Che il mondo del gioco e il mondo dello spirito non siano paralleli ma continuamente sconfinanti l’uno nell’altro fino, talvolta, a fondersi e confondersi era un dubbio che già i greci, con le Olimpiadi, ci hanno tolto una volta per sempre. Poco resta da stupirsi, allora, se quella dimensione del gioco che va sotto il nome di “virtuale” abbia scoperto da qualche anno un ulteriore livello di rappresentazione investendo a buon profitto, per un indotto di circa dieci miliardi di dollari l’anno, nei cosiddetti “videogame cristiani”.

Detto in breve, nei “videogiochi cristiani” l’eroe non ammazza i cattivi ma salva il mondo con la preghiera; il buon missionario non affronta i perfidi mercanti di schiavi con il cannone ma gli predica in ginocchio la buona novella e, a suon di opere pie, il paradiso si conquista con la penitenza (virtuale, s’intende…) e con i bonus per ogni fioretto a buon rendere. Per la verità, esiste in commercio anche il videogame Left Behind: Eternal Forces, dove in un futuro apocalittico i buoni cristiani non si limitano a convertire con la parola ma qualora gliene incorra, non si fanno scrupolo ad ammazzare "non credenti". A differenza dei primi, però, non è raccomandato dagli evangelici americani che, anzi, ne hanno richiesto a più riprese il ritiro dal commercio... Restiamo sugli altri, quindi, come "Timothy and Titus", ad esempio, dove il convertitore usa solo le armi della non violenza, della preghiera e dell'aiuto divino per affrontare il nemico. Insomma, dopo cinema, televisione editoria anche i produttori di videogame hanno deciso d’investire sul crescente bisogno di “spiritualità”. Di che stupirsi?

Se tanto mi dà tanto, così come le anime belle erano pronte alle crociate etiche per salvare i nostri piccoli dai subliminali inviti alla violenza per emulazione del loro eroe (o antieroe) che vinceva scannando qualche centinaio di nemici o di innocenti comparse (sempre virtuali, per carità…), ora dovrebbero sorridere allietate dall’esplicito invito ad essere buoni e caritatevoli.Il che potrebbe aprire a spiragli veramente sorprendenti. Non è vero, forse, che fra esercito e industria produttrice di videogame le relazioni si sono fatte via via più sempre strette e visibili? Non sono aggiornatissimo sugli ulteriori sviluppi di mercato, ma ho ben presente “America’s Army”, prodotto direttamente dalla Marina americana con lo scopo dichiarato di dare istruzione su addestramento militare, armi e tattiche di combattimento, permettendo ai giocatori di vivere la vita nell'Esercito: dal campo di addestramento all’annientamento del nemico… e con la speranza, neanche troppo sottaciuta, di resuscitare sopiti aneliti all’arruolamento nella fascia più forte degli “hardcore gamer”, (compresi fra i dodici e i diciotto anni); se è vero, come è vero, tutto questo - dicevo - chissà non sia realizzabile in un prossimo futuro un videogioco religioso, con tanto di imprimatur, che funzioni da richiamo alle vocazioni in crisi. Ipotesi, poi, neanche troppo peregrina se già nel 2004 la Chiesa protestante, negli States, ha promosso a Portland (Oregon), la prima conferenza internazionale di promotori di videogiochi cristiani.

E sempre per rimanere in tema di sconfinamenti verso campi a margine del puro intrattenimento (o di sfruttamento dell’intrattenimento per scopi cosiddetti “critici”), vale pure la pena ricordare che, proprio in prossimità dei trascorsi referendum su fecondazione assistite, eterologhe o meno, cellule staminali sì e cellule staminali no, è stato prodotto “Embrioni in Fuga” un puzzle-game dove la protagonista è una ricercatrice che, di livello in livello, di difficoltà in difficoltà crescenti, permette ad alcuni embrioni di raggiungere sani e salvi la meta del laboratorio. Visti gli esiti di quel referendum, mi sa che il gioco era una boiata, anche se in un solo giorno lo scaricarono 5000 patiti online.

Non sono un moralista e nemmeno un moralizzatore, anzi confesso di essere stato assai indulgente con me stesso, più volte insonne al jostick, magari a fare i conti con virtualità non strettamente connesse alla spiritualità religiosa. E non credo nemmeno che i videogiochi possano essere paragonati a droghe rovina menti: che possano far impazzire è piuttosto improbabile a meno che non si sia già disturbati per conto proprio. Quello dei videogame è un fenomeno paragonabile se non del tutto simile a quello dei nostri vecchi giocattoli, da lego al meccano al subbuteo: ci si gioca per un po' in maniera a tratti ossessiva, come se non si avesse null'altro di meglio da fare nella vita ma, via via che scema l’effetto novità, la fissa tende ad esaurirsi o a ridursi d’intensità. E qualche volta, ‘ste moderne diavolerie possono contribuire perfino a migliorare, più della televisione, un rapporto familiare: almeno nel videogioco a coppie si è per forza costretti ad interagire.

Non mi stupisco nemmeno che dopo la guerra di continenti e di mondi; dopo tutti gli sport praticabili e impraticabili; dopo il sesso virtuale, le città virtuali, le avventure virtuali sotto tutte le latitudini e con ogni risvolto possibile, (è di questi giorni la notizia che un matrimonio su tre si combina in rete...) anche la religione entri nel circuito del paradiso virtuale. Lo sapete, no? Gli affari sono affari, il mercato è il mercato, il bisogno s’induce ed induce. E anche se il livello di alfabetizzazione di questo neo linguaggio-icona è scarso, mancando a tutt’oggi un serio apparato culturale di mediazione, non accadde lo stesso all’alba della TV? Ora che la TV abbia prodotto sfracelli di appiattimento critico è vero, ma non venitemi a dire che vi siete persi anche una sola replica di “Totò, Peppino e la malafemmina” per preservare intatte le vostre facoltà critiche che non vi credo, eh?

Il problema, infatti, è forse un altro. Più di un secolo fa, un matto a tutta prova, tal Federico Nietzsche, in un delirio antipaolino, aveva ricordato che non di fede ma di fatti concreti era sostanziato l’insegnamento di Cristo. Certo non poteva immaginare, pur nella sua folle preveggenza, che dalle azioni alle buone intenzioni che restano tali, la china avrebbe trovato fine (per ora…) in una consolle. Qui, l’atto concreto è solo un gioco di proiezione e di capacità propriocettive che ci fa salvi dietro lo schermo (lo scudo, appunto), dagli esiti e dagli impervi della prova reale. Al massimo, si tratterà di ricominciare da capo. Mi viene un dubbio: sarà stato mica questo poter riprendere ogni volta il gioco dall’inizio il messaggio sottinteso dall’eterno ritorno? Mi sa di no, altrimenti anziché: “Il paradiso è una dimensione del cuore”, il matto avrebbe scritto: “Il paradiso è un dimensione del Game Over”.