Globalizzazione, atto II
di Philip S. Golub - 15/09/2005
Fonte: Le Monde Diplomatique - Il Manifesto
Globalizzazione, atto II
La grande svolta di Washington
Philip S. Golub
Il 20 giugno, ricevendo Jean-Claude Juncker e José Manuel Barroso, delegati d'una Unione europea in crisi, Gorge W. Bush ha affermato: «Gli Stati uniti continuano a sostenere l'Unione europea, un partner solido». Ma, al di là delle formule diplomatiche, l'amministrazione americana si dibatte nelle sue contraddizioni, poiché il suo unilateralismo - economico, commerciale e militare - si urta alla realtà multilaterale del pianeta. Lo stato di salute economico della prima potenza dipende largamente dal risparmio mondiale, ma i politici di Washington, ispirati dalla sua supremazia militare, contraddicono il sacrosanto principio del libero scambio ufficialmente difeso. Si tratta forse di una svolta storica, simile a quella che mise fine, tra il 1880 e il 1914, alla prima fase della globalizzazione capitalista?
Philip S. Golub
La globalizzazione della fine del XX secolo, intesa come l'unificazione dell'economia mondiale secondo un paradigma liberista, sembra esssere arrivata al suo termine. I sintomi sono svariati: guerre imperialiste, aumento dei nazionalismi, conflitti commerciali sempre più gravi nel nucleo centrale del capitalismo e fuori di esso, moti sociali che attraversano il mondo intero. E tutto questo in un contesto di squilibri strutturali dell'economia mondiale e di disuguaglianze sociali tanto all'interno di ogni paese che tra di essi.(1) Queste tendenze disgregatrici indebolisconoi modelli di cooperazione tra gli statie i regimi governativi che sottintendono l'ordine mondiale.
Esse riflettono la contraddizione tra il carattere multinazionale dell'espansione capitalistica e la segmentazione del sistema interstatale moderno lungo linee nazionali.
Alla fine del XIX secolo, la congiunzione tra nazionalismo e militarismo ha inferto un colpo fatale all'ordine economico internazionale, dominato dalla Gran Bretagna, ponendo fine al lungo periodo di pace che l'Europa aveva conosciuto dopo il 1815. L'ascesa di uno stato tedesco forte e militarizzato e le rivalità inter-imperialiste hanno finito per compromettere definitivamente la capacità della Gran Bretagna di «occupare il centro». I paradigmi del liberismo economico e del libero scambio prevalenti verso la metà del secolo, già in declino fin dagli anni 1880, crollarono quando la Germania guglielmina si lanciò, nel 1914, alla conquista dell'egemonia europea. Finì così, in un mare di sangue, la prima fase della globalizzazione occidentale sotto gli auspici britannici.
Nel suo celebre libro sul declino del liberalismo, il fascismo e lo scoppio della prima guerra mondiale, Karl Polanyi (2) dimostra come la cooperazione capitalistica transnazionale, incarnata dalle reti paneuropee dell'alta finanza, che «per sua determinazione funzionale avrebbe avuto il compito di impedire le guerre generali», finisce per soccombere alle politiche di potenza nazionali: «La potenza aveva preso il sopravvento sul profitto. Per quanto profonda fosse l'interpenetrazione dei loro ambiti, in definitiva fu la guerra a dettare la sua legge al commercio». Nonostante il grado avanzato dell'integrazione economica europea nella seconda metà del XIX secolo, il tessuto dell'interdipendenza capitalista fu polverizzato dall'ondata di piena del nazionalismo.
Provocata dai disastri dell'«autoregolazione del mercato», quest'ondata era culminata nel fascismo. Come fenomeno generale il fascismo, che aveva schiacciato tanto il liberalismo quanto il socialismo, fu una «soluzione» patologica e letale «al vicolo cieco nel quale si era cacciato il capitalismo liberale», una riforma «dell'economia di mercato realizzata al prezzo dell'eradicazione di tutte le istituzioni democratiche». La società, secondo Polanyi, aveva «preso le sue misure per proteggersi» da un «mercato affidato alla propria autoregolazione», istituzione questa che «non poteva esistere in maniera continuativa senza annientare la sostanza umana e naturale della società». Prevalse così un modello di stato militarizzato e forte, con una società unificata al suo seguito (3).
