Ecologia e religione
di Alain de Benoist - 27/12/2007
Secondo il libertarista Alain Laurent, l’ecologismo deve essere considerato alla stregua di «una religione neoanimista fondata sulla sacralizzazione della natura e sul ritorno al culto arcaico della Terra, madre e dea», e nel contempo però anche «ispiratrice consensuale del comunismo postmoderno che cerca di instaurarsi».[1] Anche Pierre-Gilles de Gennes, Premio Nobel di fisica 1991, ha denunciato tempo addietro la «religione dell’ecologismo». Interrogandosi seriamente sulle «condizioni di produzione di questo pensiero», Marc Fornacciari avanza un’ipotesi: «Si tratta di un vecchio paganesimo germanico di popoli sfortunati [sic] rimasti al di là del limes?»[2] Toni simili adotta Haroun Tazieff, che parla di «sentimenti neopagani di adorazione della natura», vede nell’Appello di Heidelberg un «richiamo al buon senso cartesiano, razionale, decisamente antipagano» e si dichiara «personalmente per Cartesio, contro Heidegger».[3] Sono punti di vista sconcertanti. Non accade di frequente, infatti, che una corrente di pensiero, della quale alcuni rappresentanti svolgono un ruolo sulla scena politica, venga oggi attaccata per il suo “paganesimo” reale o presunto. Al di là del carattere lapidario, se non polemico, di questa etichetta, vale la pena di guardare meglio cosa ci sia dietro. Come tutti sanno, la maggior parte delle religioni tradizionali hanno un carattere “cosmico”: l’universo è da esse inteso come un grande insieme vivente al quale l’uomo è associato per il solo fatto di esistere. Nelle reIigioni orientali come il buddhismo, l’induismo o lo scintoismo, questo legame viene in genere affermato con forza. Lo stesso accade nelle più antiche religioni europee, le quali riconoscono il carattere animato della natura ritengono che esistano dei «luoghi sacri», fanno riferimento a una concezione ciclica del tempo e chiedono all’uomo di mettersi in armonia con il mondo procedendo ai sacrifici e conformandosi ai riti. In questa prospettiva, la Terra non è solamente un luogo di abitazione per l’uomo; ne è anche la compagna, e non può dunque essere utilizzata come un semplice strumento al servizio dei suoi fini. «In tutte le religioni di tipo cosmico», scrive Mircea Eliade, «la vita religiosa consiste proprio nell’esaltazione della solidarietà dell’uomo con la vita e la natura».[4] Dal momento che ogni cosmogonia è anche un ontofania, una manifestazione plenaria dell’essere, e nel contempo una palingenesi, un perpetuo reinizio, «il mondo si presenta in maniera tale che, contemplandolo l’uomo religioso scopre le molteplici modalità del sacro, e di conseguenza dell’Essere».[5] Le cose vanno diversamente nel monoteismo biblico. Il concetto di natura in quanto tale non esiste nella Bibbia, cancellato da quello di creazione. Nella teologia cristiana, il mondo non avviene per emanazione, filiazione o suddivisione di una sostanza comune, bensì come novità radicale, prodotto del libero voIere di un Dio alla cui perfezione esso non può aggiungere alcunché. Dio è certamente presente ovunque ma non ne rappresenta la dimensione invisibile, non gli è immanente: è un essere distinto, che ha creato l’intero universo con un atto gratuito. In quanto essere creato, il mondo non può dunque essere in sé portatore di alcuna sacralità. L’antica prospettiva «cosmica» pertanto, risulta abolita. L’esistenza dell’umanità non si colloca più nel ritmo eterno dei cicli e delle stagioni, ma si ordina prima di tutto ad una concezione lineare del tempo. Essa ha ormai origine in una Rivelazione storica e si inscrive all’interno di una traiettoria orientata verso la salvezza. Non esiste più un tempo sacro, non esistono luoghi sacri. La natura testimonia la creazione ma non è, in sé, divinizzazione del mondo (l’Entgötterung heideggeriano), alla quale corrisponde anche ciò che Max Weber ha definito il suo progressivo «disincanto» (Entzauberung). L’universo, desacralizzato, è svuotato delle sue forze magiche[6] o spirituali, il che annuncia già la sua riduzione