguali quanto a completezza.
E come l'artigiano Shih e il principe Yüan, e come il carradore Pien e suo figlio, così anche il tale del detto di Diogene: di fronte a uomini di tanta pratica e di poche parole, anch'esse non detti ma fatti, getta la saperda o rifiuta il cacio da mezzo obolo. Con la differenza, però, che questo tale, non apprezzando il valore della proposta, oltre a gettare la saperda o rifiutare il cacio da mezzo obolo, anche discioglie l'amicizia, la relazione con Diogene, mentre il figlio del carradore Pien, se anche da suo padre non ha imparato a essere un carradore, ha imparato a imparare.
E Diogene sa quanto conta per un discepolo imparare a imparare, come anche per un maestro imparare a insegnare e insegnare a imparare. Sa quanto conta, per l'uno e per l'altro, avere un méthodos. Che non è solo tabelle di marcia, parole (e in greco 'lógos', che significa 'parola', ha la stessa radice di 'légo', che significa 'parlo' ma anche 'raccolgo', 'scelgo e metto insieme'), ma è già camminare insieme lungo una via. Dunque è già áskesis, esercizio di vita.
Quanto alla vita come esercizio, come attenzione al e cura del modo di vivere, è quello che i taoisti chiamano wu wei, non agire su ciò che è altro in modo da scontrarsi con esso e fare male a sé e all'altro, controllare invece la propria azione e l'altro verrà da sé. In un insieme coordinato di parti, infatti, l'agire di ognuna di esse si comunica con i suoi effetti a ognuna delle altre, dato che tutte camminano insieme lungo una via.
Così, il governante governa sé, e i governati sono governati. E il medico cura sé, e gli ammalati guariscono, o si conserva sano, e non ci sono ammalati. Così, se un sasso cade in un ruscello l'acqua non gli va contro con violenza ma continua il suo corso, e via via il sasso si consuma e il ruscello devia. E se anche è primavera i ciliegi non si sforzano di far spuntare le foglie ma continuano a godere del sole e dell'acqua, e via via le foglie spuntano.
Questa è la forza senza sforzo; la potenza, la capacità senza violenza.
Il maestro, il quale ha questa capacità, non è teso a insegnare qualcosa al discepolo ma, mentre cammina insieme a lui lungo una via, si esercita per essere capace di fare questo qualcosa, e il discepolo, mentre cammina insieme a lui lungo la via, impara dal maestro che anch'egli è capace di fare questo qualcosa, se ne è capace. E, comunque, il maestro non è teso a trovare un discepolo e il discepolo non è teso a trovare un maestro, e così prima o poi i due si incontrano.
E allora
«non ricevendo Antistene alcun discepolo e non potendo rimuovere Diogene che perseverava, in fine minacciò una clava, se non fosse andato via. A cui quegli si dice abbia sottomesso il capo, e abbia detto: "Non ci sarà alcun bastone tanto duro che possa separare me dal seguire te"»18,
e anche
«si dice dunque che Onesicrito egineta abbia mandato ad Atene l'uno di due figli che aveva, Androstene, il quale, udito Diogene, lì rimane; avendo quegli scelto di inviare da quello anche l'altro, il più vecchio Filisco, ugualmente anche Filisco si trattiene. La terza volta, giunto egli stesso, niente meno sta a filosofare insieme ai ragazzi»19,
questo per il fatto che
«la Via del Cielo / è di ben vincere senza contendere, / è di ben suscitar risposta senza parlare, / è di ben attrarre senza chiamare, / è di ben divisare con ampiezza»20.
Infatti uno
«quando non agisce nulla v'è che non sia fatto»21,
e
«per questo il santo / permane nel mestier del non agire / e attua l'insegnamento non detto. / Le diecimila creature sorgono ed ei non le rifiuta / le fa vivere ma non le tiene come sue, / opera ma nulla s'aspetta. / Compiuta l'opera ei non rimane / e proprio perché non rimane / non gli vien tolto»22;
dunque nessuna comprensione per chi e agisce e non ottiene che qualcosa sia fatto, dato che
«mangiando un bambino ghiottamente, Diogene diede un pugno al pedagogo. Rettamente prendendo l'errore non come di quello che non imparò ma come di quello che non insegnò»23,
e che
«a lungo uno leggendo e alla fine del libro mostrandolo non scritto, "Abbiate coraggio" diceva Diogene "uomini, vedo terra"»24.
Ma nessuna comprensione anche per chi non comprende che non agire e esercitarsi vanno di pari passo; se uno
«è quadrato ma non taglia, / è incorrotto ma non ferisce, / è diritto ma non ostenta, / è luminoso ma non abbaglia»25
è pur uno quadrato e incorrotto e diritto e luminoso oltre a essere uno il quale risponde all'invito
«pratica il non agire, / imprendi il non imprendere»26;
così Diogene, il quale
«doppio diceva essere l'esercizio, l'uno dell'anima, l'altro del corpo»27,
e
«una volta chiedeva a una statua; interrogato su perché facesse ciò, disse: "Mi alleno a non ottenere"»28,
e
«nella stagione calda si rotolava su sabbia bollente, nella stagione delle tempeste abbracciava statue innevate, in ogni modo esercitando se stesso»29.
