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Dinamiche dello spazio e strutturazioni della politica

di Annunziato Antonio Gùrnari - 27/12/2007

 

 

 

 

Osservazioni alle tesi di Marco Revelli contenute in Sinistra destra. L’identità smarrita, Laterza, Roma-Bari, 2007

 

 

Premessa.

Vi sono fondamentalmente due modi di relazionarsi alle vicende del proprio tempo: aderirvi strettamente, esservi dentro; oppure, vederle a distanza, tenerle distanti da sé. Ciascuno di questi due modi dà origine non solo a risultati ‘osservativi’ diversi, ma soprattutto a  c o n c e t t u a l i z z a z i o n i  estremamente differenti dei fenomeni considerati. Non solo. Le differenze tra i due modi si estendono anche al loro diverso peso statistico, in quanto l’‘adesione’ all’attualità supera di molto l’atteggiamento opposto, quello della presa di distanza, della considerazione ‘prospettica’.

Noi, qui, vogliamo tematizzare questi due distinti atteggiamenti, chiarirne i presupposti, illustrare gli effetti a cui danno origine, con particolare riferimento a ciò che, metaforicamente, viene detto lo ‘s p a z i o   p o l i t i c o’ e, all’interno di questo, quella sua particolare caratterizzazione ‘assiale’ che lo struttura in ‘d e s t r a’ e ‘s i n i s t r a’. La nostra tesi è semplice ed è presto detta: noi riteniamo che le campane a morto che sempre più frequentemente vengono fatte risuonare ¾ tanto in eruditi saggi accademici quanto nella libellistica che sui mezzi di comunicazione di massa ¾ circa la  i n a t t u a l i t à  di questa polarizzazione dicotomica sinistra/destra e, anzi, la fondatezza dell’impiego della nozione stessa di ‘spazio’ politico, ebbene, noi riteniamo che tali campane vengano fatte suonare senza ragione, perché, nonostante tutto, continua pur sempre a esservi un spazio della politica e questo spazio resiste a qualsiasi sua ristrutturazione altra dalla polarizzazione sinistra/destra. Quindi, per converso, la dicotomia sinistra/destra è pienamente  a t t u a l e  e, pertanto, dichiarare il contrario costituisce un errore o, peggio, una mistificazione. E poiché ‘le idee hanno conseguenze’, da un errore o da una mistificazione non può nascere nulla di buono tanto per fini conoscitivi che per i fini dell’agire pratico, politico. Riteniamo, consequenzialmente, che vada perciò intrapresa una opera attiva e appassionata di  r e s t a u r a z i o n e   d e l l e   r a g i o n i   ‘f o r t i’  che militano a favore della chiarezza, dell’assertività, della nettezza giudicativa della  c o n c e z i o n e  delle idee-strumenti della politica.

Questo proposito neocartesiano può essere adempiuto attraverso una trattazione ‘sistematica’, producendo un trattato di teoria politica, che muove da assunti accolti come ‘assiomi’, e ne deriva, attraverso argomenti logici e fattuali, teoremi e corollari ¾ insomma una politica more geometrico. Non è questa la nostra scelta presente, bensì quella della acquisizione di una serie di determinazioni sostanziali circa la natura dello spazio politico e della sua strutturazione assiale in sinistra/destra  i n   c o n t r a d d i t t o r i o  con una varietà di posizioni teoriche che, da varie angolature, in qualche modo e misura contestano tutte quello spazio e quella strutturazione, la loro esistenza, la loro natura, la loro idoneità, etc.

Cominciamo qui con l’applicare tale metodo ‘per contrasto’ prendendo in esame le tesi di un autore ¾ Marco Revelli ¾ che, sulla tematica sinistra/destra, si è impegnato con una riflessione non episodica[1]. Per chiarire subito quale sia il nostro giudizio sulle posizioni che questo autore sviluppa in particolare nel suo recentissimo Sinistra destra. L’identità smarrita, diremo semplicemente, in modo un po’ brutale, che egli prende lucciole per lanterne ¾ e che, quindi, la sua dichiarazione di smarrimento delle identità fissate nel binomio sinistra/destra è una dichiarazione sprovvista di fondamento, errata. Il testo che segue è un tentativo di rendere un po’ meno brutale e più argomentata questa nostra tesi, di renderla cioè un posizione  t e o r i c a  ‘rispettabile’.

