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Una rivoluzione ‘dentro’ il capitalismo: alcune osservazioni sul progetto di ‘terza forza’

di Annunziato Antonio Gùrnari - 27/12/2007

 

alcune osservazioni sul progetto di ‘terza forza’ di Gianfranco La Grassa

 

 

Filomeno Viscido ha posto di recente a La Grassa ― studioso del marxismo e teorico di un progetto politico da lui denominato ‘terza forza’ ― dieci domande[1], alle cui risposte dedichiamo le seguenti sommarie note.

La Grassa ci informa in apertura di intervista della sua collocazione di classe: esce dalle fila della borghesia industriale medio-alta, ha lavorato nell’azienda paterna e in altre aziende, e del capitalista  ¾ a sua detta ¾ è in grado di vedere gli aspetti anche positivi: la ‘religione’ del fare, la dedizione all’‘azienda’, l’orgoglio di avere realizzato qualcosa di nuovo. La Grassa apprezza e ammira il capitalismo. Professa inoltre una antropologia improntata a un disincantato pessimismo: l’uomo non è perfettibile, i nuclei pulsionali e motivazionali del suo agire sono e resteranno sempre gli stessi; perciò ¾ anche quando vi fossero ancora sul mercato della politica progetti societari ‘forti’, che si ponessero il problema del ‘tipo d’uomo’ che sarebbe auspicabile ‘coltivare’ e anche qualora tali progetti trovassero un abbrivio di attuazione ¾ non ci si deve illudere che il futuro del vivere associato possa essere significativamente diverso da quello che ci offrono millenni di storia: sfruttamento, complotti, tradimenti, violenze, massacri, etc. Certo, La Grassa sa che esistono degli individui che, come si esprime, «s e n t o n o  l’esigenza di schierarsi dalla parte di “chi sta sotto”»: di costoro egli deplora non questo sentire, ma la propensione a credere nel possibile e anzi certo avvento di una società in cui i rapporti di dominio, sfruttamento, conflitto, etc. saranno espunti in via definitiva. In realtà, obietta La Grassa, questo stato ‘irenico’ non solo non è possibile, come provano secoli di storia; ma, posto che anche lo fosse, sarebbe  d a n n o s o  per gli interessi dell’umanità attuarlo, perché, una volta che fosse riuscito di rendere uguali gli individui, ciò eo ipso significherebbe il primo passo nella stagnazione, nel declino, nella regressione di quella società. Perché ¾ e qui si giunge al cuore della posizione teorico-pratica lagrassiana ¾ la vita è movimento, novità, imprevisto, capacità e volontà di sapersi ridefinire sempre innovativamente rispetto al nuovo sempre emergente…Quindi, La Grassa, non solo ritiene utopistica una società tendenzialmente egualitaria, ma la rifiuta, perché ostacolerebbe la capacità dei suoi membri di gestire il nuovo, darebbe luogo a una società del “flusso circolare”[2]. Egli sa che l’esistente società capitalistica genera disuguaglianze, gerarchie, dominio, sopraffazione: ma lo accetta perché è capace di originare innovazione e innovatività.

L’assenza di capacità di innovazione fa entrare la società in uno stato di sclerosi, e una società sclerotizzata è destinata a essere soggiogata da società economicamente più dinamiche, più potenti… Ecco quindi che nasce l’esigenza di perseguire  l’ a u t o n o m i a  della data società, della collettività nazionale, sul piano internazionale, immettendovi tutto quel che le occorra per essere innovativa, generare innovatività, per essere  p o t e n t e; e, sul piano specifico della politica, in ambito nazionale, posizionandosi contro i gruppi ostili a tale esigenza innovativa, e, in ambito estero, favorendo i piccoli contro i grandi, per favorire il costituirsi di uno scenario con più attori (‘policentrismo’)[3]. Per La Grassa il nesso autonomia-ricchezza-potenza è la stella polare della politica; l’attualizzazione di questo nesso esige capacità di innovare, di creare del nuovo; per realizzare questa capacità di innovazione occorre essere in grado di ‘r i v o l u z i o n a r e’ in ogni momento le condizioni della riproduzione della società, una sorta di ‘rivoluzione permanente’: «la violenza (rivoluzionaria) […] la ‘distruzione creatrice’ ¾ è vita, è nascita (del nuovo)», v’è la «n e c e s s i t à   d e l l a   r i v o l u z i o n e, della violenza come costruzione di novità e riapertura delle prospettive». Quindi la  r i v o l u z i o n a r i e t à  a cui pensa La Grassa è quella di una riforma all’ i n t e r n o  del sistema, che lo renda quanto più possibile aperto e ricettivo nei confronti dell’innovazione, e quindi idoneo a generare ricchezza, potenza, autonomia della data società e della sua nazione.