Ecco che come
«nulla al mondo è più molle e più debole dell'acqua / eppur nell'abradere ciò che è duro e forte / nessuno riesce a superarla, / nell'uso nulla può cambiarla. / La debolezza vince la forza, / la mollezza vince la durezza»30,
di modo che
«forza è attenersi alla mollezza»31;
«così accade anche che molti, sia uomini politici sia filosofi, essendoglisi presentati e congratulandosi, sperava che anche Diogene il sinopeo, che indugiava intorno a Corinto, facesse lo stesso. Ma poiché quegli, avendo pochissima stima di Alessandro, stava in ozio nel Craneo, andava egli da lui; si dà il caso che fosse sdraiato al sole. E si mise un poco seduto, sopraggiungendo uomini tanto grandi, e fissò lo sguardo su Alessandro. Ma poiché quegli, salutando e rivolgendogli la parola, domandò se per caso avesse bisogno di qualcosa, disse: "Spostati un poco dal sole". A ciò si dice che Alessandro, disprezzato, fu così disposto e meravigliato quanto all'orgoglio e alla grandezza dell'uomo che, quelli intorno a lui deridendolo e canzonandolo appena se ne andarono, disse: "Ma certo io se non fossi Alessandro sarei Diogene"»32;
al punto che Diogene
«è paragonabile ad un pargolo, / che velenosi insetti e serpi non attoscano, / belve feroci non artigliano, / uccelli rapaci non adunghiano. / Deboli ha l'ossa e molli i muscoli / eppur la sua stretta è salda, / ancor non sa dell'unione dei sessi / eppur tutto s'aderge: / è la perfezione dell'essenza, / tutto il giorno vagisce / eppur non diviene fioco: / è la perfezione dell'armonia»33.
Come racconta Lieh-tzu,
«a Sung c'era un uomo che, per il suo principe, da un pezzo di giada ricavava una foglia di gelso: per finirla ci mise tre anni. Per la lamina, il picciolo, la peluria e la lucentezza, a mescolarla in mezzo alle foglie di gelso non si riusciva a distinguerla. Di conseguenza costui fu nutrito dallo stato di Sung per la sua abilità. Quando Lieh-tzu ne udì parlare, disse: "Se nel dar vita alle creature il Cielo e la Terra impiegassero tre anni per finire una foglia, sarebbero poche le creature che hanno le foglie. Perciò l'uomo santo pone la sua fiducia nelle trasformazioni del Tao e non nella sapienza e nell'abilità"»34,
nel non agire efficace e non nell'agire inefficace:
«quando infatti si diceva che Filippo già muoveva contro, i corinzi erano tutti agitati e erano in lavoro, l'uno apparecchiando armi, l'altro portando avanti pietre, l'altro edificando sopra le mura, l'altro sostenendo un parapetto, chi altri servendo in qualcos'altro di utile. Ebbene Diogene, vedendo queste cose, poiché niente aveva che anche potesse fare -nessuno infatti lo usava per qualcosa-, ricintosi il mantello, molto di fretta anch'egli rotolava la botte, in cui si trovava a abitare, su e giù del Craneo; e uno degli abituali domandando "Perché fai queste cose, o Diogene?", "Rotolo" diceva "anch'io la botte, per non sembrare non fare niente solo fra così tanti i quali lavorano"»35.
Un maestro è tale se insegna a un discepolo qualcosa di utile e un discepolo è tale se impara da un maestro qualcosa di utile: ci possono essere un maestro e un discepolo se c'è qualcosa di utile da insegnare e da imparare.
In fatto, dunque, di utilità di quello che è insegnato e imparato si sono scelte queste due proposte.
«Tolgono via anche geometria e musica e tutte le cose tali. Diogene dunque a uno che gli mostrava una meridiana diceva: "Utile, l'opera, per non tardare a pranzo"»36.
«Lieh Yü-k'ou tirava d'arco a beneficio di Po-hun Mou-jên. Tenendo una tazza colma d'acqua sul gomito, tendeva l'arma al massimo e scoccava: mentre una freccia andava ad unirsi alle altre, una nuova era già incoccata. Per tutto il tempo sembrò una statua. "Questo è il tiro di chi bada a tirare - disse Po-hun Mou-jên - non è il tiro di chi non bada a tirare. Se saliamo insieme su un'alta montagna e posiamo i piedi su una roccia sporgente, a picco su un abisso profondo cento canne, sarai capace di tirar d'arco?" Così Mou-jên salì su un'alta montagna, si mise su una roccia sporgente, a picco su un abisso profondo cento canne, indietreggiò con le spalle voltate fino a che i suoi piedi sporsero per due decimi all'infuori e s'inchinò a Yü-k'ou per invitarlo a farsi avanti. Yü-k'ou giaceva prostrato a terra, col sudore che gli scorreva fino alle calcagna. "L'uomo sommo - disse Po-hun Mou-jên - scrutando in alto l'azzurro Cielo e attraversando in basso le Sorgenti Gialle, tollera le otto direzioni senza che il suo spirito e il suo ch'i si alterino. Invece tu, tutto tremante, hai solo voglia di chiudere gli occhi. È dentro di te che sta il pericolo!"»37.
Quello che meraviglia del racconto di Chuang-tzu è il comportamento di Po-hun Mou-jên.
Di solito, infatti, se uno si esercita a tirare d'arco lo fa per imparare a tirare d'arco, e quando lo ha imparato suppone di essere arrivato, e anche gli altri lo suppongono tale.
Po-hun Mou-jên, invece, non suppone che Lieh Yü-k'ou sia arrivato; sa che ha imparato a tirare d'arco, ma sa anche che non ne ha imparato l'utilità; e con il suo comportamento gliela indica. Gli indica, infatti, che si è arrivati quando si è capaci di vivere bene, e che esercitarsi a tirare d'arco non serve a tirare d'arco ma serve a vivere bene, e che tirare d'arco è esercitarsi a vivere bene. E gli indica che quando si è imparato a vivere bene si può anche essere capaci di tirare d'arco bene; ma allora il tiro, pur essendo un semplice tiro, non è un tiro qualunque; allora il tiratore è consapevole di sé e non è solo un tiratore; allora il tirare, una delle tante vie, è un momento del vivere, del vivere bene se la via è praticata bene. Ecco dunque un tiro che è un non tiro; dove, d'altra parte, tirare d'arco e vivere non sono assoluti ma tirare è già vivere e vivere è anche tirare.