 

L’allestimento della scena: le rivoluzioni spaziali.

La ‘rivoluzione spaziale’ di cui parla Revelli ¾ e che sta alla base di quella sua argomentazione che qui si vuole criticare ¾  è, alla lettera, una rivoluzione dello spazio, ossia dell’«ambito all’interno del quale si verificano gli eventi più significativi capaci di influenzare in tempo reale, la nostra vita quotidiana»[2]. Quindi, per Revelli, lo spazio è un contenitore di eventi ‘significativi’ che sono capaci di esercitare una qualche forma di azione efficace su coloro che ne fanno esperienza. La nozione di rivoluzione da lui proposta implica, come si vedrà, che la ‘natura’ del contenitore non è un che di invariabile, ma, al contrario, può subire delle trasformazioni: ebbene, quando accade che, per una qualche ragione, queste ultime oltrepassino una certa soglia, si ha una  r i v o l u z i o n e, ossia una riconfigurazione tale della ‘natura’ del contenitore che la sua ‘ontologia’ ¾ ciò che vi è e quel che esso con-porta di ‘significativo’ per un esperiente ¾ subisce un brusco passaggio di fase. Kantizzando, una mutata forma dell’intuizione dello spazio riplasma ciò che in esso v’è e lo rende ontologicamente differente da quello che era in precedenza.

Di queste rivoluzioni a carico della forma dell’intuizione dello spazio, Revelli ne individua quattro, che, nel loro insieme, allestiscono la scena per l’avvento di una quinta, l’ultima in ordine di successione, che è quella in cui ci troviamo:

1.      il passaggio, nel neolitico, dallo spazio come territorio di attraversamento proprio dell’economia di caccia e raccolta a territorio di residenza e radicamento proprio dell’economia agricola, in cui sorge il «‘luogo’ come porzione dello spazio socialmente connotata e umanamente appropriata»[3];

2.      l’ulteriore passaggio, con l’avvento dell’impero romano e dei suoi istituti politici, giuridici e militari, di «uno spazio simbolico trans-etnico», uno «[s]pazio astratto di appartenenza tale da trascendere ma non dissolvere le appartenenze originarie»[4] ¾ che, quindi, in qualche modo ‘supera’ senza sopprimerla la dimensione del mero ‘locale’;

3.      un nuovo passaggio di fase particolarmente vasto e drammatico si ha con la ‘relativizzazione’ di qualsiasi luogo del pianeta (sfericità della terra dimostrata dalla spedizione di Cristoforo Colombo nel 1492) e del pianeta stesso nell’ambito del sistema solare (tesi eliocentrica di Niccolò Copernico nel De revolutionibus orbium celestium del 1543);

4.      il successivo ¾ e conseguente come reazione a  quello immediatamente precedente ¾ passaggio costituito dalla costruzione della forma dello spazio sub specie di «Stato-nazione», caratterizzato da  c o n f i n i  ‘esclusivi’ e dalla diretta e pressoché ‘immediata’ efficacia sulla quotidianità degli ‘amministrati’ delle decisioni assunte dal ‘sovrano’ che regge il potere all’interno di quei confini.

In tutti questi passaggi, a ogni nuova transizione, la strutturazione dello spazio derivante da una qualche circostanza (invenzioni, teorie scientifiche, scoperte, costruzioni istituzionali) si ripercuote in forme  r e a l i  sulla vita delle persone e nella loro strutturazione dell’esperienza vitale e sociale, le modificazioni nel regime della spazialità  p r o d u c o n o   e f f e t t i  sull’esperienza e l’esistenza reali, della quotidianità, delle persone. Parafrasando, ‘lo spazio ha conseguenze’.

