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Ne "La prigioniera" di Proust, l'inferno della gelosia retrospettiva

di Francesco Lamendola - 27/12/2007

 

Cosa c'è di più terribile di un pozzo di angoscia senza fine, tetro, privo di qualsiasi possibilità di redenzione? Tale è l'inferno della gelosia; e, in modo particolare, di quella particolare forma di gelosia che potremmo chiamare retrospettiva. Il pensiero che la persona amata abbia un passato del quale altri, non noi, facevamo parte; che abbia amato altri esseri umani; che abbia trovato l'estasi tra le braccia di qualcuno e che ciò sia immodificabile, consegnato per l'eternità alla dimensione del tempo, della storia: tutto questo fa impazzire di angoscia il geloso, lo fa fremere di rabbia impotente, gli provoca brividi e inquietudini che mai si placheranno, un'arsura che mai troverà sollievo.

La gelosia retrospettiva è la forma estrema dell'attaccamento: attaccamento senza pace e senza remissione, senza speranza alcuna di futura redenzione. Essere gelosi del passato dell'altro significa incatenarsi, e incatenarlo, alle ombre di una dimensione che non gli appartiene più. Oppure gli appartiene ancora? Questo è il dubbio insopportabile che tormenta il geloso: perché, anche se il passato è passato, non per questo lo si può cancellare; al contrario, lo si può far rivivere nel ricordo, lo si può rivivere con tale fedeltà da renderlo ancora attuale e presente.

Il geloso guardia il volto della persona amata e gli sembra di scorgere un'assenza nel suo sguardo; gli sembra che i suoi occhi guardino altrove, che la sua anima sia di quell'altro che, possedendola un tempo, in qualche modo misterioso la possiede ancora, in quel profondo inconfessabile da cui è impossibile scacciarlo. Quale vivente potrebbe lottare con successo contro un fantasma? Il geloso si rende conto che ciò è impossibile e vive in una condizione di crescente amarezza, sfiducia, rancore e disperazione. Come da un vaso di Pandora alla rovescia, i sentimenti più negativi della natura  umana fanno irruzione nell'anima del geloso retrospettivo, una volta che abbia avuto la debolezza di cedere, anche per un solo istante, al dubbio e alle sue funeste fantasie.

A partire da quel momento ogni gesto, ogni parola, ogni occhiata e perfino ogni silenzio della persona amata verranno da lui interpretati come altrettante conferme della sua infedeltà, passata e  presente; oppure, quanto meno, come altrettanti, gravissimi indizi della sua colpevolezza. Nemmeno la morte della persona amata può placare i furori autodistruttivi del geloso retrospettivo, come è magistralmente illustrato nel romanzo della scrittore romeno Cezar Petrescu La sinfinia fantastica, incentrato sulla morbosa gelosia dei un serioso professore universitario, Giorgio Stolnicu, nei confronti della moglie innocente e gravemente malata. Alla fine, tormentata dalla folle gelosia del marito, la poveretta muore di uno sbocco di sangue; eppure la tortura non è ancora finita. Il  morso rabbioso della gelosia non lascia la presa, e Stolnicu, disperato, si chiede come farà a sapere la verità, ora che la donna è morta e non potrà mai più confessarla.

Allora si mette a frugare tra le cose della morta, alla ricerca della prova definitiva, mentre lei giace nel letto della stanza accanto. Ed ecco, trova un fascio di lettere: lettere roventi di passione per un altro. Eccola, la prova! Solo, non vede che le date sono vecchie di anni e anni, e dimostrano il contrario di quel che egli crede. Così, davanti a quella conferma che lui aveva avuto ragione, sempre, e che era stato vittima di un continuo, sfacciato inganno, il suo sistema nervoso cede ed egli scoppia ridere di un riso pauroso e assurdo, colmo di una nota allegra e gioiosa. Lui era sano, e gli altri erano dei miserabili, degli imbecilli, dei traditori.

“Al capezzale della morta  - scrive Petrescu a conclusione del romanzo -, nella camera cogli specchi velati di nero, le luci dei ceri tremolavano gialle e sinistre.”

Ma il massimo interprete letterario del sentimento della gelosia retrospettiva è stato, senza dubbio, Marcel Proust, specialmente ne La prigioniera e La fuggitiva.