Anche se la storia non consiste in un eterno ritorno degli stessi fenomeni, l'ipotesi di Polanyi fornisce tuttavia un quadro utile all'analisi delle gravi crisi della nostra epoca. Vi sono potenti le forze disgregatrici che minacciano l'edificio dell'attuale ordine liberista. Al livello della società l'indurimento della resistenza sociale di fronte alla competizione del «libero mercato», si traduce tanto nell'apparire di un movimento democratico mondiale di trasformazione sociale, quanto nell'aumento dei populismi autoritari di destra.
Sul piano della società la resistenza si fa più dura, e si traduce nel sorgere di un movimento democratico mondiale di trasformazione sociale, ma anche nell'ascesa di populismi autoritari di destra.
Sul piano del potere degli stato, la reazione più rivelatrice è la spettacolare rimonta dei nazionalismi in Cina, in Russia, in Giappone, in Europa (4) e altrove. Negli Stati uniti, cioè nel cuore stesso del sistema capitalista mondiale, il nazionalismo ha assunto una forma particolarmente esacerbata: quella dell'imperialismo. Questa ri-nazionalizzazione della politica mondiale segna la fine dell'interludio liberista del dopo-guerra fredda. Alla fine degli anni '80 e negli anni '90, molti hanno creduto che il sorgere del cosiddetto «villaggio globale» (la rivoluzione informatica con la conseguente compressione del tempo e dello spazio), la multinazionalizzazione del capitale e la creazione di reti produttive planetarie orizzontali avrebbero condotto a una redistribuzione del potere, dagli attori pubblici verso quelli privati, e alla «progressiva scomparsa dello stato territoriale moderno come sede prima del potere mondiale (5)».
Secondo le tesi dei teorici liberal-democratici, siamo ormai entrati nel periodo post-moderno, in cui lo stato-nazione era rimesso in discussione in due sensi: dal basso, cioè da una società civile forte di un nuovo potere, e dall'alto, dai mercati globalizzati autonomi.
Il periodo post-moderno trasforma la stessa grammatica della politica mondiale: visto che l'interdipendenza creata dai mercati mondiali e dagli attori transnazionali frena gli impulsi bellicisti dello stato-nazione moderno, il potere fondato sulla persuasione (soft power) dovrebbe soppiantare quello fondato sulla forza (hard power).
La tesi liberaldemocratica accomuna gli istituzionalisti, fautori di una maggior cooperazione interstatuale, ai pacifisti commerciali, che vedono nella crescente interdipendenza e convergenza economica il fondamento di una pace democratica durevole. In una prospettiva socialdemocratica, il filosofo Jürgen Habermas vede profilarsi una costellazione di forze favorevole, in grado di attuare infine il progetto illuminista di una pace kantiana fondata su una «concezione cosmopolitica del diritto», che trascenda il diritto internazionale (6). Più a sinistra, in una riflessione sulla multinazionalizzazione del capitale, sulla riconfigurazione dello stato e sulle nuove forme di governance mondiale, i teorici neo-marxisti si sono chiesti se l'imperialismo sia tuttora una categoria di analisi utile. Negli anni '90 vari intellettuali partono dalla tesi di Karl Kautsky sull'«ultra-imperialismo» (1914), in base alla quale la cooperazione capitalistica può trascendere le rivalità inter-imperialiste provocate dalle ambizioni monopolistiche degli stati-nazione e dei cartelli nazionali, per concludere che il tardo capitalismo abbia inaugurato un'era post-imperialista (7).
E ne individuano i segni nella formazione di un ceto capitalista transnazionale, ben consapevole del fatto che i suoi interessi globali trascendono il quadro nazionale territoriale (8). Il capitalismo classico, o la rivalità per il monopolio tra stati-nazione espansionisti, non è più un'opzione in un sistema capitalistico interdipendente, governato da istituzioni suprastatali che riflettono gli interessi comuni della nuova classe.
Un nazionalismo robusto Alla fine del decennio, Toni Negri e Michael Hardt accreditano in larga misura una versione leggermente riveduta di quest'ipotesi.