Ma  c o m e  fa ad avere queste conseguenze? Per dare la risposta, Revelli si avvale della nozione di ‘spazio sociale’, la cui trama, a differenza dello spazio fisico, «è formata dall’insieme delle interrelazioni umane rilevanti in un’unità di tempo significativa»[5]. Lo spazio è sociale in quanto è «il sistema delle interdipendenze immediatamente percepibili da tutti gli attori coinvolti colte nella loro estensione spaziale», dove l’‘immediatezza’ della percezione rimarca che gli effetti delle interdipendenze, «non possono essere differiti oltre una (limitata) soglia temporale. Che l’hic, per essere tale, deve comportare anche un nunc plausibile»[6]. Per rendere più operativo il concetto di spazio sociale, Revelli lo accosta a quello di ‘presente sociale’ di J. Th. Fraser, inteso come quell’«ampiezza […] determinata dal tempo necessario per far sì che le persone agiscano di concerto, [e] che a sua volta dipende dalla distanza e dalla velocità con cui vengono trasportati i messaggi»[7]. Revelli riporta una illustrazione dello stesso Fraser di questa nozione: alla fine del diciottesimo secolo, una lettera inviata in Norvegia dall’America richiedeva quaranta giorni per essere recapitata: sicché, quando veniva ricevuta, il destinatario era informato sullo stato delle cose a quaranta giorni prima della sua lettura della lettera: l’‘ora’ del lettore in Norvegia corrispondeva all’‘ora’ del mittente in America quaranta giorni prima: ebbene, questa sfasatura, questo vuoto di quaranta giorni, nell’informazione disponibile e negli effetti che essa provoca rappresenta la ‘bolla di ignoranza-impotenza’ del presente sociale.

Insomma, l’ampiezza del raggio della bolla di ignoranza fissa l’ampiezza a disposizione per la effettuazione di una interazione consapevole e coordinata fra più persone. Ora, poiché la bolla di ignoranza è una funzione dei mezzi di comunicazione (trasporto fisico e comunicativo), è chiaro che se  t e c n o l o g i e  nuove nei mezzi di comunicazione ne restringono l’ampiezza, diviene possibile rendere ‘presente sociale’ luoghi fisicamente tra loro assai distanti, ‘contrarre’ all’estremo lo ‘spazio sociale’, fino a renderlo uguale all’interazione faccia a faccia dell’interazione sociale ordinaria.

Ora, alla luce di queste chiarificazioni sui nessi tra spazio fisico e spazio sociale, quest’ultimo, per Revelli, si configura come un ‘prodotto tecnologico’, «vive in un rapporto di simbiosi e di diretta dipendenza con la tecnica, che ne detta estensione e intensità»[8]. Le rivoluzioni spaziali sopra richiamate, evidenzia Revelli, «[s]i innescano per effetto di un’‘invenzione’ (o di una ‘scoperta’) e si sostanziano in una molteplicità di mezzi (scientifici, meccanici, linguistici, organizzativi)»[9]. È quanto è accaduto con l’‘invenzione’ dell’agricoltura, con l’apparato giuridico e la rete stradale dell’impero romano, con le scoperte della sfericità ed eccentricità del pianeta a cavallo tra il quindicesimo e il sedicesimo secolo, con la costruzione dello spazio ‘perimetrato’, ‘controllato’ e ‘amministrato’ dei moderni stati-nazione. In ciascuno di questi passaggi, lo spazio fisico viene strutturato in guisa tale che le forme della sua intuizione sono corrispondentemente riorganizzate, dando luogo a uno spazio sociale di genere nuovo, in cui il fraseriano ‘presente sociale’ si rimodula in ampiezza e velocità, con una bolla di ignoranza che via via si riduce sempre più.

 

 

Il ‘gran finale’: compiuta defisicizzazione spaziale e dissoluzione della strutturazione del politico.