 

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Provo a tirare le somme di questo percorso. La Grassa, partito dall’orizzonte di assunti del marxismo, avendone ravvisato limiti teorici e falsificazioni storiche decisive, coadiuvato anche da una personale lettura di Lenin, approda a un progetto di capitalismo finalizzato a rendere possibile per quella data società nazionale un ruolo significativo nella competizione internazionale tra stati. Da qui il ricorrente interesse di La Grassa per le tematiche  g e o s t r a t e g i c h e, che stanno acquisendo un centralità prevalente nelle sue più recenti teorizzazioni. Perciò, per tornare al filo del ragionamento, nell’economia del progetto di ‘terza forza’, il capitalismo va senz’altro mantenuto perché, oltre a soddisfare al meglio i bisogni delle persone, accresce la ricchezza e quindi la potenza della nazione, e le critiche a esso vanno smontate come o esagerate o controproducenti

A quest’ultimo riguardo, La Grassa, in più luoghi dei suoi scritti, mette alla berlina l’allarmismo/terrorismo degli ecologisti, dei decrescitivisti, dei ‘rallentatori’ del capitalismo, e così via: si tratterebbe, a suo avviso, nel migliore dei casi, di esagerazioni, nel peggiore, di una operazione di mistificazione perpetrata da ‘lacché intellettuali’ del capitalismo per meglio consentire il conseguimento degli interessi dei ceti dominanti. La conclusione che ne trae è che non bisogna prestare credito a tutte questi allarmismi, che se non sono delle emerite baggianate, poco ci manca.

Tuttavia, fabula de te narratur… Si potrebbe infatti obiettare allo stesso La Grassa che la sua insistenza per la novità, l’innovazione, il modernismo, la potenza, la prevenzione del declino nazionale, etc., è forse anch’essa una esagerazione, e, al limite, una inavvertita opera di mistificazione ideologica.

Intanto v’è un problema di fondo circa il numero-indice che dovrebbe misurare la presunta ‘posizione’ della data società nazionale nella graduatoria della ricchezza: è, questo numero-indice, quello che indica la ricchezza assoluta o quella pro capite, la produttività del capitale o quella del lavoro, o la produttività totale dei fattori…? È chiaro che scegliendo l’uno o l’altro numero-indice, ma anche selezionando un torno di tempo in cui la rilevazione del numero-indice viene effettuata piuttosto che un altro il risultato può essere assai diverso. La storia più recente ci dovrebbe avere ormai immunizzati dall’eccitazione per questo o quel ‘testa a testa’ tra nazioni, per questo o quel ‘miracolo’ economico, dall’esaltazione o dal rammarico per questo o quel ‘sorpasso’ o questo o quel ‘declassamento’: ieri, Giappone e Stati uniti, ‘tigri asiatiche’ e Giappone, oggi, Cina e Stati uniti, ‘Cindia’ e occidente; ieri, Italia e Inghilterra, oggi Italia e Spagna, e, fors’anche, ultimissimo,  Italia e Grecia…[4] .

Vista la costitutiva convenzionalità, relatività e volatilità della misura della ricchezza, parrebbe perciò cosa saggia prestare particolare attenzione, in ciascuna economia nazionale[5], alle ragioni delle  p e r s o n e  che la compongono, e cercare di gestire le scelte economiche e politiche in modo tale che lo ‘scambio’ tra la tutela del presente e la programmazione del futuro sia ‘dolorosa’ per queste persone proprio quel tanto che è indispensabile ¾ e sicuramente, da un punto di vista di un sano pragmatismo, non in vista di obiettivi complessivi approssimativi e remoti (il ‘policentrismo’, la ‘potenza nazionale’, ma anche parimenti l’abbattimento a tappe forzate del debito pubblico, le privatizzazioni ‘senza se e senza ma’, etc.), e che, proprio perché vaghi, intrinsecamente strumentalizzabili e pericolosi  in rapporto alle ragioni delle ‘persone qui e ora’. Keynes riteneva che nel lungo periodo saremo tutti morti ¾ che è un modo per dire che i progetti economici e politici debbono servire intanto in un arco di tempo ‘significativo’ per coloro che vi sono interessati, e che quindi il presente e il reale non vanno sacrificati alla leggera a quel che verrà (forse) in un ‘poi’ lontano nel tempo. Perché, allora, ― se si vuole (come La Grassa vuole) essere pragmatici e ‘positivi’ ―  si dovrebbero favorire quegli obiettivi postulati dalla ‘terza forza’ e  r a f f o r z a r e  quindi le già rilevanti capacità antisociali del capitalismo in vista di obiettivi vaghi e ‘conservatori’ come il ‘policentrismo’, la ‘politica di potenza’, etc.?