Po-hun Mou-jên indica questo a Lieh Yü-k'ou. Senza disprezzare le sue capacità fa sì che capisca che sono solo un inizio; senza intenzione di insegnargli qualcosa fa sì che impari che ha ancora da imparare.
Così come Diogene con quel tale del suo detto, il quale gli mostra la meridiana. Diogene non disprezza la meridiana, ma solo in quanto utile per vivere bene. E additando con il proprio comportamento l'inconsapevolezza di quel tale fa sì che quegli ne diventi consapevole. Dato che fra le mani di Diogene anche la meridiana diventa una non meridiana.
Non meridiana che per i taoisti è una wu meridiana così, come il non tiro è un wu tiro. Infatti è solo dopo essersi vuotata di tutto quello che non è meridiana che una meridiana è una meridiana così, come è dopo essersi vuotato di tutto quello che non è tiro che un tiro è un tiro. Il vuoto essendo il bianco della carta, che fa sì che il nero dell'inchiostro sia visibile e che una calligrafia sia una calligrafia; o il silenzio delle pause, che fa sì che il suono delle note sia udibile e che una musica sia una musica; o la negazione, che fa sì che l'affermazione sia una affermazione e che possa esistere il dialogo.
Ma anche Diogene sa che il pieno è lo sfondo necessario del vuoto e il vuoto è lo sfondo necessario del pieno, che l'eînai è lo sfondo necessario del mè eînai e il mè eînai è lo sfondo necessario dell'eînai. E sa che la convivenza fra i due è regolata da quel medèn ágan che trasforma ogni cháos in un kósmos indicandone la misura propria. Da cui non può non nascere quell'eû zên che è la sola pratica di Diogene e di Po-hun Mou-jên, del carradore Pien, dell'uomo di Ying e dell'artigiano Shih.
Ecco che il maestro di un discepolo, il quale vuole imparare a vivere bene, si esercita a vivere bene, insieme al discepolo, e il discepolo di un maestro, il quale vive bene, si esercita a vivere bene, insieme al maestro. E i due camminano lungo una via, sapendo che è solo una fra tante, ma sapendo anche che, se quella è la loro, solo quella vogliono praticare, per tutta la vita e in ogni occasione, dato che comunque vale la pena di praticare l'esercizio di vivere bene.
Ecco allora che Diogene
«a uno che disse: "Sono inadatto per la filosofia." diceva: "Perché dunque vivi, se non ti curi di vivere in bel modo?"»38
e
«a uno che disse che il vivere è un male disse: "Non il vivere. Ma il vivere malamente"»39.
e
«tentando di notte un ladro di sottrargli dal capo un sacchetto con delle monete, e sentendo quegli, "Levalo," disse "infelice, che tu faccia dormire entrambi"»40;
così che egli
«va per deserti senza incontrar rinoceronti e tigri, / va tra gli eserciti senza indossar corazza e arme: / il rinoceronte non ha dove infilzar il corno, / la tigre non ha dove affondar l'artiglio, / il guerriero non ha dove immergere la spada»41.
Se, però, può farlo, è perché sa che
«se ti pieghi ti conservi, / se ti curvi ti raddrizzi, / se ti incavi ti riempi, / se ti logori ti rinnovi, / se miri al poco ottieni, / se miri al molto resti deluso»42;
al punto che
«lodando alcuni colui che gli fece un'offerta, diceva: "E non lodate me, degno di ricevere"»43.
Infatti
«le diecimila creature che sono sotto il cielo / hanno vita dall'essere, / l'essere ha vita dal non-essere»44
e
«è così che / essere e non-essere si danno nascita fra loro, / facile e difficile si danno compimento fra loro, / lungo e corto si danno misura fra loro, / alto e basso si fanno dislivello fra loro, / tono e nota si danno armonia fra loro, / prima e dopo si fanno seguito fra loro»45,
è così che il cosmo ha vita dal caos. E comunque
«il santo / rifugge dall'eccesso»46
e
«Diogene, andato ad Olimpia e osservando nella riunione alcuni giovani di Rodi magnificamente vestiti, ridendo diceva: "Questo è fumo". Imbattendosi poi in dei lacedemoni in esomidi da nulla e sudicie, disse: "Questo è altro fumo"»47.
Dunque,
«chi si dedica allo studio ogni dì aggiunge, / chi pratica il Tao ogni dì toglie, / toglie ed ancor toglie / fino ad arrivare al non agire»48.
E Diogene non manca di togliere:
«e di nuovo dicendo uno "I sinopei ti condannarono all'esilio", "Ma io appunto" disse "loro al restare"»49,
e
«avendo mandato a uno di provvedergli una casetta, avendo questi tardato, la botte nel Metroo ha come casa»50,
e
«osservando una volta un bambinello che beveva con le mani, buttò via dalla bisaccia la ciotola, dicendo: "Un bambinello mi ha vinto in semplicità". Gettò via anche il piatto, similmente osservando un bambinello che, poiché ruppe l'arnese, accoglieva le lenticchie nel cavo del pezzo di pane»51,
e
«diceva Diogene che se dei cani lo dilaniassero, ircana sarà la sepoltura; se degli avvoltoi, da mangiare; se nessuno venisse, il tempo farà più bella la sepoltura per mezzo delle cose più magnifiche, sole e pioggia»52.
