Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / L’operaio sconfitto. L´uscita di scena di una classe protagonista

L’operaio sconfitto. L´uscita di scena di una classe protagonista

di redazionale - 21/12/2007


Gli studi di mario tronti e il dramma terribile delle morti bianche

Da lungo tempo la figura del lavoratore è diventata impalpabile per il resto della società e per i vinti non c´è spazio, non c´è definizione
Quel che contava nelle lotte di fabbrica non era tanto la forza del passato e della tradizione, ma solo il presente nella sua casualità

C´è qualcosa di drammatico e ironico insieme, nel bilancio che Mario Tronti ha recentemente fatto dell´operaismo, della sua lontana stagione fiorita e della disfatta. C´è qualcosa che va a toccare non solo la storia di un uomo che ha pensato e scritto con molta passione e acume sul destino della classe operaia come soggetto rivoluzionario; ma quel nodo problematico si riflette e si interseca con un mondo che tutti, proprio tutti, davano per scomparso. Poi, una tragedia dalle proporzioni impreviste, attraversata dal ferro e dal fuoco, mette di fronte a un problema che non si capisce ancora fino a quando terrà desta la nostra attenzione. È la tragedia delle "morti bianche", come le notti, come le voci. Ma con un timbro diverso, e la conclusione che ci sgomenta: operai che cadono dalle impalcature, che restano folgorati da un filo dell´alta tensione, travolti da un treno, seppelliti da una frana, o divorati - come nel rogo della Thyssen - dal fuoco. Le chiamano "bianche" perché non c´è un vero mandante, non c´è lo scoppio di una follia improvvisa, non c´è l´assassino. C´è solo la vittima innocente, con il corpo inerte e senza storia. E quando accade, quando quel corpo viene esibito e sollevato da un nuovo e ulteriore dolore, allora improvvisamente ci si ricorda che quell´evento luttuoso appartiene a una memoria più profonda ed estesa che investe la classe operaia nel suo insieme. Essa esiste ancora o, come ormai sostengono numerosi fautori della società immateriale, è solo un pallido ricordo?
Da lungo tempo una gigantesca morte apparente sembra aver avvolto la figura del lavoratore, averlo reso impalpabile al resto della società. E pensare che l´immaterialità - nelle forme del plusvalore dell´invisibile di cui si dota la merce - nasce nella fabbrica. Quello è il suo luogo di origine, immiserito dalla serialità, dall´automatismo, dall´alienazione, esaltato dalla ribellione, dall´utopia, dalla piazza. Insomma quel mondo nel quale la "rude razza pagana" aveva svolto il ruolo di protagonista sembra definitivamente sconfitto, ma non cancellato. Domato ma non scomparso. Ma per i vinti non c´è spazio, non c´è lingua, non c´è definizione. Ecco il motivo per cui leggere il bilancio che Tronti ha fatto di una lunga stagione di lotte esemplifica e simboleggia meglio di una piccola predica sociologica cosa raccontano e nascondono i fattori di una sconfitta.
Del resto sono trascorsi quarant´anni dalla pubblicazione di Operai e Capitale, libro (oggi riproposto da Derive Approdi, pagg. 315 euro 20) che contribuì a definire una parte del quadro teorico nel quale il Sessantotto si sarebbe dibattuto. A rileggerlo, in un contesto decisamente diverso, sembra aver attenuato la sua carica ipnotica. Quel modo battente, assertorio, ritmato che Tronti ha di inquadrare e descrivere il fenomeno operaio, conserva indiscutibili pregi letterari. Ma è come se lo stile evochi qui la forma della nostalgia perduta, più che la sostanza di ciò che è andato perso. E che cosa si è perso? Che cosa è inequivocabilmente tramontato?
Tronti ha stilato un suggestivo bilancio delle ragioni di una sconfitta, e lo ha messo sotto forma di una lunga introduzione a un´antologia di testi sull´operaismo che sarebbe dovuta uscire quest´anno per Feltrinelli e che, per ragioni editoriali, è stata spostata all´anno prossimo. L´analisi condotta con "passione cinica" descrive un´esperienza conclusa. Una passione che si potrebbe applicare a una parte cospicua del Novecento, a quel pensiero vissuto attraverso il soggetto operaio, la fabbrica, il conflitto. Se c´era un principio, il Tronti di allora lo individua nella lotta della classe operaia. E se c´è un modo di distinguere questa lotta dalle altre, che pure