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L'etanolo minaccia il Golfo del Messico

di Paola Desai - 21/12/2007

 

Cosa c'entra il boom della produzione di etanolo negli Stati uniti con il degrado dell'ecosistema marino del Golfo del Messico? C'entra. L'etanolo è sempre più richiesto come «agrocarburante», propagandato come alternativa alla classica benzina. Per produrlo, gli Stati uniti hanno cominciato a distillare in modo massiccio il mais, e la domanda di questa derrata è aumentata al punto da ridisegnare l'economia agricola americana. Il prezzo del mais è schizzato in alto, sempre più farmers «riconvertono» i loro campi a mais per rende bene.
Questa corsa agli «agrocarburanti» ha effetti deleteri sul sistema dei prezzi alimentari - questa rubrica lo ha scritto più volte. Per ciò che riguarda gli Stati uniti però il boom del mais ha anche un altro effetto allarmante, ed è quello che riguarda il Golfo del Messico. Semplice: per ottimizzare i raccolti di mais, milioni di ettari di terreni nel gigantesco Midwest americano sono costarsi con milioni di tonnellate di fertilizzanti chimici a base di azoto. I residui di azoto percolano nei terreni, filtrano nelle falde acquifere e nei corsi d'acqua e andranno poi nel Mississippi, il fiume più grande dell'America settentrionale, che nasce nel Minnesota e sfocia nel Golfo del Messico dopo aver percorso oltre 3.700 chilometri attraverso le grandi pianure del Midwest (e dopo aver ricevuto a St. Louis anche le acque del Missouri): un bacino agricolo e industriale gigantesco.
Insomma: tutti i reflui azotati della cosiddetta «corn belt» americana andranno a finire nel Golfo. Sono i reflui chiamati «nutrienti» perché tutto quell'azoto provoca prima la proliferazione di alghe, in primavera ed estate. Poi le alghe muoiono e si depositano sul fondale marino, dove sono attaccate dai batteri che le decompongono e usano tutto l'ossigeno disponibile nell'acqua. Finito l'ossigeno, ogni essere vivente emigra, o muore. Il fenomeno della «zona morta» non è nuovo: è stato osservato per la prima volta nel 1974 dall'Istituto di ecologia costiera della Louisiana State University; a metà degli anni '80 è diventato un fenomeno permanente, e sempre più ampio: oggi la zona morta è un'area di oltre 20mila chilometri quadrati. Ora il rischio è che il nuovo boom del mais aggravi la situazione.
Di questo si allarmano ora molti ambientalisti americani. «Siamo vicino a un punto limite», diceva giorni fa Matt Rota, direttore del programma di ricerca sull'acqua del Gulf Restoration Network («Rete per il ripristino del Golfo»), gruppo di ricerca ambientale con sede a New Orleans, al quotidiano The Boston Globe. Finora, spiega, di parlava di «impatto» sull'ecosistema, ma ora siamo vicini al collasso. Tutto lo sforzo dell'ambientalismo americano è stato, da anni, convincere i farmers a usare meno fertilizanti azotati, oltre a costituire barriere per salvaguardare i corsi d'acqua. Ora la nuova «febbre» del mais rischia di vanificare tutto. Si pensi: il mais ha raggiunto il prezzo di 4 dollari per bushel (unità di misura equivalente a circa 35 litri), rispetto ai poco più di 2 dollari del 2002. Con un prezzo così buono, i farmers di Iowa, Illinois, Minnesota, dei due Dakota (nord e sud), hanno cominciato a espandere le coltivazioni di mais, sia riconvertendo altre coltivazioni sia coltivando terre lasciate inutilizate: nel 2007 sono stati coltivati a mais quasi 38 milioni di ettari, l'area più ampia dal 1993. Per massimizzare la produzione, tutti fanno ampio uso di fertilizzanti azotati; il mais però è tra le piante che assorbe meno azoto per estensione di terreno, ovvero lascia percolare più residui.
L'Agenzia per la Protezione dell'Ambiente (Epa, ente federale) stima che ogni anni oltre 95mila tonnellate di reflui d'azoto arrivino al Golfo del Messico attraverso il Mississippi, siferisce il quotidiano di Boston; la stima non è aggiornata a quest'anno, ma gli esperti dell'Epa sono convinti che aumenterà, essendo aumentata la superficie coltivata a mais. Ma finché continua il boom dell'etanolo, sarà difficile convincere i farmers a rinunciare al mais.