D'altra parte
«la grande pienezza è come vuotezza / che nell'uso non s'esaurisce»53
«nella misura in cui / trenta razze s'uniscono in un sol mozzo / e nel suo non-essere si ha l'utilità del carro, / s'impasta l'argilla per fare un vaso / e nel suo non-essere si ha l'utilità del vaso, / s'aprono porte e finestre per fare una casa / e nel suo non-essere si ha l'utilità della casa. / Perciò l'essere costituisce l'oggetto / e il non-essere costituisce l'utilità»54
e
«lo spazio tra Cielo e Terra / come somiglia a un mantice! / Si vuota ma non s'esaurisce, / si muove ed ancor più n'esce»55.
Lieh-tzu racconta che
«Chi Hsing-tzu addestrava un gallo da combattimento per il re Hsüan dei Chou. Dopo dieci giorni costui gli chiese: "Il gallo è in grado di combattere?" "Non ancora" gli rispose. "È arrogante e presuntuoso". Dopo dieci giorni quello s'informò di nuovo. "Non ancora" gli disse. "Reagisce alle ombre e agli echi". Dopo dieci giorni quello s'informò di nuovo. "Non ancora" gli disse. "Ha lo sguardo battagliero e il temperamento collerico". Dopo dieci giorni quello s'informò di nuovo. "Può andare" disse. "Non si muove nemmeno se c'è un gallo che lancia un richiamo, a guardarlo sembra un gallo di legno. La sua virtù è completa. Un gallo che non sia come lui non oserà fargli fronte e fuggirà"»56:
questa è la potenza del vuoto, quella per cui anche Diogene
«come dimostrazione porta per ciascuna di queste cose il coraggio di sé, l'imperturbabilità, la libertà, poi il corpicino splendente e sodo»57.
Un maestro è tale se insegna a un discepolo a essere quello che è e un discepolo è tale se impara da un maestro a essere quello che è: ci possono essere un maestro e un discepolo se è possibile essere quello che si è.
In fatto, dunque, di possibilità e modalità dell'essere quello che si è si sono scelte queste due proposte.
«Accesa una lanterna dopo che già era giorno, dice: "Vado in cerca di un uomo"»58.
«Mentre Confucio contemplava sul monte Lü-liang le acque che precipitavano da un'altezza di trenta canne e la schiuma che scorreva per quaranta li, tanto che le testuggini, i sauri, i pesci e le tartarughe non potevano nuotarvi, vide un uomo che vi nuotava. Lo prese per uno che, avendo dei dispiaceri, volesse darsi la morte e ordinò ai suoi discepoli di correre alla sua altezza e di afferrarlo. Ma costoro avevano fatto alcune centinaia di passi quando quello uscì dall'acqua e se ne andò a passeggiare lungo l'argine, con i capelli sciolti sulle spalle e cantando una canzonetta. Confucio lo seguì e l'interrogò dicendo: "Ho creduto che tu fossi un fantasma, ma esaminandoti vedo che sei un uomo. Mi permetto di chiedere se hai una Via per avventurarti nelle acque". "No, non ho nessuna Via" disse l'uomo. "Ho cominciato con lo stato nativo, ho progredito con le qualità naturali, mi sono perfezionato con il decreto celeste. Entro insieme al flusso ed esco insieme al riflusso. Seguire il modo di comportarsi dell'acqua senza averne uno mio proprio: questo è il modo con cui mi avventuro". Chiese Confucio: "Che significa: ho cominciato con lo stato nativo, ho progredito con le qualità naturali, mi sono perfezionato con il decreto celeste?" "Che io sia nato sulla terra e mi trovi bene sulla terra è stato nativo - rispose l'uomo - che abbia progredito nell'acqua e mi trovi bene nell'acqua è qualità naturale, che io faccia in un certo modo senza sapere il perché è decreto celeste"»59.
Quello che meraviglia del racconto di Chuang-tzu è il comportamento dell'uomo che nuota.
Di solito, infatti, se uno intende immergersi in un'acqua molto agitata non lo fa senza paura, in quanto teme di non essere fatto per simili gesta; teme di non essere fatto per quell'acqua o teme che quell'acqua non sia fatta per lui. Per cui, se proprio intende immergervisi, prima di farlo cerca di conformare quell'acqua a sé, con degli sbarramenti o con delle deviazioni; o cerca di conformare sé a quell'acqua, con degli ancoraggi o con dei galleggianti; ma sempre con la paura che anche questo non sia sufficiente a colmare la distanza fra sé e quell'acqua.
L'uomo che nuota, invece, non sente questa distanza, non ha questa paura, non usa queste tecniche. Non sente questa distanza, in quanto sa che questa distanza non c'è; egli conosce sé e conosce quest'acqua, conosce la propria natura e la natura propria di quest'acqua, i propri limiti e i limiti propri di quest'acqua; egli conosce il limite fra sé e quest'acqua e sa che questo limite è quello che lo unisce a essa. E così non ha questa paura. E non usa queste tecniche di approccio, in quanto sa che sarebbero solo di impiccio in una relazione che già c'è, che già funziona.
Quest'uomo, così com'è, sta in quest'acqua, così com'è. E nuota. Non avendo una via, avendo una non via, una via vuota, una via per vuotarsi di tutto quello che riempie ma è inutile, pesante, e quindi affonda e fa affondare.
L'uomo che nuota non sa perché nuota, sa solo che è capace di nuotare, e questo è quel tanto che basta per far sì che nuoti. Sapere il perché sarebbe per lui solo un peso inutile. Sapere, invece, che in questo momento il suo posto è in quest'acqua e il posto di quest'acqua è intorno a lui gli è utile per potersi abbandonare a essa, senza pesarle e senza esserne appesantito.