L'io narrante, protagonista della Recherche e controfigura dello stesso Proust, ha portato la misteriosa Albertine nella sua casa della  capitale, anche per allontanarla dalle tentazioni di Balbec: in Sodoma e Gomorra, difatti, aveva avuto il presentimento che anche lei fosse dedita al "vizio di Saffo"; e ora, nel suo appartamento parigino, la tiene con sé quasi come una reclusa. Naturalmente la sua vigilanza soffocante non ha altro risultato che di allontanarla ancor più da lui; ma anche lui, poco a poco, sente spegnersi il grande amore che aveva provato per lei, all'ombra delle fanciulle in fiore. Però - cosa strana, stranissima - la gelosia, che per tutto il tempo della loro vita in comune lo ha tormentato giorno e notte, senza un attimo di respiro, non si affievolisce col declinare dell'amore. La gelosia, al contrario, sembra vivere di vita propria; e continua a mordergli il cuore anche dopo che Albertine è fuggita dalla sua prigione dorata, anche dopo che è scomparsa; e perfino dopo che egli ne apprende la drammatica e improvvisa morte, causata da una caduta da cavallo.

 

"Perché la morte di Albertine avesse potuto sopprimere le mie sofferenze, sarebbe stato necessario che quel colpo l'avesse uccisa non soltanto in Turenna, ma anche dentro di me. Mai era stata tanto viva in me. Per entrare in noi, un essere è obbligato a prendere la forma, a piegarsi alla cornice del tempo. Apparendoci soltanto per momenti successivi, non ha mai potuto darci di sé che solo un aspetto per volta, non ha mai potuto fornirci di sé che una sola fotografia. È una gran debolezza, certo, per un essere umano, consistere soltanto in una semplice collezione di momenti; è una gran forza anche; dipende dalla memoria, e la memoria di un attimo non conosce tutto quel che è successo in seguito; quel momento che essa ha registrato dura ancora, vive ancora, e con esso l'essere che vi si profilava. E poi quel frazionamento non fa solo vivere la persona morta, la moltiplica. Per consolarmi, non una, ma innumerevoli Albertine avrei dovuto dimenticare. Quando ero riuscito a sopportare il dolore di averne perso una, dovevo ricominciare con un'atra, con cento altre. " (M. Proust, Albertine scomparsa, traduzione di Rita Stajano, Roma, Newton Compton Editori, 1990, p.47).

 

Di che cosa è geloso il protagonista, visto che Albertine vive con lui, sotto il suo costante controllo; e visto che, dopo la partenza di lei e la notizia della sua morte, il suo amore è ormai cessato e destinato a scivolare rapidamente nell'oblio? Del passato di lei; della sua doppia vita; delle sue menzogne, dei suoi espedienti, delle sue astuzie; del suo amore per le altre donne, che deve averle dato ebbrezze e voluttà diverse e, per lui, inimmaginabili.

Questi pensieri lo sconvolgono, lo ossessionano, lo logorano in continuazione; perfino quando la osserva dormire nel suo letto, la carezza e la bacia senza svegliarla, la adora in silenzio come fosse una bella statua: perfino allora il suo cuore sanguina di gelosia. Una gelosia retrospettiva e implacabile, tanto più rabbiosa quanto più egli si sforza di dissimularla; perché la sua educazione e la sua sensibilità rifuggono da scenate clamorose; e, pur alludendovi in continuazione e cercando perfino, con artate domande, di farla confessare, egli non affronta mai la questione di petto e Albertine, fino all'ultimo, nega ogni addebito e si dice anzi profondamente disgustata dalle donne inclini al lesbismo.

 

"Mi parlava anche delle gite che aveva fatte con certe amiche nella campagna olandese, dei suoi ritorni a tarda sera ad Amsterdam, quando una folla compatta e festosa di persone che lei conosceva quasi tutte riempiva le vie, le rive dei canali, di cui mi pareva veder riflettersi  negli occhi brillanti di lei, come negli specchi incerti di una carrozza lanciata al galoppo, i fuochi innumerevoli e fuggenti, Come la sedicente curiosità estetica meriterebbe di esser chiamata indifferenza, a paragone della curiosità dolorosa, instancabile, che provavo per i luoghi dove Albertine era vissuta, per quel che potesse aver fatto una certa sera,  per i sorrisi, gli sguardi che aveva avuti, per le parole da lei dette, per i baci ricevuti! No, mai la gelosia che avevo sofferta un giorno a cagione di Saint-Loup, se fosse perdurata in me, mai non mi avrebbe dato quell'immensa inquietudine. Quell'amore tra donne  era per me qualcosa di troppo sconosciuto, di cui nulla mi permetteva d'immaginare, con certezza, con precisione, i piaceri, la natura.  Quanti esseri, quanti luoghi (che magari non la riguardavano  direttamente: indefiniti luoghi di piacere, dove lei poteva averlo gustato, ambienti affollati dove ci si sfiora l'un con l'altro,  Albertine - come una persona che, facendo passare davanti a sé, al controllo,  il proprio seguito, un'intera compagnia, la faccia entrare in teatro - aveva introdotto  nel mio cuore dalla soglia della mia immaginazione  o delle mie memorie, dove mi erano indifferenti! Adesso, ne avevo una conoscenza interna, , immediata, dolorosa, spasmodica, L'amore è lo spazio e il tempo resi sensibili al cuore.