Nel loro libro, Impero, formulano il postulato metastorico secondo il quale l'impero contemporaneo non è una fievole eco degli imperialismi moderni, bensì una forma di dominio fondamentalmente nuova (9). A loro dire, l'impero ha ormai tagliato il cordone ombelicale che lo collegava allo stato-nazione, e non è più delimitato da un territorio: privo oramai di un centro politico, il nuovo imperium globale diventa espressione di un insieme geometrico di rapporti di potere e di dominio creati dai mercati globalizzati a tutti i livelli della vita sociale, in contrasto con i sistemi di dominio verticali e concentrati degli antichi imperi europei. Nella nuova configurazione globalizzata il potere è diffuso, decentrato e orizzontale. Questo fenomeno conduce a sua volta a nuove forme transnazionali di resistenza da parte di quelle reti decentrate che sono le moltitudini. Così definito, l'impero diventa un reame mondiale senza limiti e senza nome.
Anche se in modi diversi, tutte queste prospettive suggeriscono dunque un cambiamento epocale, il passaggio dalle strategie di massimizzazione della potenza dello stato-nazione moderno a una configurazione post-nazionale e post-moderna della globalità. Tuttavia, nel momento stesso in cui queste idee venivano formulate, forze potenti stavano già segretamente erodendo le fragili fondamenta dell'ordine mondiale liberale capitalista.
Forze che ormai sono chiaramente visibili.
La principale di queste forze perturbatrici viene dagli Stati uniti, e punta, sotto la presidenza di George W. Bush, a un monopolio nazionale.
C'è un questo una certa ironia, dato che proprio gli Usa, negli anni 1990, sono stati il motore e il principale beneficiario dell'integrazione capitalistica e dell'economia di mercato globalizzata. La globalizzazione ha rafforzato l'autonomia americana, dato che «la crescente mobilità dell'informazione e della finanza, dei beni e dei servizi, ha liberato il governo americano dai suoi vincoli e al tempo stesso ha imposto vincoli maggiori a tutti gli altri paesi (10)».
Ma l'affermazione di un «robusto nazionalismo» (americano) - espressione usata da Samuel Huntington, noto per la sua tesi sullo «scontro tra civiltà», per definire il nuovo ethos statunitense - ha totalmente sconvolto la traiettoria degli affari mondiali. La globalizzazione liberista e l'interdipendenza capitalista sono soppiantate da una politica di potenza imperiale, che si afferma in quanto tale. Così come nel XIX secolo l'espansione dell'economia di mercato, con al suo centro Londra, era tenuta in piedi da un ordine politico e rafforzata da reti transnazionali interessate a far regnare la pace in Europa (11), la globalizzazione del XXI secolo esigerebbe, per poter proseguire il suo corso, che gli Stati uniti continuassero a sostenere un sistema di cooperazione globalizzata tra stati e regimi liberisti per il governo dell'economia mondiale. Ma al contrario di Londra, che ha perduto le sue passate prerogative di controllo, Washington ha scelto di destrutturare il sistema globale. Secondo Stanley Hoffmann: «Gli Stati uniti vogliono sia ritornare alle condizioni di prima del 1914 (...) quando considerandosi i guardiani dell'ordine mondiale lasciavano gli altri stati a risolvere i vincoli presenti riservandosi il diritto di scegliere tra gli obblighi del diritto e delle istituzioni internazionali quelli utili ai propri interessi, respingendo tutti gli altri» (12).
Questa scelta riflette le opzioni e gli interessi del blocco di forze nazional- imperialiste formatosi a destra durante la guerra fredda, che nel gennaio 2001 è arrivato al potere. Come scrive Stephen Gill, ricercatore nel campo delle relazioni internazionali, questo blocco nazionale è storicamente «legato al complesso di sicurezza, ai settori protezionisti in declino e ai pensatori geopolitici di obbedienza realista (13)». In seno alla società americana, si distingue dalle forze transnazionalizzate più cosmopolite, e segnatamente «dagli interessi economici (corporate interests) più globalizzati, che hanno bisogno di avere accesso ai mercati e ai capitali di altri paesi e si identificano in maniera meno precisa con l'entità territoriale americana». Interessi rappresentati dai «capitalisti d'altura», («capitalistes du grand large», secondo la definizione di Fernand Braudel), simili ai loro omologhi del XIX secolo, i cui interessi e la cui stessa esistenza dipendono dalle reti di cooperazione transnazionali. Mentre la composizione dell'amministrazione di Willian Clinton, così come la sua politica, riflettevano almeno in parte gli interessi di questa classe cosmopolita, influente ancorché ristretta, l'élite di destra attualmente al potere rappresenta il complesso militare- industriale, vale a dire il settore meno autonomo e più nazionalista dell'economia politica americana. Meno autonomo in ragione della sua fusione con lo stato, dal quale dipende per la sua esistenza e il suo sviluppo; e più nazionalista, in quanto il suo obiettivo è per definizione quello di massimizzare la potenza della nazione.