Tuttavia, allorché questo processo compie il suo passaggio al limite, ossia quando non vi è più alcuno scarto perché la distanza fisica è stata integralmente soppressa dalla tecnologia e ogni luogo, non importa dove e quanto distante sia, è ‘p r e s e n te’ in termini di conoscenza e di agibilità, il sistema dello spazio entra in una nuova fase. È questa la fase della c.d.  g l o b a l i z z a z i o n e, in cui le tecnologie informatiche, nelle loro versioni  t e l e m a t i c h e, hanno effettivamente soppresso le distanze fisiche. Oggi, in molti casi e per molte varietà di azione sociale, la conoscenza/azione può essere esercitata a qualsiasi distanza fisica parlando in una cornetta telefonica, inviando messaggi multimediali tramite la rete, esercitando  a z i o n i   e f f e t t u a l i  con il semplice ‘click’ di un mouse (‘teleazione’).

Inoltre, il combinato tecnologico emerso a cavallo tra la fine del ventesimo e gli inizi di questo ventunesimo secolo tra computer, satelliti, container e cargo, ha messo in moto processi di multi-locali di produzione, assemblamento, confezionamento e distribuzione di merci e servizi, la cui più evidente manifestazione sono le società transnazionali e i vari generi di ‘fondi’, le cui dimensioni e rilevanza economica ¾ si dice e Revelli lo fa proprio ¾ avrebbero via via, a partire all’incirca dagli anni ottanta/novanta del secolo scorso, svuotata gran parte della sovranità degli stati-nazione e, addirittura, li avrebbero soggiogati a vantaggio degli interessi di questi soggetti transnazionali e a scapito di quelli dei loro amministrati

È questa, per Revelli,  la  q u i n t a  rivoluzione spaziale, che riplasma ancora una volta lo spazio fisico e dà origine a un nuovo, inedito spazio sociale, caratterizzato dalla ‘evaporazione’ del ‘luogo’ e di quel sistema di riferimenti a esso connessi. «È evidente che in un simile contesto ‘puntiforme’ ¾ in questa contemporanea perdita di estensione del tempo e dello spazio che tende ad annullare il potere ordinatore della superficie e delle sue misure certe ¾ cadano, tutti insieme ¾ o comunque risultino in qualche misura relativizzati ¾ , i buoni vecchi criteri di organizzazione razionale della spazialità: ‘dentro e fuori’ […], ma anche ‘qui e là’, ‘vicino e lontano’, ‘contiguo e separato’, ‘presente e assente’, non esclusa neppure la fino a oggi stabile distinzione ‘a destra e a sinistra’»[10].

Siamo dunque arrivati al cuore della tesi revelliana, che potrebbe ora suonare così: ‘lo spazio fisico, inteso come ambito delle distanze, a un certo stadio delle tecnologie comunicative, si era strutturato per ‘luoghi’ e per ‘confini’; allorché nuove tecnologie hanno abolito le distanze, lo spazio di ‘luoghi’ e ‘confini’ si è dissolto; e,  c o n   e s s o, le  i d e n t i t à  di coloro che abitavano quei luoghi in quei confini’. «[L]a globalizzazione […] [è] il contesto tecnico e sociale in cui i flussi assumono il proprio predominio sui luoghi […], e con i ‘luoghi’ sfidando e surdeterminando le identità stesse, individuali e collettive, private o pubbliche, che sulla stabilità e consistenza spaziale si erano strutturate, a cominciare appunto da quelle ‘culture politiche vincolate’ che rispondono all’alternativa spaziale ‘Destra/Sinistra’, costrette dalla dimensione di flusso a una ricorrente proteiformità»[11].

Quindi, i flussi di ‘teleazioni’, attraverso la relativizzazione dei luoghi, relativizzerebbero altresì le identità, e, in particolare, quella varietà di identità che sono le ‘culture politiche’, nelle quali ¾ nel mondo dello spazio sociale precedente, ‘che fu’, che ci è familiare ¾ l’asse spaziale sinistra/destra era l’ordinatore per eccellenza. E, conseguentemente, sorge a Revelli il problema «di come si possa immaginare di ‘ordinare’ su un unico continuum lineare ¾ come quello costituito dall’asse bidimensionale ‘Destra/Sinistra’ ¾ un’eterogeneità così ampia e ‘irriducibile’ d’identità e culture, concentrate, tuttavia, in un unico spazio unidimensionale»[12].