"Eppure, forse, se le fossi stato assolutamente fedele, non avrei sofferto di infedeltà che sarei stato incapace di immaginare., Mi torturavo perché trasferivo in Albertine il mio perpetuo desiderio di piacere a nuove donne, , di abbozzare nuovi romanzi, perché le attribuivo quello sguardo che, pochi giorni prima,  pur trovandomi vicino a lei, non avevo potuto far a meno di gettare sulle giovani cicliste sedute ai tavolini del Bois de Boulogne. Si può quasi dire che, come  nn c'è conoscenza , così non c'è gelosia che di noi stessi. L'osservazione conta ben poco: sapere e dolore possiamo trarli soltanto  dal piacere da noi stessi sentito.

(M. Proust, La prigioniera, traduzione di paolo Serini, Torino, Einaudi, 1978, pp. 396-397).

 

Ma la pagina in cui Proust mostra tutta la sua capacità di introspezione psicologica, spingendola fino a livelli mai raggiunta da altri scrittori prima di lui, è quella in cui descrive gli assalti della gelosia retrospettiva dopo che una lettera di Aimé, l'investigatore privato da lui assunto, trova le prove che Albertine ha indugiato fino all'ultimo nei piaceri di Lesbo, anche pochi giorni prima di morire. Si appartava con una piccola lavandaia e raggiungeva l'orgasmo sotto le sue esperte carezze, fino a perdere la padronanza di sé e a morderla sul  braccio, esclamando: "Ah! Tu me mets aux anges", espressione francese pressoché intraducibile che possiamo rendere in italiano con "Ah! Tu mi fai morie".

 

"Avevo molto sofferto, a Balbec, quando Albertine mi aveva parlato della sua amicizia per la signorina Vinteuil. Ma Albertine era lì per consolarmi. Poi, per aver troppo cercato di conoscere le sue azioni, ero riuscito a farla andar via da me, quando Françoise [la cameriera del protagonista] mi aveva annunciato che non c'era più e mi ero trovato solo, avevo sofferto di più. Ma almeno l'Albertine che avevo amata mi restava nel cuore. Ora, al posto di questa - per punirmi di aver spinto oltre una curiosità cui, contrariamente a quanto avevo creduto, la morte non aveva posto fine - trovavo una ragazza diversa, che moltiplicava bugie e inganni laddove l'altra mi aveva rassicurato con tanta dolcezza giurandomi di non aver mai conosciuto                         quei piaceri; quei piaceri che, invece, nell'ebbrezza della libertà riconquistata era corsa a godere fino a perderne i sensi, fino a mordere quella piccola lavandaia con cui si era incontrata all'alba, sulla riva della Loira, e a cui diceva: «Mi fai morire».

"Quelle inclinazioni negate da lei, e che invece aveva, quelle inclinazioni la cui scoperta mi era giunta non in un freddo ragionamento, ma nella sofferenza bruciante provata alla lettura di quelle parole: «Mi fai morire», sofferenza che conferiva ad esse una particolarità qualitativa, quelle sofferenze non si aggiungevano soltanto all'immagine di Albertine come si aggiunge al bernardo l'eremita la nuova conchiglia che si trascina dietro,  ma piuttosto come un sale che entra in contatto con un altro sale, e ne muta il colore, anzi la natura. Quando la piccola lavandaia, com'era probabile, aveva detto alle sue amichette: «Immaginate un po', non l'avrei mai creduto, la signorina è anche lei una di quelle», per me non si trattava soltanto di un vizio che dapprima non avevano sospettato e che aggiungevano poi alla persona di Albertine, ma della scoperta che lei fosse un'altra persona, una persona come loro, che parlava la loro stessa lingua; la qual cosa, facendola compatriota di altre, la faceva ancora più estranea a me, provava che quanto avevo avuto da lei, quanto portavo nel cuore era solo una piccolissima parte e che il resto - tanto vasto perché non era soltanto quella cosa così misteriosamente importante quale è un desiderio individuale, ma perché lo aveva in comune con altre - me lo aveva sempre nascosto, me ne aveva tenuto lontano, come una donna che mi avesse nascosto di essere di un paese nemico e spia, , e che avesse tradito anche più di una spia: perché una spia inganna  soltanto sulla propria nazionalità, mentre Abertine ingannava sulla propria umanità profonda, in quanto lei non apparteneva all'umanità comune, ma a una razza strana che si mescola con questa, vi si confonde, e non vi si fonde mai. (…)