il movimento operaio ha praticato, esso risiede nel fatto che l´operaismo vuole definirsi a partire dall´idea che una scienza operaia è stata in grado di prendere le distanze dallo storicismo, da quella linea De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci che incarnò l´egemonia culturale del fare politica e a lungo imperò in Italia come un sonno dogmatico. Contro questa impostazione votata al progresso della ragione, c´erano le sporadiche incursioni dellavolpiane (che privilegiavano un Marx sfrondato da Hegel), c´era l´esperienza di Raniero Panzieri con la rivista Quaderni Rossi che rileggeva il Capitale, c´era Classe operaia che rileggeva i Grundrisse), e Contropiano che rileggeva Nietzsche. Tutto questo preparò il fatidico Sessantotto? Tronti ha molte resistenze teoriche a far confluire l´esperienza operaista nel magma poliedrico della contestazione: «Ci muoveva non la rivolta etica per lo sfruttamento che gli operai subivano, ma l´ammirazione politica per le pratiche di insubordinazione che si inventavano. Ci deve essere dato atto che non cademmo mai nella trappola del terzomondismo, delle campagne che assediano le città, delle lunghe marce contadine, non fummo mai "cinesi", e la "rivoluzione culturale", quella d´Oriente, ci vedrà freddi, lontani, più che moderatamente scettici, in realtà fortemente critici. Ci piaceva al contrario il fatto che gli operai del Novecento spezzassero la continuità della lunga gloriosa storia delle classi subalterne, con le loro rivolte disperate, le loro eresie millenariste, i loro ricorrenti generosi tentativi, sempre dolorosamente repressi, di rompere le catene. In fabbrica, nella grande fabbrica, il conflitto era quasi ad armi pari, si perdeva e si vinceva giorno per giorno, in una permanente guerra di posizione». Quel che conta non è tanto la forza del passato e della tradizione, né la speranza che può donare il futuro, ma solo ed esclusivamente il presente, con le sue contingenze, la sua casualità, le sue occasioni da sfruttare. Il presente trontiano non è semplicemente il qui e ora, ma l´orizzonte che delinea il Novecento stesso, la grande epoca che tutto racchiude: capitalismo e socialismo, riforme e rivoluzione, totalitarismo e stato liberale, Stato sociale e società democratica, la lotta operaia e la sua sconfitta. Ne viene fuori un quadro su ciò che il soggetto operaio avrebbe potuto essere e non è stato. Realismo lirico. Avventura. Romanzo. Analisi. Sono le coordinate con cui l´intellettuale Tronti si orienta in quel secolo di ferro e di fuoco che si è chiuso tra grandi entusiasmi e insospettate delusioni.
Niente appare dolce e accattivante allo sguardo di chi racconta la sua storia, e non versa lacrime, non chiede comprensione. Eppure una sottile nostalgia solleva queste pagine dalla polvere delle ideologie, le rende palpitanti. La parola nostalgia può trarre in inganno, andrebbe sostituita con la parola dolore. Che è la lancinante scissione tra ciò che si era e ciò che si è diventati. Il destino di una classe e quello di uomo - pur su piani diversi - qui finiscono con il coincidere.
Torna alla mente una raccolta di saggi scritti in onore di Mario Tronti e dal titolo vagamente schmittiano: Politica e destino (edito da Luca Sossella). Saggio introduttivo di Tronti e poi i contributi (di Accornero, Asor Rosa, Boccia, Cacciari, Calise, Coldagelli, di Leo, Dominijanni, Olivetti, Valeriani e alcuni allievi che si firmano Epimeteo) che analizzano con molta libertà i pregi e i limiti del suo pensiero. E nel farlo, mostrano, come raramente accade con queste raccolte, affetti ed effetti teorici, legami sentimentali e connessioni storico politiche. Si ha insomma l´impressione che ciascuno ragionando su Tronti, faccia anche i conti con un pezzo importante della propria vita. Con ciò che si è stati e che improvvisamente torna a rivivere in un luogo che è memoria e delusione, distanza e coinvolgimento. La barra è pur sempre tenuta dall´esperienza dell´operaismo. Che nella versione di Tronti fu un modo di stare in Occidente, fuori dagli esotismi politici. Di quella "minoranza di massa" che ha cercato senza riuscirvi un´altra maniera di fare politica, raccontata da un eretico più che da un eterodosso, resta l´ombra di uno stile che è insieme attuale e inattuale.