Anche perché, stando così le cose, non si riescono a scorgere le ragioni che giustifichino la preferibilità di un assetto policentrico a uno monocentrico ― ragioni in assenza delle quali la mobilitazione, l’agire politico stesso, è senza bussola e, soprattutto,  s e n z a   s e n s o   c o m p i u t o. La Grassa dice che «[s]i deve prendere posizione da una parte; e quando l’oppressione, la prevaricazione, l’ingiustizia sono in aumento esponenziale […], la scelta di chi odia queste prerogative dei dominanti non può che essere una […]»[6]: questo richiamo morale e civile fa onore all’uomo, ma non al ‘loico’ La Grassa: se quel che verrà dopo il sovvolgimento post-monocentrico è sicuramente una riedizione all’incirca di quel che ho già prima di tale sovvolgimento, ragionevolezza ed ‘economicità’ vogliono che io, persona normale, resti là dove mi trovo e non pensi neppure di sviluppare azioni politicamente rivoluzionarie: l’hic manebo optime è, in tale scenario, l’alfa e l’omega  della  r a z i o n a l i t à  dell’agire politico. Se il futuro sarà una replica del passato, e questa identità venga preventivamente data per certa, allora perché mettersi a repentaglio, impegnarsi, militare, etc. per osteggiare il monocentrismo? Non è meglio coltivare ‘grettamente’, dando prova di ‘sano’ ‘buon senso’, il proprio ‘particulare’ ¾ magari praticando il noto adagio che è ‘meglio’ essere gli ultimi dei primi anziché i primi degli ultimi? Ed è qui, a nostro avviso, su questa inconseguenza, su questo non sequitur tra la chiamata pratica a prendere partito e l’assoluta ingiustificabilità teorica a farlo, che naufraga non solo l’idea lagrassiana di un ‘ribellismo’ (lasciamo stare il ‘rivoluzionarismo permanente’ della ‘distruzione creatrice’!) delle ‘masse’, ma, anche quella ¾ uno dei cardini del progetto di ‘terza forza’ ¾ di una alleanza tra i lavoratori dipendenti e i c.d. ‘ceti medi’ (imprenditori, specie piccoli e medi, professionisti, etc.)[7].

E con ciò si giunge all’altra questione, quella di  c h i   e   c o m e  dovrebbe impegnarsi in questa azione rivoluzionaria. La Grassa pare ritenere che, allorché la gente non ne può più, ecco che si ha la reazione, la rivolta, la ‘rivoluzione’ ¾ che La Grassa connota con tratti anche di ‘asprezza’ e ‘brutalità’ («C’è tutto un mondo da spazzare via; […] la gente non ne potrà più e acclamerà i “barbari” che verranno a far “saltare le teste” […]»[8]). Un non sequitur, questo, specie dopo il Che fare? di Lenin: le ‘masse’ sono ‘tradeunioniste’ per natura, vogliono cioè una fetta più grande della torta, ma della torta che c’è, non vogliono il ‘sol dell’avvenire’, la ‘Torta’ che verrà e per la quale occorra mettersi a repentaglio ¾ e, rispetto a   q u e s t o, purché riescano ad avere una briciola in più nell’immediato, sotto certe condizioni tutto sommato abbastanza facilmente realizzabili[9], la gente ‘ne potrà’ illimitatamente.

 

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Concludendo. Diamo sinceramente atto a La Grassa del suo impegno civile contro le bande di poteri economici regressivi che ‘corrono’ il paese ¾ e invero, ormai l’intero pianeta; ma dobbiamo ritenere che il progetto societario da lui proposto costituisca solo una ‘ripulitura’, al più una ‘bonifica’, del modo di produzione capitalistico e dei suoi ben noti complementi socioeconomici. La Grassa (ci) propone, alla fine, un ‘capitalismo migliore’, una rivoluzione  d e n t r o  il capitale; ma, se si svolge l’idea sino in fondo, ci si accorge che quel che potrebbe sortire dalla proposta lagrassiana può essere solo un  m i g l i o r e  capitalismo, ossia assai più produttivo ed efficiente ma anche più ‘rapace’, che peraltro ¾ ciò che è un complemento obbligato dell’assunto lagrassiano ¾ dovrebbe essere gestito da un ‘direttorio’  p o l i t i c o  idoneo a modularlo e assoggettarlo a un disegno di potenza nazionale[10]. Il che implica, per chi conosca il capitalismo  r e a l e, un dippiù delle sue caratteristiche di sfruttamento di persone e territori, di degrado quindi delle condizioni esistenziali e ambientali, di polarizzazione della ricchezza[11], etc.; e per chi conosca l’imperialismo, la riedizione del colonialismo di un tempo e la riaffermazione della sua versione odierna sub specie della c.d. ‘globalizzazione’, con il suo corteggio di negatività di ogni sorta…