allo stato di “cosa” nel pensiero cartesiano. Parallelamente, l’uomo si vede assegnare un posto particolare all’interno della creazione. Egli non rappresenta solamente un livello specifico della realtà sensibile; ne è il centro, il signore sovrano. Essendo stato creato “ad immagine” di Dio, è ontologicamente differente da tutti gli altri esseri viventi che, come lui, possiedono il potere di procreare e di riprodursi ma sono stati creati leminâh, cioè “secondo la loro specie”. La sua anima, la parte più essenziale del suo essere, non deve del resto niente alla natura. Ciò significa che tra il mondo e lui vi è una differenza radicale[7]. «Coronamento della creazione» protagonista centrale dell’intrigo originario, l’uomo trascende la natura e ha dei diritti su di essa, così come Dio trascende l’essere umano e ha dei diritti su di lui. Il mondo, in definitiva, è stato creato soltanto per l’uomo; perciò questi ha il diritto di sottometterlo a sé. Il dualismo originario (dualismo fra essere creato ed essere increato, fra anima e corpo) si trasforma in un radicale antropocentrismo. Questo rapporto di dominio viene istituito già nel primo libro della Genesi, allorché Dio dichiara: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, come nostra somiglianza, e che essi dominino sui pesci del mare, gli uccelli del cielo, le bestie, tutte le belve selvagge e tutte le bestiole che strisciano sulla terra» (Gen. 1, 26). Dopo aver in seguito creato l’uomo e la donna, Dio li benedice e dice: «Siate fecondi, moltiplicatevi, riempite la terra e sottomettetela » (Gen. 1, 28). La stessa formula si ritrova quando, dopo l’uscita dall’arca di Noè, Iahvé conclude la sua alleanza con i sopravvissuti: «Dio benedì Noè e i suoi figli e disse loro: Siate fecondi, moltiplicatevi, riempite la Terra. Siate il timore e lo spavento di tutti gli animali della Terra e di tutti gli uccelli del cielo, come di tutto ciò di cui la Terra brulica e di tutti i pesci del mare: essi sono consegnati nelle vostre mani [...] Siate fecondi, moltiplicatevi, pullulate sulla Terra e dominatela» (Gen. 9, 1-7). Questo imperativo di dominio è ovviamente suscettibile di molteplici interpretazioni. Nella tradizione ebraica, Gen. 1, 28 è stato inteso soprattutto come un incitamento alla procreazione[8]. Nella tradizione cristiana, invece, si è badato soprattutto alla legittimità di una «sottomissione» della Terra. Sant’Agostino, che è uno dei pochi autori cristiani ad aver interpretato la formula «siate fecondi, moltiplicatevi» in un senso spirituale, afferma che Dio vuole «che la vita e la morte degli animali e delle piante restino soggette al nostro uso» (Città di Dio, I, 22). E Tomaso d’Aquino sostiene che l’uomo può legittimamente esercitare sugli animali e sui vegetali un dominio d’uso. Nella Summa contro i Gentili (111, c. 122) egli scrive: «Dalla divina Provvidenza, secondo l’ordine naturale delle cose, gli animali sono assegnati all’uso dell’uomo (in usum hominis ordinantur); cosicché, senza alcun pregiudizio, costui può servirsene, o uccidendoli, o in qualunque altra maniera». Benché venga considerata buona, in quanto risultante dalla creazione, la natura non ha quindi alcun valore in sé. Nel migliore dei casi, non deve essere preservata o protetta perché è bella o portatrice di un’intrinseca sacralità, ma perché è utile all’uomo, perché rappresenta il contesto entro cui questi è chiamato a costruire la sua salvezza, o ancora perché essa è in un certo senso, in quanto opera espressamente voluta da Dio, il riflesso dell’intelletto divino. L’amore della natura in sé e per sé è “idolatria”, cioè paganesimo: porta a pensare che il comportamento dell’uomo possa essere dedotto dal solo spettacolo dell’armonia del cosmo. Al limite, nella stessa misura in cui è bella, la natura si rivela veicolo di tutti i pericoli tipici della seduzione. Per il cristiano, la libera manifestazione degli “istinti naturali” (prima di tutto di quelli che hanno a che vedere con la sessualità) conduce immancabilmente al peccato. Nella tradizione ebraica, pur in parecchi punti assai diversa dalla tradizione cristiana, i saggi mettono in guardia anche dalla seduzione esercitata dalle bellezze della natura. Così fa Rabbi Jacob: «Chi cammina sulla strada ripetendo il suo studio e si interrompe per esclamare: “Guarda che bell’albero, e come è bello questo campo!”, la Scrittura lo considera come se avesse perduto la sua anima».