Ciascuna di queste due componenti della classe dirigente ha l'appoggio di una vasta base sociale. Come risulta evidente dalla ripartizione geografica alle elezioni presidenziali del novembre 2004, la base sociale dei liberal-internazionalisti si concentra nelle aree urbane costiere ad alta densità demografica, mentre il grosso della base popolare del nazionalismo e del militarismo coincide con le zone rurali e i ceti popolare e medio, nel cuore del paese. Questa disparità sociologa si riflette talora in differenze politiche molto marcate. Ad esempio, la squadra di William Clinton aveva tentato di modificare gli equilibri istituzionali in seno al governo in favore del Dipartimento del tesoro, sforzandosi soprattutto di favorire, sui mercati di recente globalizzazione, i vantaggi comparativi dei settori più internazionalizzati del capitale americano. Per converso l'amministrazione Bush, si è posto fin dall'inizio un solo obiettivo: quello di rafforzare l'hard power degli Usa e di mobilitare le forze armate americane, con il fine di stabilire un ordine mondiale disciplinare, sotto controllo monopolistico. Come ha detto molto chiaramente Condoleezza Rice prima delle elezioni del 2000, il blocco delle forze legate a George W. Bush era intenzionato a liberarsi da una «comunità internazionale illusoria» e ad abbattere il paradigma liberal, accantonando l'esitante politica di internazionalista degli anni 1990 in favore del nazionalismo, dell'uso della forza e della guerra (14).
Monopolio armato e deriva protezionistica La formazione del blocco nazional-imperialista è avvenuta in tre grandi tappe. Innanzitutto, verso la metà degli anni '70 i fautori più radicali della guerra fredda erano in parte riusciti a vanificare gli sforzi di distensione Est- Ovest (15). La loro impresa è stata però frenata dalla necessità di mantenere le alleanze internazionali della guerra fredda. Il tentativo di segnare un vantaggio unilaterale avrebbe minacciato l'unità «occidentale», e compromesso la legittimità americana, già intaccata dalla guerra in Vietnam. È seguita poi, negli anni '80, sotto la presidenza di Ronald Reagan, la «rivoluzione conservatrice», accompagnata da un nuovo tentativo di affermare il primato americano attraverso la mobilitazione militare e l'unilateralismo in materia di politica estera e commerciale. Infine - terza tappa - la fusione, avvenuta negli anni '90, tra il neo-conservatorismo e il militarismo della cintura della bibbia (bible belt militarism), che nel 1994 ha portato alla vittoria della nuova destra al Congresso.
Il successo dei repubblicani si è tradotto in una campagna volta a indebolire, se non ad annientare le Nazioni unite, e a rafforzare l'autonomia Usa a spese di tutti gli altri paesi. Ricordiamo che negli anni '90 il Congresso americano, spesso alleato a un Pentagono sempre più autonomo dalla presidenza, non solo rifiutò di versare la quota degli Usa alle Nazioni unite, ma impose sanzioni economiche unilaterali contro 35 stati membri dell'organizzazione, votò in favore di una legislazione extra-territoriale (leggi Helms-Torricelli) in violazione del diritto internazionale, non ratificò una serie di convenzioni internazionali e trattati di primaria importanza sul controllo degli armamenti (quali la convenzione di Ottawa del 1997, che vieta la produzione, il commercio e l'uso di mine antiuomo, o il trattato globale sulla messa al bando degli esperimenti nucleari (Comprehensive Test Ban Treaty).