Ma  c o m e  è che i flussi (che sono di merci, di servizi, di teleazioni, etc.) fanno evaporare le distinzioni del tipo sinistra/destra (che sono di un’ a l t r a  natura, sono  p o l i t i c h e)? La risposta di Revelli è che la politicità inerente a quelle distinzioni è connessa a una serie di assunti che l’avvento della globalizzazione, con le sue capacità assolute di teleazione, ha svuotato e nullificato. Revelli produce a suffragio di questo assunto la «progressiva perdita di autonomia da parte dei consolidati ‘poteri pubblici’, surdeterminati in misura crescente da poteri privati transnazionali o metanazionali»[13], il «sistema dei media», con particolare rilevanza delle varie telecom mondiali[14], i «grandi gruppi economici transnazionali»[15].

Quel che di comune v’è in tutti questi attori e processi è «un gigantesco […] processo di ri-privatizzazione dello spazio sociale, che arresta e inverte il lungo (e opposto) processo di trasformazione del potere in senso politico-pubblicistico che aveva caratterizzato il lungo cammino della modernità politica»[16], un processo che avendo il suo centro generatore e propulsore nella sfera dell’economico, «con la forza discreta delle ‘rivoluzioni passive’»[17], penetra anche nella altre sfere, compresa quella della decisione e della rappresentanza politiche, erodendone il carattere ‘pubblicistico’. Reggendosi infatti la ‘pubblicità’ sul ‘controllo’, non essendovi cioè legittimazione in assenza di responsabilità, ecco che, in un contesto i cui i poteri effettuali non hanno volto, non si può dare una effettiva rappresentanza, un effettivo sistema di decisioni pubbliche ¾ non può esservi p o l i t i c a  nel senso di questo termine che ‘fu’ caratteristico degli ordinamenti statali-nazionali. Insomma, per effetto del portato della rivoluzione tecnologica di fine millennio, il sistema degli ordinamenti spaziali statuali-nazionali sovrani sarebbe venuto via via depotenziandosi e sfilacciandosi, sicché, per effetto di tutto questo, atti  p o l i t i c i  realmente ‘sovrani’, tali cioè da dare luogo a una effettiva scelta circa il tipo di società che al loro interno si vuole realizzare, debbono apparire ormai un che di inattuale; e questa inattualità infetterebbe anche la sua più importante strutturazione interna, l’opposizione fondamentale tra sinistra e destra.

La quinta rivoluzione spaziale, quella della globalizzazione, scardinerebbe dunque l’impianto noto della politica e della sua assialità sinistra/destra perché farebbe venire meno il ‘campo di gioco’, le ‘regole’ del gioco stesso, la ‘collocabilità’ delle singole questioni di merito (ambiente, genere, etnicismo, etc.) in un dispositivo di decidibilità.

 

Dalla despazializzazione alla depoliticizzazione: un non sequitur.

Questo il percorso argomentativo di Revelli. Esso sicuramente fotografa con fedeltà i fenomeni occorsi storicamente nelle vicissitudini della percezione dello spazio fisico alla luce delle forme dell’organizzazione sociale e istituzionale. Tuttavia, se nei confronti di Revelli studioso non v’è da eccepire nulla, nei confronti di Revelli  t e o r i c o  è possibile formulare varie considerazioni critiche.

Come in genere accade a ogni studioso, Revelli, nel ricostruire gli eventi occorsi, nel comprenderli, in qualche modo li fa propri, li accoglie e li  a c c e t t a  nel proprio quadro di assunti cognitivi. Questo vale sicuramente per la sua ricostruzione della c.d.  g l o b a l i z z a z i o n e, la quinta, secondo il suo schema, delle rivoluzioni spaziali.

Come è stato detto, purché una cosa sia ripetuta un sufficiente numero di volte, passerà dallo status di asserzione a quello di fatto indiscusso. Poche parole al giorno d’oggi sono polisemiche come ‘globalizzazione’, ma a forza di farne uso ci si è convinti che essa denoti qualcosa, anzi addirittura  u n a  cosa. Ma non è così.