[9] «Il giudaismo», aggiunge Catherine Chalier, accentua il carattere non naturale dI quanto prescrive la Torah. Dice che fu rivelata al deserto, proprio là dove nulla spunta spontaneamente, perché essa non è naturale. L’idea stessa di Rivelazione si contrappone del resto all’affermazione secondo cui la natura è sufficiente all’uomo».[10] Anche i precetti della Torah (mitzvot) hanno lo scopo di ricordare all’uomo che la Legge travalica tutto ciò che è naturale, istintuale, spontaneo: «Anche il gesto più vitale quello che mira a placare la fame viene perciò trattenuto ai limiti della sua spontaneità naturale, poiché essa non costituisce una norma di comportamento».[11] La tesi di Lynn White La tesi della responsabilità del cristianesimo nella devastazione della natura ad opera della modernità occidentale è stata sostenuta soprattutto in un famoso articolo pubblicato nel 1967 da Lynn White Jr. Affermando che «la vittoria sul paganesimo ottenuta dal cristianesimo ha costituito la più grande rivoluzione mentale della nostra storia culturale», egli ha scritto: «Il cristianesimo ha ereditato dal giudaismo non solo la concezione di un tempo lineare, che non si ripete, ma anche un impressionante racconto della creazione del mondo [...] Dio ha concepito tutto ciò esplicitamente a vantaggio dell’uomo e per consentirgli di far regnare la propria legge: non vi è niente, nel mondo fisico risultante dalla creazione, che abbia una ragione di esistenza diversa dal servire gli obiettivi umani [...] Il cristianesimo, soprattutto nella sua forma occidentale, è la religione più antropocentrica che il mondo abbia mai conosciuto [...] Non solo il cristianesimo, assolutamente all’opposto sia dell’antico paganesimo sia delle religioni dell’Asia (eccettuato forse lo zoroastrismo), instaura un dualismo tra l’uomo e la natura, ma insiste inoltre sul fatto che lo sfruttamento della natura da parte dell’uomo, per soddisfare i propri scopi, è il risultato della volontà di Dio»”.[12] «Nell’Antichità», aggiungeva White Jr., «ogni albero, ogni sorgente, ogni rivolo d’acqua, ogni collina aveva il suo genius loci, il suo genio protettore. Quegli spiriti erano accessibili all’uomo, pur differendo notevolmente da lui, come è attestato dall’ambivalenza dei centauri, dei fauni e delle sirene. Prima di tagliare un albero, di perforare una montagna o di dirottare un ruscello, era perciò importante pacificare il genio protettore del luogo e fare in modo che rimanesse tranquillo. Distruggendo l’animismo pagano, il cristianesimo ha permesso di sfruttare la natura senza minimamente preoccuparsi dei sentimenti degli oggetti naturali.»[13] Da quando venne pubblicato, e fino ad oggi, il testo di Linn White Jr. è stato oggetto di numerosi commenti e di un ampio numero di critiche. All’inizio degli anni Settanta, ad esempio, René Dubos sottolineò che l’inquinamento e la devastazione dell’ambiente naturale non erano mai stati prerogativa esclusiva della cultura occidentale, e che le religioni orientali, generalmente ritenute più rispettose degli «equilibri naturali», non hanno mai impedito, nel corso della storia, un’ampia serie di appropriazioni distruttive della natura.[14] Tale argomentazione è stata ripresa di recente da Dominique Bourg, il quale pensa che il dualismo, l’antropocentrismo e il trascendentalismo non portino necessariamente a favorire un rapporto strettamente tecnico con la natura.