È così che egli può fare quello che non possono fare le testuggini, i sauri, i pesci, le tartarughe. Le loro capacità sono diverse, le loro vie sono diverse. Non è, infatti, l'incoscienza che fa sì che quest'uomo nuoti; è la non coscienza, la coscienza vuota che lo tiene a galla; e la coscienza si vuota con l'esercizio, esercitandosi a prendere coscienza del vuoto. Testuggini, sauri, pesci, tartarughe praticano vie diverse, in acque diverse. Egli invece ha imparato a ascoltare quest'acqua, a rispondere ai flussi e riflussi di questa con i propri, ha imparato a parlarle, a dialogare con essa. È così che nuota con piacere.
Questa non via è la sua via, questo è quello che egli impara e insegna con il suo comportamento. L'uomo che nuota è quello che è, ne è consapevole e si esercita per esserlo nel miglior modo possibile; senza illusioni e senza delusioni dato che ognuno può essere quello che è.
Ma non tutti ne sono consapevoli. E è questo che Diogene cerca. Egli, stando al suo detto, vuole trovare almeno uno il quale sia un uomo sapendo di esserlo e volendo esserlo.
Il che è saputo dai taoisti, i quali chiamano tê (e in greco 'areté') questa virtù capiente e capace o capacità virtuosa.
Questo essere qualcosa essendone consapevoli e esercitandosi a esserlo. Infatti, una danzatrice è una danzatrice non tanto se il pubblico la acclama così o se un contratto la definisce tale, quanto se ella sa di esserlo e vuole esserlo; e una flautista è una flautista non tanto se ha un flauto fra le mani, quanto se lo suona.
Questo non sorprendersi di quello che si è; e non cercare di accelerare o rallentare, avvicinare o allontanare quello che non può essere accelerato né rallentato né avvicinato né allontanato; e valutare quello che si è e quello che non si è ma con cui si è in relazione. Infatti, quando a un olivo cresce un ramo in un punto e non in un altro, quell'olivo non se ne sorprende e non cerca di contenerlo e di farne crescere un altro in un altro punto, ma ne prende atto e lascia che quel ramo cresca in quel punto e così tutto l'olivo cresce. E quando un insetto nasce maschio e non femmina, quell'insetto non se ne sorprende e non cerca di diventare femmina, ma ne prende atto e si lascia essere maschio e così vive. E quando una nuvola diventa neve e non pioggia, quella nuvola non se ne sorprende e non cerca di contenere la neve e di farla diventare pioggia, ma ne prende atto e lascia cadere la neve e così inizia a nevicare.
Tutto questo è tzu jan.
Quello che Diogene non si stanca di imparare, e di praticare, e di insegnare a hoi polloí: non essere idiota (e in greco 'idiótes', che significa 'chi non si sa in relazione', è contrario a 'kaírios', che significa 'chi si sa in relazione nel tempo e nel luogo opportuni'), gnôthi sautón.
E lungo la stessa via di Diogene e dell'uomo che nuota, ognuno lungo la propria e tutti lungo la stessa, sono anche l'uomo di Ying e l'artigiano Shih, e il carradore Pien, e Po-hun Mou-jên. E anche un maestro e un discepolo possono praticare questa stessa via. E allora i due non ignorano i propri limiti, e non ignorano il confine che c'è fra loro, e non ignorano le proprie potenze; ognuno dei due sa qual è il suo posto e ci sta nel miglior modo possibile per sé e per l'altro e per gli altri. E così il discepolo non diventa schizofrenico, dato che dal maestro impara a essere quello che già è. E il discepolo non diventa idiota, dato che imparando a essere quello che è impara che è in relazione a quello che non è. E così il discepolo è discepolo del maestro ma anche maestro di sé e il maestro è maestro del discepolo ma anche discepolo di sé.
Così,
«Diogene derideva quelli i quali sigillano i tesori con sbarre e chiavi e sigilli, ma aprono il loro corpo con porticine e porte per mezzo di bocca e pudenda e orecchi e occhi»60;
infatti
«senza uscir dalla porta / conosci il mondo, / senza guardar dalla finestra / scorgi la Via del Cielo. / Più lungi te ne vai meno conosci»61
e
«chi conosce gli altri è sapiente, / chi conosce se stesso è illuminato»62;
così
«è cosa ridicola per un uomo il quale non risparmia i propri mettere mano a educare degli estranei»63.
Quando
«uscendo dal bagno, a uno che si informò se molti uomini vi si lavassero disse di no; a un altro che si informò se vi fosse molta folla disse di sì»64
e
«diceva che sono uomini solo quelli che conoscono le cose umane come quelli che sanno le cose della grammatica grammatici e musici quelle della musica»65,
Diogene lo fa sapendo questo:
«conosci te stesso e falsifica la moneta, oracoli pitici. Cioè l'opinione dei più guardala dall'alto e falsifica non la verità ma la moneta»66.
Ecco dunque che egli
«a teatro andava dentro incontro a quelli che venivano fuori; interrogato su perché, diceva: "Questo in tutta la vita curo di fare"»67;
e il suo andare spontaneamente contro la corrente dei più per seguire la sua è dato dal fatto che
«la virtù somma è come valle»68,
«la virtù somma non si fa virtù / per questo ha virtù»69.
Sicché Diogene è un maestro il quale sa che insegnare a dei discepoli
«è come friggere pesciolini minuti»70.