Intanto v’è la globalizzazione intesa come accrescimento degli scambi economici e culturali fra aree e paesi del pianeta; in questo senso, la globalizzazione è un fatto di  g r a d o, non di  g e n e r e: la circostanza che, negli ultimi decenni, il volume degli scambi sia cresciuto in modo rilevante su scala planetaria  costituisce per l’appunto un fatto, che, come tale, non si vede come possa avere ricadute di altra natura, p.e. circa l’agire politico e le sue categorie costitutive e ordinatrici. Certo, questo infittirsi delle relazioni fra aree e popoli produce cooperazione ma più spesso incomprensioni e conflitti: ma nulla di essenzialmente diverso da quel che accadeva un tempo in quell’ambito che si definiva inter-nazionale. Ma globalizzazione significa anche un modo di ‘economizzare’ reso possibile da quel combinato di informatica-satelliti-container-cargo sopra richiamato: un ‘economizzare’ che assume qualsiasi luogo del pianeta come potenzialmente idoneo a impiantarvi ed esercitarvi attività economiche di vario genere. Le filiere produttive di beni e servizi sono sempre più multi-nazione: ciò pone problemi di ordine nuovo, ma a ben guardare solo in senso relativo. Sono i noti problemi connessi ai vari mercati, di acquisto dei fattori e di vendita dei prodotti: le imprese cercano di impiantare la propria attività, di produzione e di smercio, laddove vi sono le condizioni più convenienti[18]. Gobalizzazione, in un senso più restrittivo, viene intesa anche come l’ambito dell’azione a distanza in tempo reale, la ‘teleazione’ di P. Virilio. Ma va rilevato che l’effettiva ‘compiutezza’ della teleagibilità si circoscrive ad alcuni ristretti ambiti: transazioni finanziarie e commerciale via rete, lavoro comune  multidistribuito p.e. alla elaborazione di un software, di un progetto, etc. In questo senso, ancora, globalizzazione in senso forte e compiuto spesso viene riservata alle attività finanziarie, svolte dai fondi di investimento, assicurativi, pensionistici e, buoni ultimi, dai c.d. ‘fondi sovrani’, ossia da quegli investimenti all’estero di capitale pubblico, per lo più cinese o delle “tigri asiatiche”, gestiti direttamente dallo stato. V’è un debordante letteratura di varia qualità su natura e peculiarità di questi fondi: ma quel che v’è di caratteristico in essi è il perseguimento di profitti a breve, con i problemi connessi alla loro mobilità estrema[19]. E si potrebbe continuare.

Ma quel che resta fermo ¾ ed è  i d e o l o g i c a m e n t e  l’aspetto più rilevante ¾ in questo caleidoscopio di interpretazioni è che la globalizzazione viene assunta/presunta come un che di compiutamente definito, un processo integralmente già dispiegatosi, di cui si tratterebbe solo di osservarne gli effetti, diretti e indotti. Si tratta di una fallacia che potrebbe essere denominata ‘perfettiva’ perché assume come già compiuta quella che, nell’ipotesi migliore, è in atto ancora solo una tendenza, le cui modalizzazioni ed esiti sono ancora tutti da osservare e comprendere[20]. Ebbene, a questa non-cosa che è la globalizzazione Revelli attribuisce metafisicamente una efficacia generativa, quella cioè di erodere la dimensione pubblicistica degli ordinamenti statali-nazionali[21] e, così, di rendere aporetica la dimensione politica e la sua strutturazione assiale in sinistra/destra.