[15] Al di là di un certo numero di osservazioni esatte ma puntuali, né l’uno né l’altro si interrogano però sulle ragioni per cui è comunque nell’area della civiltà «cristiano-occidentale» che le distruzioni dell’ambiente sono state più intense e sistematiche, né sulle fonti filosofiche e metafisiche del dominio della tecnica. Mircea Eliade, invece, avrebbe probabilmente sottoscritto l’opinione di White Jr, avendo scritto che «La scienza moderna non sarebbe stata possibile senza il giudeo-cristianesimo che ha estromesso il sacro dal cosmo e così facendo lo ha “neutralizzato” e “banalizzato” [...] Con la sua polemica antipagana, il cristianesimo ha desacralizzato il cosmo [...] e reso possibile lo studio obiettivo, scientifico, della natura [...] La “tecnica”, la civiltà occidentale, è il risultato indiretto del cristianesimo, che ha preso il posto occupato dal mito nell’Antichità».[16] Un autore come Michel Serres pare a sua volta fare eco a quest’interpretazione quando osserva: «Il monoteismo ha distrutto gli dèi locali, noi non sentiamo più le dee ridere in mezzo alle sorgenti né vediamo i geni comparire tra le fronde; Dio ha svuotato il mondo; il grande Pan, si dice, è morto».[17] Il teologo tedesco Eugen Drewermann, i cui punti di vista sono oggi appassionatamente discussi, svolge esattamente la stessa tesi in uno dei suoi ultimi libri: secondo lui, «sono le religioni monoteiste associate al razionalismo greco che, attraverso il cristianesimo, sono responsabili della rottura tra l’uomo e la natura».[18] In questo ambito, come in molti altri, è in realtà difficile trattare della tradizione cristiana come se fosse un tutto omogeneo. Lo stesso Lynn White Jr., del resto, ricorda che la centralità dell’uomo rispetto alla natura è stata particolarmente marcata nel cattolicesimo latino, mentre le cristianità celtiche e la Chiesa ortodossa hanno viceversa insistito sulla partecipazione della natura al piano di redenzione. Egli attira perciò l’attenzione sul caso eccezionale di Francesco d’Assisi, che descrive come «il più grande rivoluzionario spirituale della storia occidentale» e di cui propone di fare «il santo patrono degli ecologisti».[19] Altri autori hanno messo in rilievo l’importanza di una pietà ordinata alla natura, talora addirittura confinante con il panteismo, in alcuni grandi eretici cristiani, in mistici come Meister Eckhart e Hildegarde di Bingen, nonché in taluni ordini mendicanti, movimenti come la Fraternità del Libero Spirito, eccetera[20]. Anche la tradizione ermetica, nella quale Dio si fa creatore di se stesso nel momento stesso in cui crea il mondo, va presa in considerazione, in quanto «costituisce una maniera immanente, intramondana ed energetica di rivalutare la natura come una totalità vivente che ha in sé, nella sua creatio continua, la propria ragion d’essere».[21] La moda contemporanea dell’ecologismo sembra peraltro aver fatto andare in pezzi certe barriere confessionali. Cattolici, protestanti ed ebrei non sono gli ultimi, ormai, ad operare a favore della natura e a cercar di trovare nella propria eredità giustificazioni più o meno convincenti per un impegno di questo genere. Un punto di vista oggi corrente consiste nell’insistere sulle responsabilità che l’uomo avrebbe di fronte alla natura proprio a causa del posto particolare che vi occupa.[26] Nell’ebraismo talvolta il racconto dell’Arca di Noè viene interpretato a mo’ di testimonianza di uno scrupolo di conservazione della biodiversità.[27] Spesso, e in particolare in occasione della festa di Tou Bichvat (celebrazione dell’«anno nuovo degli alberi»), viene citato il passaggio del Deuteronomio che incita a «non distruggere» (baltashchit) gli alberi da frutto.[28] Durante un convegno organizzato nell’ottobre del 1992 dal movimento Pax Christi, alcuni partecipanti, convinti che «il cristiano trova nei testi sacri l’ispirazione per un sano comportamento ecologico», sono arrivati al punto di difendere il «biocentrismo» e di auspicare l’avvento di una «cosmoetica».[29] Quanto a papa Giovanni Paolo II, egli interpreta molto classicamente il saccheggio della Terra come un eccesso di potere da parte dell’uomo: «L’uomo si sostituisce a Dio e finisce con il provocare la rivolta della natura, più tiranneggiata che governata da lui».