È vero, e La Grassa ce lo ricorda, Marx e Lenin guardavano con favore il capitalismo, soprattutto per le sue capacità tendenziali di miglioramento della qualità della vita (più beni d’uso per esonerarci dai bisogni più bruti e renderci così possibile qualcosa d’altro, preferibilmente di ‘superiore’…) e per quelle immediate di infrangere atavici tradizionalismi (capacità di generare idee di ordine innovativo). Ma, accanto a questo apprezzamento, essi  c o n t r a p p o n e v a n o  al capitalismo un progetto di società in cui il portato di negatività e positività di questo modo di produzione fosse  i m b r i g l i a t o   e   r i c o n f i g u r a t o  al servizio della società e dei suoi membri. E per dare un’idea di ciò si avventurarono, in un primo momento, in ricette della cucina dell’avvenire (Marx, Critica del programma di Gotha) e, allorché ne ebbero l’occasione, anche nell’allestimento e ‘testaggio’ di soluzioni  c o n c r e t e  per la attuazione di quelle ricette e di quel progetto (già Lenin, con la battaglia per la soppressione dell’economia mercantile semplice, ‘baco’ del capitalismo; e, quindi, con l’economia pianificata). Idee e soluzioni forse inadeguate e forse falsificate ¾ ma che ci testimoniano che chi vuole ‘rivoluzionare’ deve necessariamente  i m m a g i n a r e  qualcosa di  a l t e r n a t i v o  al ‘fallimento del presente’.



[1] Gianfranco La Grassa, Risposte a domande di Filomeno Viscido della lista socialismo e democrazia, http://www.ripensaremarx.it/domande_di_socialismo_e_democrazia.pdf.

[2] Quel che p.e. Ludwig von Mises chiama ‘stato stazionario’ di una economia.

[3] La preferenza lagrassiana per il policentrismo appare debolmente connessa con il quadro, assunto come non rovesciabile, dei rapporti tra dominanti e dominati e, soprattutto, rispetto alla effettiva possibilità di un modello di società strutturalmente diverso dal capitalismo.

[4] Un riferimento per tutti: Paul Krugman, Un’ossessione pericolosa. Il falso mito dell’economia gobale, tr. it., Etas, Milano, 1997.

[5] ‘Nazionale’, ossia nella misura in cui essa sia ancora sovrana, non assoggettata cioè alla ‘Internazionale’ del capitalismo neoliberistico: Fmi, Bm, Omc, Bri, Ocse, etc.

[6] Cfr. G. La Grassa, Risposte a domande di Filomeno Viscido della lista socialismo e democrazia,  cit.

[7] Una siffatta alleanza, ove potesse venire conseguita, sarebbe presumibilmente una alleanza anch’essa ‘a corto raggio’, finalizzata a obiettivi di più vantaggiosa redistribuzione (nell’eventualità di successo) per gli alleati piuttosto che per un progetto di rafforzamento della competitività della compagine sociale nazionale nell’arena internazionale.

[8] Cfr. ivi.

[9] Esempi da manuale i regimi totalitari, da ‘Stasi’, ieri; la società consumistico-spettacolare, oggi.

[10] Si veda la valutazione che La Grassa dà di Stalin, di cui si professa ‘grande ammiratore’, non «in quanto ‘costruttore del socialismo’ (inesistente)», «bensì quale eccelso uomo di Stato, sotto la cui direzione l’Urss era diventata il contraltare degli Stati uniti» (G. La Grassa, Intervista di ‘Socialismo del xxi secolo’, http://www.ripensaremarx.it/Intervista_La%20Grassa.PDF).

[11] Rammentando che la teoria secondo cui la ricchezza è come la marea ¾ quando sale fa salire tutte le barche, le grandi come le piccole ¾ , è una metafora falsa e falsificata.