Pur avendo ratificato, nel 1997, la Convenzione sulle armi chimiche, il Congresso americano ha fatto in modo di introdurre nel testo alcune deroghe che lo svuotano della sua sostanza. Agli inizi del 2001, l'amministrazione Bush non ha ratificato il protocollo di Kyoto (che era stato firmato dal presidente Clinton), ha respinto il programma delle Nazioni Unite per il controllo delle armi leggere, ha bloccato gli sforzi volti ad aggiungere un protocollo di verifica alla Convenzione sulle armi biologiche e si è semplicemente dissociata dal Trattato sui missili antibalistici (Abm).
Questa campagna ha raggiungo il suo culmine nel 2003, con la guerra in Iraq e i discorsi di legittimazione inneggianti all'impero mondiale.
Oggi, malgrado l'eclatante insuccesso di quest'avventura imperialista (che lo stesso George W. Bush ha definito «un successo catastrofico») e una crisi di legittimità senza precedenti, l'amministrazione prosegue sulla via monopolistica. Lo dimostrano alcuni segnali in diversi campi (16), ma soprattutto la volontà americana, affermata con crescente insistenza, di conseguire una supremazia militare assoluta e illimitata.
E lo confermano due recenti decisioni governative, per lo sviluppo delle armi nucleari miniaturizzate first strike (primo impatto) e l'adozione di una strategia spaziale global strike (impatto globale).
L'annuncio di questo programma di militarizzazione dello spazio è imminente. Il suo obiettivo: stabilire e mantenere la superiorità spaziale degli Stati uniti, con la capacità, partendo dallo spazio, di «distruggere centri di comando o basi missilistiche in qualunque parte del pianeta» (17). Questi due programmi si inseriscono perfettamente nella dottrina della supremazia strategica perpetua, delineata sia nella strategia di sicurezza nazionale della Casa bianca (2002) che nella riconfigurazione delle forze armate americane, già postulata da Condoleezza Rice, al fine di «fronteggiare in maniera decisiva l'apparizione di qualunque potenza militare ostile (...) e reagire in maniera decisiva ai regimi canaglia e alle minacce da parte di paesi ostili».
L'uno e l'altro mettono a repentaglio la stabilità del mondo: se infatti la prima incoraggia la proliferazione nucleare, la seconda incita a una nuova corsa agli armamenti nello spazio. Evidentemente, nell'ottica dell'amministrazione Usa, che vede la Cina e la Russia come future potenze rivali (rispettivamente a livello regionale e mondiale), questi due paesi dovranno scegliere tra due alternative: o dedicare le loro limitate risorse alle spese militari, sottraendole all'economia nazionale, o accettare la potenziale supremazia strategica statunitense. Finisce così l'interludio della cooperazione tra Washington, Mosca e Pechino nella «guerra al terrorismo».
Evidentemente il perseguimento del monopolio è l'esatto contrario dell'interdipendenza. E visto che gli Stati uniti rappresentano il centro del sistema capitalistico mondiale, quest'impostazione ha conseguenze planetarie, di cui alcune sono manifeste e altre insidiose.
I suoi effetti perturbatori si stanno estendendo all'economia mondiale.
Gli squilibri strutturali del sistema economico internazionale si traducono nell'adozione di dispositivi protezionisti, e la concorrenza economica sta assumendo la forma classica di conflitti monetari e commerciali sempre più acuti tra paesi e blocchi rivali.
In un mondo multipolare è manifestamente illusorio pensare a un monopolio.
Gli Stati uniti possono pure essere il paese dominante del sistema internazionale, il fatto è che essi sono sempre più presi nell'ingranaggio di una dipendenza che dipende da loro stessi: contribuendo a sostenere l'attività economica asiatica, i modi di consumo e il livello di vita americani devono, per sopravvivere assorbire volumi sempre crescenti del risparmio mondiale (attualmente l'80%). È un fenomeno che non può durare.
Le reti transnazionali di cooperazione capitalistica, formali o informali, e le istituzioni suprastatali di regolazione del capitalismo globalizzato costruite e rafforzate nel corso dei decenni 1980 e 1990 si dimostrano incapaci di tenere in piedi il sistema. E in assenza di un'autorità politica transnazionale in grado di rovesciare questa tendenza alla disintegrazione, si va alla deriva verso il disordine.
note:
* Docente all'università di Parigi VIII e giornalista.