A tale proposito va osservato che i processi che oggi chiamiamo ‘globalizzazione’ sono il risultato di precise  s c e l t e  di fare (o non fare) anzitutto proprio da parte degli stati nazionali. La deregolamentazione del sistema bancario, negli Stati uniti prima e in Europa poi; le scelte a suo tempo compiute in relazione alla gestione dei c.d. petrodollari; la pressione insistente da parte degli Stati uniti per la apertura degli scambi con le buone o con le cattive; la insistenza in senso opposto loro per la protezione dei diritti di proprietà intellettuale; l’incessante pressione per lo smantellamento delle aree pubbliche (servizi previdenziali, sanitari, postali, scolastici, sociali, etc.) per poterne fare aree di espansione per profitti privati; e si potrebbe proseguire per un bel pezzo.

Ma quel che qui ci interessa è rilevare che la fallacia perfettiva, in cui gli studiosi più di altri sono inclini a incorrere, non solo è fonte di qui pro quo analitici, ma, quel che è peggio, una volta instauratosi il luogo comune che c’è una ‘cosa’ che è la globalizzazione, che è nata e si è sviluppata per virtù sua propria, ecco che si è portati tendenzialmente a ignorarne la matrice  p o l i t i c a  che le ha creato le condizioni per formarsi, e si viene conseguentemente a cadere in un atteggiamento  n a t u r a l i s t i c o  che è la esatta negazione di un atteggiamento scientifico (che è di natura intrinsecamente critica). ‘Atteggiamento naturalistico’ significa, ai fini pratici, che la ‘cosa’  c ’ è (!), che è un che di ‘naturale’, che bisogna in qualche modo prenderne atto e imparare a convivervi, che occorre accettarla nell’orizzonte della propria quotidiana esistenza ¾ così come ci si adatta e si impara a convivere con i raffreddori o le calamità atmosferiche. Quando si è raggiunto questo stadio, l’azione regressiva dell’ideologia ha finito il suo lavoro e può celebrare il proprio successo!

In realtà la c.d. globalizzazione è un fenomeno fortemente  v o l u t o  dal capitale che da mercati più accessibili, più ampi, poco o nulla regolamentati, si è sempre ragionevolmente atteso di mietere profitti più rilevanti che nelle economie di raggio nazionale o regionale, o anche sovraprofitti; questo fenomeno storicamente si è tradotto nel colonialismo nel diciannovesimo secolo e nell’imperialismo degli inizi del ventesimo[22]; oggi la forma assunta da questa esigenza del capitale è la globalizzazione[23]. Essa, pertanto, non è una ‘cosa’, non è un ‘fatto’, meno che meno ‘già-compiuto’, ma una  e s i g e n z a  del capitale e un correlato  d i s e g n o, alla cui implementazione concorrono con vari ruoli più attori: gli Stati uniti, l’Europa, le agenzie internazionali del capitalismo (Fmi, Bm, Omc, Bri, Ocse, Oil, etc., le imprese transnazionali, i vari fondi, le stesse organizzazioni non governative ‘globali’[24]). Se la globalizzazione viene svelata per quello che prosaicamente è, è chiaro che essendo un  a r t e f a t t o   p u ò, ove occorra, essere messa in discussione, combattuta, bloccata.

Non questo è l’atteggiamento di Revelli, per il quale la globalizzazione, fait accompli, è solo da studiare negli effetti di de-pubblicizzazione e de-politicizzazione che essa ‘provoca’, e comunque senza che ciò lo allarmi o la faccia reagire in alcun modo. Per lui è un ‘fatto’che la globalizzazione ri-privatizzi lo spazio sociale, de-pubbliczzi l’azione dei poteri istituzionali locali, de-politicizzi il nesso di rappresentanza e la ‘sovranità’ delle scelte politiche: ma, oltre a rilevarlo, a rilevarne le sole cause prossime (l’azione ‘interessata’ degli attori globali: imprese transnazionali, telecom, fondi, etc.), avendolo già ‘sacralizzato’ a ‘fatto’, a un che di ‘naturale’, non scava più in profondità per ricercare eventuali cause remote e molto più illuminanti circa fini e natura di questi attori; e, in parallelo, non ha nulla da rilevare in ordine alle negatività connesse alla ri-privatizzazione, alla de-pubblicizzazione, alla de-polticizzazione.