A Lieh-tzu il quale racconta che
«Confucio era in viaggio verso il T'ai-shan quando incontrò Jung Chi-ch'i che, vestito d'una pelle di cervo e cinto d'una corda, vagava nel contado della città di Ch'êng, suonando il liuto e cantando. "Signore, qual è il motivo di tanta allegrezza?" gli chiese Confucio. "Mi rallegro per molte cose" rispose quello. "Tra le creature a cui il Cielo dà la vita, l'uomo è la più nobile: poiché a me è toccato d'esser uomo, questo è il primo motivo d'allegrezza. Nella distinzione tra maschio e femmina, il maschio è più onorato e la femmina meno, per cui il maschio è ritenuto più nobile: poiché a me è toccato d'esser maschio, questo è il secondo motivo d'allegrezza. Tra coloro che vengono alla vita ve ne sono alcuni che non vedono un giorno o un mese, oppure non escono dalle fasce: poiché io ho già passato i novant'anni, questo è il terzo motivo d'allegrezza. La povertà è la norma del letterato, la morte è la fine dell'uomo: mi tengo alla norma e aspetto la fine. Di che mi affliggerei?" "Eccellente!" esclamò Confucio. "È uno capace di consolarsi"»71
fa eco Diogene il quale
«presentandoglisi una volta Alessandro e dicendo: "Io sono Alessandro il gran re.", dice: "E io sono Diogene il cane"»72.
Un maestro è tale se insegna a un discepolo che egli, discepolo, è divino e un discepolo è tale se impara da un maestro che egli, discepolo, è divino: ci possono essere un maestro e un discepolo se è possibile insegnare e imparare che si è divini.
In fatto, dunque, di possibilità e modalità dell'essere divini si sono scelte queste due proposte.
«"Di', o cane, di che uomo custodisci la tomba standole vicino?" / "Del Cane". "Ma chi era quest'uomo, il Cane?" / "Diogene". "Di' la nascita". "Sinopeo". "Che abitava una botte?" / "Sì certo. Ma ora essendo morto ha come casa le stelle"»73.
«Mentre Confucio si recava nel regno di Ch'u, uscendo da una foresta vide un gobbo che acchiappava le cavallette come se le raccogliesse. "Sei abile!" esclamò Confucio. "Hai una Via?" "Ho una Via" rispose l'altro. "Per cinque o sei mesi se non faccio cadere due palle messe l'una sull'altra in cima alla canna, allora sono poche le cavallette che manco; se non faccio cadere tre palle sovrapposte, allora ne manco una su dieci; se non ne faccio cadere cinque, allora è come se le raccogliessi. Tengo il corpo fermo come se fosse un ceppo, dirigo il braccio come se fosse un ramo d'albero secco. Per quanto grandi siano il Cielo e la Terra, per quanto numerose siano le creature, io sono consapevole solo delle ali delle cavallette. Con tutta tranquillità non darei l'ala d'una cavalletta in cambio delle diecimila creature. Come farei a non riuscire?" Confucio disse rivolto ai suoi discepoli: "Se fate uso d'una volontà indivisa, vi concentrate nello spirito. Questo è quel che ha voluto dire il gobbo!"»74.
Quello che meraviglia del racconto di Chuang-tzu è il comportamento del gobbo che acchiappa le cavallette.
Di solito, infatti, se uno acchiappa una cavalletta si considera fortunato; ma prima di averlo fatto non è sicuro che ce la farà e dopo averlo fatto non è sicuro che ce la farà un'altra volta. Inoltre, dà alla cosa il valore che gli sembra essa meriti: cavalletta più, cavalletta meno, la sua vita non cambia per questo. Se, invece, egli acchiappa le cavallette come se le raccogliesse, ecco che già si parla di lui come di un uomo divino, incomparabile per la sua capacità.
Il gobbo che acchiappa le cavallette, invece, sa che non si tratta solo delle cavallette, che di per sé non cambierebbero nemmeno la sua di vita; egli sa che si tratta di lui; sa che anche questa può essere una via, una pratica di vita.
E così egli non acchiappa le cavallette a caso. Le acchiappa dato che questa è la sua via. Prima di averle acchiappate sa che le acchiapperà e dopo averle acchiappate sa che ne acchiapperà delle altre, dato che questa è la via che egli pratica.
Così egli ha una via per essere capace di acchiappare le cavallette. Ha un metodo: un accurato esercizio di autovuotamento. Esercizio che vuota e che si vuota fino a non essere più altro da ciò che vuota. È esercitandosi, infatti, che il gobbo che acchiappa le cavallette diventa capace di tenere il corpo fermo come se fosse un ceppo, vuoto come un ceppo. E diventa capace di dirigere il braccio come se fosse un ramo d'albero secco, vuoto come un ramo d'albero secco. Egli il quale già è gobbo, incavato, vuoto.
Sicché, una cavalletta che si avventuri in tutto questo vuoto non può sfuggirgli. Ma in tutto questo vuoto non può sfuggirgli nemmeno la propria presenza. Egli è presente a sé e in quanto presente a sé è presente alle cavallette che sono presenti a lui.
Così, il gobbo che acchiappa le cavallette fa la propria parte, e fa sì che anche le cavallette facciano la loro, mentre sia egli che esse sentono via via di più quel tutto di cui le loro parti sono parte, la natura cui le loro nature appartengono. E non c'è più il gobbo, e non ci sono più le cavallette, ma c'è un gobbo che acchiappa cavallette.
E la sua padronanza di sé nel farlo è tale che egli pare divino.
Come divino pare Diogene, divenuto stelle, incomparabile per le sue capacità. E invece anch'egli è divino, e lo è il gobbo che acchiappa le cavallette; ma lo è per la sua consapevolezza del divino che è in ogni cosa, che lo fa capace di dialogare con esso; è dunque divino, ma non incomparabile.