(1) Con la sola eccezione dell'Asia del Sud-Est, la cui riuscita economica è dovuta a circostanze storiche particolari senza rapporto con la globalizzazione, la frattura Nord-Sud si è accentuata nel corso degli ultimi vent'anni. Si veda a questo proposito il rapporto annuale del Programma di sviluppo delle Nazioni unite (Undp) per il 1999. Il differenziale dei redditi tra i paesi più ricchi e quelli più poveri è passato da 30 a 1 nel 1960, a 60 a 1 nel 1990 e 74 a 1 nel 1997.
(2) Storico dell'economia, autore de La grande trasformazione (Einaudi, 1981). Da quest'opera sono tratte le citazioni che figurano in questo paragrafo.
(2) Con la sola eccezione dell'Asia orientale, i cui risultati economici sono dovuti a circostanze storiche particolari, estranee alla globalizzazione, la frattura Nord-Sud si è approfondita nel corso degli ultimi vent'anni.
Si veda, a questo proposito, il rapporto annuale del programma di sviluppo delle Nazioni unite (Pdnu) per il 1999. Il divario dei redditi tra i paesi più ricchi e quelli più poveri è passato da un rapporto di 30 a 1 nel 1960 a 60 a 1 nel 1990 e a 74 a 1 nel 1997.
(3) Nella sua recente opera The Anatomy of Fascism (Alfred Knopf, New York, 2004) Robert O. Paxton ritiene che il fascismo non fosse «antimoderno», ma piuttosto l'espressione di una«modernità altra»: «una società tecnicamente avanzata in cui le tensioni e le visioni della modernità erano state soffocate dai poteri d'integrazione e di controllo del fascismo».
(4) Sotto forma della costituzione durevole dei movimenti e partiti xenofobi di estrema destra, e in alcuni casi di governi populisti di destra come quello di Silvio Berlusconi in Italia, che però fortunatamente conferma la celebre frase di Karl Marx: la storia si ripete prima come tragedia, e poi come farsa.
(5) Giovanni Arrighi, The Long Twentieth Century, Verso, Londra, 1994.
(6) Jürgen Habermas, La paix perpétuelle, le bicentenaire d'une idée kantienne, Les éditions du Cerf, Paris, 1996.
(7) «Imperialisme: a Useful Category of Historical Analysis?» in Radical History Review, n° 57, Duke University Press, 1993. Si veda in particolare l'articolo di Carl Parrini, «The age of ultra-imperialism».
(8) Kees Van Der Pijl, Transnational Classes and International Relations, Ripe Series, Routledge, Londra, 1999.
(9) Michael Hardt e Antonio Negri, Impero, Rizzoli, 2001.
(10) Robert Wade, «The American Empire and its Limits», Destin Working Papers Series, n° 02-22, London School of Economics, 2002. Noëlle Burgi e Philip S. Golub, «Il falso mito dello stato postnazionale», Le Monde diplomatique/il manifesto, aprile 2000.
(11) Il liberalismo e la pace erano limitati all'Europa. Nel resto del mondo l'espansione europea è avvenuta per coercizione, attraverso le conquiste coloniali.
(12)Stanley Hoffmann, «America Goes Backward», New York Review of Books, 12 giugno 2003.
(13) Stephen Gill, American Hegemony and the Trilateral Commission, Cambridge Studies in International Relations, Cambridge University Press, Londra, 1990.
(14) Condoleezza Rice, «Promoting the National Interest», Foreign Affairs, a venire, gennaio- febbraio 2000, vol. 79, n° 1.
(15) Si veda Philip S. Golub «Metamorfosi di una politica imperiale», Le Monde diplomatique/il manifesto, marzo 2003.
(16) Sembra che Washington abbia avviato operazioni clandestine in Iran e in Siria per provocare cambiamenti di regime in questi paesi.
Leggere Seymour Hersh, «The coming wars», New Yorker, 24 gennaio 2005.
(17) Si veda Tim Weiner, «Air Force urges Bush to deploy space arms», The New York Times, 19 maggio 2005.
(Traduzione di E. H.)