Non è questo un limite della posizione del solo Revelli: è un modo d’essere sempre presente ¾ l’assuefazione, la rassegnazione al presente, all’esistente. Ciò è possibile perché v’è, specie nella società post-tipografica e ‘spettacolare’ in cui viviamo[25], una drammatica   p e r d i t a   d e l l a   r e a l t à, ossia del parametro con il quale possiamo misurare la falsità e la negatività di ciò che appare. Vediamo ciò che scintilla alla superficie, vediamo le cose ‘macro’, e ne siamo catturati in via esclusiva; ma ciò che appare può apparire perché v’è un suo fondamento che, spesso, è di natura assai diversa e anzi antitetica. Manca, ci manca, quel che è stata detta la ‘passione del reale’, il bisogno ardente di riguadagnare quel terreno di realtà che è la condizione preliminare per rifiutare di abbandonarsi alla corrente dei luoghi comuni dei ‘fatti (presuntamente) compiuti’, quel terreno che, solo, forse, può suscitare il bruciante sentimento dell’ingiustizia e la spinta alla combattività contro l’‘indesiderabilità del presente’ ¾ sentimento e spinta che costituiscono l’anima della p o l i t i c a, ossia un prendere partito a favore di certe opzioni e contro altre, al prezzo di dedizione, compromessi, sacrifici[26].

E con questo il cerchio del ragionamento si chiude. Perché Revelli, come tanti altri, dalla tesi errata della (avvenuta) depoliticizzazione della realtà trae la conclusione altrettanto errata della inattualità e inutilizzabilità della dicotomia sinistra/destra.

In relazione a questo vorrei rifarmi a uno dei suoi cinque criteri per identificare sinistra e destra. Tralasciando come estrinseci e avventizi quello temporale, quello spaziale, quello sociologico e quello gnoseologico, mi soffermo su quello ‘decisionale’: la sinistra non accetta il potere normativo della natura, mentre la destra tende a naturalizzare l’ordine, cosicché il tratto distintivo delle due identità è «l’opzione per l’ a u t o d i r e z i o n e  ¾ meglio, per l’ a u t o – n o m i a ¾ come valore identificante della prima, rispetto al privilegio dell’ e t e r o – d i r e z i o n e ¾ dell’ e t e r o – n o m i a ¾ che caratterizza […] le varie destre»[27].

Il nocciolo dell’intera questione è tutto qui: la differenza tra sinistra e destra ha a che vedere, in essenza, solo con la questione di chi ‘decide’, di chi ‘dirige’: quindi con la questione della ‘signoria’, del ‘comando’, del ‘controllo’. La sinistra vuole pensare e organizzare le questioni che interessano la società su un principio di autodeterminazione, esaminando e preferendo alcune opzioni rispetto ad altre, e quindi scegliendo quel che è più ‘convenable[28] rispetto a un ipotizzato ‘tipo’ d’uomo. Molte delle cose di cui è costellata e intessuta l’avventura esistenziale di un individuo non sono una ‘condanna biblica’, una determinazione ‘di natura’, che è necessario ci si rassegni a trascinarsi come un fardello per tutta la vita; sono invece il risultato di sedimenti storici e sociali o di precise scelte politiche; e, come tali, deve essere possibile liberarsene, adottare quelle che sono meglio confacenti, così da potere tentare di dare espressione ai propri progetti, al proprio potenziale.

La differenza tra sinistra e destra è inscritta su un piano puramente concettuale: la coppia autodirezione/eterodirezione in virtù della sua natura puramente logica non è toccata affatto dalle vicissitudini che occorrano sul piano storico-empirico. Con riferimento alle tesi revelliane in esame, può ben essere che ci si trovi di fronte a una ulteriore rivoluzione della percezione e fruizione dello spazio; ma questa modificazione, mentre crea senz’altro una serie di problemi sotto vari riguardi, non sfiora neppure alla lontana la circostanza che, rispetto a quel che accade ¾ la materia prima su cui si esercita il giudizio politico ¾ , e rispetto al prendere partito ¾ chi si è e con chi si sta, ossia la propria  i d e n