Per i taoisti, infatti, la condizione di possibilità delle diverse vie è la via delle vie, che fa sì che tutte le vie siano; la condizione di possibilità delle diverse nature è la natura delle nature, che fa sì che tutte le nature siano; la condizione di possibilità delle diverse esistenze è l'esistenza delle esistenze, che fa sì che tutte le esistenze siano; la condizione di possibilità di tutto è il tao.
Così, il tao non ha un inizio e non ha una fine e con questo fa sì che ogni cosa nasca e muoia ma il nascere e il morire non abbiano un inizio e non abbiano una fine; non ha un alto e un basso, non ha una destra e una sinistra, non ha un davanti e un dietro e con questo fa sì che ogni cosa si muova nello spazio ma il muoversi nello spazio non abbia un alto e un basso, una destra e una sinistra, un davanti e un dietro; non ha un prima e non ha un poi e con questo fa sì che ogni cosa si muova nel tempo ma il muoversi nel tempo non abbia un prima e non abbia un poi. Così, il tao è divino e con questo fa sì che gli uomini siano umani ma il loro essere umani sia divino.
Ogni uomo, dunque, in qualità di esistente, ha un suo tao, che è una delle tante e diverse possibilità condizionate al tao. Ha una sua phýsis, che è una delle tante e diverse possibilità condizionate alla phýsis.
E nel momento in cui diventa consapevole di questo egli diventa bello di quella bellezza completa che è la kalokagathía. Bellezza che invita a quell'intrecciarsi di philía e neîkos che è il vivere.
Con tutto questo, un maestro e un discepolo i quali camminano insieme lungo una delle vie della via possono essere divini: il discepolo impara che può essere divino dal fatto che il maestro, praticando la via, è divino e il maestro è divino per il fatto che, insegnando al discepolo che può essere divino, pratica la via, il tao.
«E del tao si sa che
è nascosto e senza nome»75,
e che
«vien usato perché è vuoto / e sempre non è pieno»76,
e che
«si conforma alla spontaneità»77,
e che
«in eterno non agisce / e nulla v'è che non sia fatto»78.
Di modo che, se Diogene
«passando una volta accanto al banco di un pubblicano, interrogato se non porta qualcosa di prezioso, assentì; quando niente trovò il pubblicano frugando e accusava Diogene della celia, denudando il petto "Io" disse "pieno porto di molti beni questo vaso qui, ma tu non puoi vedere avendo chiusi gli occhi dell'anima"»79,
e se fra i suoi detti si ricorda
«quello di Diogene a Olimpia, quando, correndo l'oplite, egli, correndogli incontro, gridava che egli stesso vinceva nei giochi olimpici tutti gli uomini per bellezza e bontà. E infatti il detto è insieme deriso e ammirato, e tranquillamente anche sotto sotto morde detto in qualche modo»80,
e se
«votando gli ateniesi di fare Alessandro Dioniso, diceva: "Anch'io, fatemi Serapide"»81,
e se
«Seniade dunque lo comperò e condottolo a Corinto lo prepose ai suoi figli e gli mise in mano tutta la casa. Ed egli così la dispose in tutto, che quegli andava in giro dicendo: "Un demone buono è entrato nella mia casa"»82,
questo accade per via del fatto che egli, facendosi odiare e amare, segue l'invito
«attienti fermamente all'antico Tao / per guidare gli esseri di oggi»83.
E a colui il quale così è tutto è possibile, come racconta Lieh-tzu:
«Chan Ho si fece una lenza con un sol filo del bozzolo di seta, l'amo con una barba di frumento, la canna con un sottile bambù di Ch'u e l'esca con un granello di miglio tagliato a metà: dal mezzo di una corrente turbinosa su un abisso profondo cento canne trasse a riva un pesce da riempire un carro. La lenza non si spezzò, l'amo non si distese, la canna non cedette. Quando il re di Ch'u ne udì parlare, ne restò meravigliato e lo fece venire alla sua presenza per chiedergliene la ragione. "Il suddito - disse Chan Ho - ha udito il suo defunto nonno parlare del tiro di P'u Chü-tzu, che con un arco debole e una corda sottile lanciava frecce a montare i venti e con un sol colpo trafiggeva due gru sul bordo di una nuvola azzurra. Era concentrato nell'usar la mente ed equilibrato nel muovere le mani. Il suddito ha studiato la pesca imitando il suo esempio e dopo cinque anni ha cominciato a rendersi padrone di questa Via. Quando il suddito va verso il fiume portando la canna, nella mente non ha altro pensiero che quello del pesce, lanciando la lenza e affondando l'amo la sua mano non è né leggera né pesante e nulla riesce a disturbarlo. Il pesce vede l'esca dell'amo come un rifiuto sommerso o un grumo di schiuma e abbocca senza sospetto. In tal modo posso dominare il forte con il debole e col leggero tirare a me il pesante. Se nel governare il regno, o gran re, tu fossi veramente capace di far così, l'impero potrebbe essere rigirato nel palmo della mano. Quale difficoltà avresti?" "Eccellente!" disse il re di Ch'u»84.
Tutto è possibile, senza paura:
«a chi lo biasimava poiché entrava in luoghi impuri Diogene diceva: "Di fatto anche il sole entra nelle latrine, ma non ne è macchiato"»85.