"A tratti fra il mio cuore e lamia memoria la comunicazione era interrotta. Quanto Albertine aveva fatto con la lavandaia mi era significato ormai solo attraverso abbreviazioni quasi algebriche che non rappresentavano più nulla per me; ma cento volte l'ora la corrente interrotta era ristabilita e il mio cuore era arso senza pietà da un fuoco infernale, mentre vedevo Albertine risuscitata dalla mia gelosia, viva davvero, tendersi sotto le carezze della piccola lavandaia, mentre le diceva: «Mi fai morire». Poiché era viva per me nel momento in cui commetteva il suo peccato, cioè nel momento in cui io stesso mi trovavo, non mi bastava conoscere quella colpa, avrei voluto sapesse che la conoscevo. Così, se in quei momenti mi rammarico al pensiero che non 'avrei rivista mai più, quel rammarico portava il segno della mia gelosia e, completamente diverso  dal rimpianto straziante dei momenti in cui l'amavo, era solo il rammarico di non poterle dire: «Credevi che non avrei mai saputo cosa hai fatto dopo avermi lasciato, ebbene so tutto, alla lavandaia sulla riva della Loira, dicevi: 'Mi fai morire', ho visto il segno del morso». Certo, mi dicevo: «Perché tormentarmi? Colei che ha goduto con la lavandaia non è più nulla, dunque non è una persona le cui azioni possano ancora avere un valore. Lei non dice a se stessa che io so. Ma a se stessa non dice neppure che non so, perché non si dice nulla». Ma quel ragionamento mi convinceva meno dell'immagine del suo piacere  che mi riportava al momento in cui lo aveva provato.  Solo quel che sentiamo esiste per noi, e o proiettiamo ne passato, nell'avvenire, senza lasciarci fermare dalle barriere fittizie della morte." (M. Proust, Albertine scomparsa, trad. di Rita Stajano, ed. cit., pp. 82-84).

 

Magistrale interpretazione del fenomeno della gelosia.

Se essa nasce dal cieco desiderio di possesso dell'oggetto amato, allora la gelosia rivolta al passato è la manifestazione psicotica di un desiderio di autodistruzione, di un cupio dissolvi che ci dice mole più cose sulla fragilità e la mancanza di equilibrio affettivo del geloso, che non sulla qualità del suo rapporto con la persona per la quale nutre sentimenti di gelosia.

Nel caso della morte dell'altro, poi, si può dire che il suo passato, sconosciuto all'amante, per quest'ultimo è come se  fosse passato due volte: perché si riferisce a un'epoca in cui egli non conosceva ancora la persona amata e perché questa persona, al presente, non è più. Pertanto la gelosia retrospettiva per una persona defunta costituisce il vertice di questa forma di delirio, una frontiera estrema dell'autodistruttività.

Se poi c'interroghiamo - non da un punto di vista psicologico, il che è già stato fatto migliaia di volte, ma filosofico - sulle radici di questa folle battaglia regressiva contro i fantasmi inafferrabili del passato dell'altro, difficilmente ci si può sottrarre all'impressione che esse affondino nel terreno della hybris occidentale, ossia di una smisurata volontà di onnipotenza. Abituato a manipolare la realtà in funzione dei propri disegni di dominio, l'io dell'uomo occidentale è preda di un autentico delirio di onnipotenza. Per un tale io ipertrofico, amare e possedere sono una cosa sola; e più grande è l'amore, più forte la volontà di possesso. L'idea che a un simile possesso "totale" possa sottrarsi una parte dell'altro, e precisamente il suo passato, risulta insopportabile per il soggetto di un amore totalitario. Solo possedendo ogni istante della vita dell'altro, passato presente e futuro, un tale soggetto, fondamentalmente insicuro, potrebbe sentirsi appagato.