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Note
*1- Tao tê ching, in Testi taoisti, traduzione dal cinese di Fausto Tomassini, Torino 1977 (che in seguito sarà indicato con la sigla TTC), p. 182. torna al testo ^
2- Stobaeus; in Socratis et socraticorum reliquiae, collegit, disposuit, apparatibus notisque instruxit Gabriele Giannantoni, Napoli 1990, vol. II (che in seguito sarà indicato con la sigla SSR), p. 389. torna al testo ^
3- Chuang-tzu, in Testi taoisti, traduzione dal cinese di Fausto Tomassini, Torino 1977 (che in seguito sarà indicato con la sigla CT), pp. 546-7. torna al testo ^
4- TTC, p. 133. torna al testo ^
5- Stobaeus; in SSR, p. 354. torna al testo ^
6- TTC, p. 192. torna al testo ^
7- Diogenes Laertius; in SSR, p. 371. torna al testo ^
8- Diogenes Laertius; in SSR, p. 354. torna al testo ^
9- TTC, p. 122. torna al testo ^
10- TTC, p. 129. torna al testo ^
11- Diogenes Laertius; in SSR, p. 272. torna al testo ^
12- TTC, p. 57. torna al testo ^
13- Maximus Confessor; in SSR, p. 352. torna al testo ^
14- Lieh-tzu, in Testi taoisti, traduzione dal cinese di Fausto Tomassini, Torino 1977 (che in seguito sarà indicato con la sigla LT), p. 247. torna al testo ^
15- Diogenes Laertius; in SSR, p. 312. torna al testo ^
16- Diogenes Laertius; in SSR, p. 369. torna al testo ^
17- CT, pp. 454-5. torna al testo ^
18- Hieronymus; in SSR, p. 235. torna al testo ^
19- Diogenes Laertius; in SSR, p. 291. torna al testo ^
20- TTC, p. 186. torna al testo ^
21- TTC, p. 138. torna al testo ^
22- TTC, p. 43. torna al testo ^
23- Plutarchus; in SSR, p. 374. torna al testo ^
24- Diogenes Laertius; in SSR, p. 382. torna al testo ^
25- TTC, pp. 158-9. torna al testo ^
26- TTC, p. 168. torna al testo ^
27- Diogenes Laertius; in SSR, p. 343. torna al testo ^
28- Diogenes Laertius; in SSR, p. 328. torna al testo ^
29- Diogenes Laertius; in SSR, p. 308. torna al testo ^
30- TTC, pp. 193-4. torna al testo ^
31- TTC, p. 146. torna al testo ^
32- Plutarchus; in SSR, pp. 241-2. torna al testo ^
33- TTC, pp. 151-2. torna al testo ^
34- LT, p. 326. torna al testo ^
35- Lucianus; in SSR, p. 237. torna al testo ^
36- Diogenes Laertius; in SSR, p. 370. torna al testo ^
37- CT, p. 517. torna al testo ^
38- Diogenes Laertius; in SSR, p. 368. torna al testo ^
39- Diogenes Laertius; in SSR, pp. 352-3. torna al testo ^
40- Gnomologium Monacense Latinum; in SSR, p. 327. torna al testo ^
41- TTC, pp. 141-2. torna al testo ^
42- TTC, p. 83. torna al testo ^
43- Diogenes Laertius; in SSR, p. 329. torna al testo ^
44- TTC, p. 125. torna al testo ^
45- TTC, p. 42. torna al testo ^
46- TTC, p. 99. torna al testo ^
47- Aelianus; in SSR, p. 342. torna al testo ^
48- TTC, p. 138. torna al testo ^
49- Diogenes Laertius; in SSR, p. 232. torna al testo ^
50- Diogenes Laertius; in SSR, p. 308. torna al testo ^
51- Diogenes Laertius; in SSR, p. 303. torna al testo ^
52- Stobaeus; in SSR, p. 276. torna al testo ^
53- TTC, p. 133. torna al testo ^
54- TTC, pp. 60-1. torna al testo ^
55- TTC, pp. 48-9. torna al testo ^
56- LT, p. 239. torna al testo ^
57- Epictetus; in SSR, p. 335. torna al testo ^
58- Diogenes Laertius; in SSR, p. 337. torna al testo ^
59- CT, p. 496. torna al testo ^
60- Stobaeus; in SSR, p. 354. torna al testo ^
61- TTC, p. 136. torna al testo ^
62- TTC, p. 107. torna al testo ^
63- Antonius Monachus; in SSR, p. 382. torna al testo ^
64- Diogenes Laertius; in SSR, p. 338. torna al testo ^
65- Codice Patmiaco; in SSR, p. 650. torna al testo ^
66- Suidas; in SSR, pp. 228-9. torna al testo ^
67- Diogenes Laertius; in SSR, p. 336. torna al testo ^
68- TTC, p. 126. torna al testo ^
69- TTC, p. 115. torna al testo ^
70- TTC, p. 163. torna al testo ^
71- LT, p. 209. torna al testo ^
72- Diogenes Laertius; in SSR, p. 244. torna al testo ^
73- Anthologia Palatina; in SSR, p. 278. torna al testo ^
74- CT, pp. 491-2. torna al testo ^
75- TTC, p. 126. torna al testo ^
76- TTC, p. 46. torna al testo ^
77- TTC, p. 90. torna al testo ^
78- TTC, p. 113. torna al testo ^
79- Codice Patmiaco; in SSR, p. 651. torna al testo ^
80- Demetrius Phalereus; in SSR, p. 397. torna al testo ^
81- Diogenes Laertius; in SSR, p. 244. torna al testo ^
82- Diogenes Laertius; in SSR, p. 257. torna al testo ^
83- TTC, p. 66. torna al testo ^
84- LT, pp. 278-9. torna al testo ^
85- Diogenes Laertius; in SSR, pp. 336-7. torna al testo ^