Naturalmente, però, possedere il passato dell'altro è impossibile, quindi insorge un malessere, una tensione, un conflitto che potrà essere placato solo con la liberazione della morte dell'uno o dell'altro. Anzi, come Proust esemplarmente ci mostra, neanche la morte della persona amata può placare la gelosia retrospettiva: essa continua a mordere ferocemente nella dimensione della memoria ed è così virulenta da sopravvivere all'amore stesso. Si può continuare a provare tutti i più atroci tormenti della gelosia per una persona ormai scomparsa, perfino dopo che l'amore per lei se ne è andato per sempre.

Davvero, non c'è inferno peggiore di questo,  non rischiarato da alcuna speranza di redenzione o di pace.

Ma perché abbiamo sostenuto che la gelosia retrospettiva è un impulso essenzialmente autodistruttivo?

Per rispondere a questa domanda, ci sia prima concesso riportare un brano della Storia della mia vita di Giacomo Casanova; uno che, di amore e gelosia, dicono se ne intendesse un poco.

 

"La natura animale si procura per istinto tre cose che sono necessarie per perpetuarsi. Si tratta di tre autentici bisogni. Il primo è nutrirsi, ma perché questo non risulti un lavoro esiste una sensazione che si chiama appetito, e si prova piacere nel soddisfarlo. Il secondo è conservare la propria specie generando, e certamente non si adempirebbe questo dovere, se non si provasse piacere nel compierlo. Terzo: la tendenza irresistibile a distruggere il nemico. E niente è più sensato, perché avendo il dovere di conservarsi, si deve odiare tutto ciò che opera per distruggerci: questa è la gelosia: il senso di pericolo che si avverte quando il nemico invade il nostro territorio."

 

Strano che il buon Casanova, che - come tutti i libertini del suo genere, amava posare a filosofo nei rari ritagli di tempo fra una (supposta) avventura erotica e l'altra - non abbia avvertito la contraddizione insita nel suo ragionamento. Se "niente è più sensato" della gelosia, si potrebbe dire con altrettanta ragione che niente è più insensato del vedere nemici in agguato sempre e ovunque, compreso lì ove non ve ne sono. Il geloso, infatti, vede pericoli dappertutto; e, così facendo, finisce per evocare nemici reali anche là dove non ci sono che le ombre delle proprie paure. Ribadiamo il concetto che il geloso è, fondamentalmente, un insicuro e un nevrotico; e la tendenza della cultura occidentale a considerare la guerra come una "normale" risoluzione dei contrasti non è che la spia di questa insicurezza e di questa nevrosi.

La gelosia, pertanto, è molto di più che un sentimento privato di questa o quella persona. È una delle massime manifestazioni dell'inquietudine dell'Occidente e una spia del suo segreto anelito di auto-distruzione.

Per uscire da un tale inferno, non resta che aprirsi alla dimensione dell'amore come dono e non come smisurata volontà di possesso e di dominio.

C'è una bella pagina di san Paolo (Galati, 5, 13-23), a questo proposito.

 

"Fratelli, Dio vi ha chiamati alla libertà! Ma non servitevi della libertà per i vostri comodi. Anzi, lasciatevi guidare dall'amore di Dio e fatevi servi gli uni degli altri. Perché chi ubbidisce a quest'unico comandamento: Ama il prossimo tuo come te stesso, mette in pratica tutta la legge. Se invece vi comportate come bestie feroci, mordendovi e divorandovi tra voi, fate attenzione: perché finirete per distruggervi gli uni gli altri.

"Ascoltatemi: lasciatevi guidare dallo Spirito e così non seguirete i desideri del vostro egoismo. L'egoismo ha desideri contrari a quelli dello Spirito e lo Spirito ha desideri contrari a quelli dell'egoismo.  Queste due forze sono in contrasto tra loro, e così voi non potete fare quello che volete. Se lo Spirito di Dio vi guida, non siete più schiavi della legge. Vediamo tutti benissimo quali sono i risultati dell'egoismo umano: immoralità, corruzione e vizio, idolatria, magia, odio,  litigi, gelosie, ire, intrighi, divisioni, invidie, ubriachezze, orge e altre cose di questo genere. Io ve l'ho già detto prima, e ve lo dico di nuovo: quelli che si comportano in questo modo non avranno posto nel regno di Dio.

"Lo Spirito invece produce: amore, gioia, pace, comprensione, cordialità, bontà, fedeltà, mansuetudine, dominio di sé."

 

E un'altra, ancora più sintetica ed efficace (1 Corinzi, 13, 4):

 

"Chi ama è paziente e premuroso. Chi ama non è geloso, non si vanta, non si gonfia d'orgoglio. Chi ama è rispettoso, non va in cerca del proprio interesse, non conosce la collera, dimentica i torti."