[30] Questa “conversione” delle Chiese all’ecologia non consente tuttavia di liquidare i problemi richiamati da Lynn White Jr. Già nel XIX secolo un filosofo come Feuerbach denunciava, nel dogma cristiano della creazione, la riduzione di «tutto quel che è» al ruolo di semplice materiale concepito allo scopo di soddisfare esclusivamente l’utilità umana. Altri autori, come abbiamo visto, hanno di recente messo in risalto una certa continuità fra il cristianesimo, che desacralizza il mondo e lo svuota di ogni dimensione spirituale intrinseca, il pensiero cartesiano, che considera la natura un meccanismo di cui l’uomo sarebbe giustificato a ritenersi il sovrano dominatore, e l’emergere di una modernità caratterizzata dal sempre più rapido sviluppo della tecnoscienza e dall’avvento di un individuo autonomo slegato dall’universo. Constatando perciò che «l’affermazione del soggetto autonomo costituisce il punto di arrivo della traiettoria storica dello sradicamento dell’uomo dalla natura», Danièle Hervieu-Léger aggiunge: «La traiettoria storica dell’affermazione del soggetto che è alle origini del rapporto di appropriazione valorizzante che l’uomo occidentale intrattiene con la natura si radica, almeno per una parte, a una tradizione religiosa: quella che, dalla profezia ebraica antica alla predicazione calvinista, ha posto al centro del rapporto fra l’uomo e Dio la realizzazione razionale di un ideale etico, in un primo tempo collocato fuori dal mondo e in seguito messo in opera in questo stesso mondo».[31] «Difendendo ostinatamente “il concetto di infinito”», scrive dal suo canto Jacques Grinewald, «l’eredità dei Lumi, il modello del progresso dell’Occidente, della crescita illimitata del capitalismo e del liberalismo economico, non si può non adottare una religione della salvezza, il cristianesimo messianico che ha dato vita al progetto occidentale della tecnoscienza, che oggi pretende di prendere in mano la gestione del pianeta».[32] Il legame fra ecologia e religione pare dunque saldo, ma non bisogna dimenticare che può essere inteso in maniere assai diverse. Mentre taluni ecologisti mettono sotto accusa la responsabilità cristiana nella nascita di un atteggiamento di possesso e di dominio eccessivo della natura, altri auspicano invece di veder sorgere un nuovo sentimento religioso della natura; la difesa dell’ambiente diventa allora «un dovere sacro» che va di pari passo con la riscoperta di una dimensione di trascendenza che si impone all’azione umana. La religione viene in tal modo considerata causa del degradarsi del rapporto fra uomo e natura e nel contempo possibile fonte di una restaurazione di tale rapporto. È il cozzo di due proteste, descritte da Danièle Hervieu-Léger come «una protesta ecologica contro una tradizione religiosa antropocentrica, da una parte; una protesta spirituale e/o religiosa contro la secolarità contronatura del mondo moderno, dall’altra».[33] La contraddizione, beninteso, è solo apparente, perché in realtà non si tratta della stessa religione. Nondimeno essa mostra quanto il fatto religioso o spirituale impregni oggigiorno la problematica ecologica, come testimoniano, del resto, i lavori di moltissimi teorici. Più di vent’anni orsono, E.F. Schumacher già parlava della necessità di una «ricostruzione metafisica», mentre René Dubos affermava che «la nostra salvezza dipende dalla nostra capacità di creare una religione della natura», giacché «un atteggiamento etico nello studio scientifico della natura conduce logicamente a una teologia della Terra».[34] Edgar Morin evoca l’eventualità di «una religione che facesse propria l’incertezza». In Rupert Sheldrake, la protesta contro il “disincanto” del mondo si traduce in desiderio di nuova sacralità: «Che differenza c’è nel considerare la natura vivente piuttosto che inanimata? Innanzitutto, questa visione affonda le ipotesi umanistiche sulle quali si fonda la civiltà moderna. Inoltre favorisce un nuovo approccio al nostro rapporto con il mondo naturale e una nuova visione della natura umana, Infine incoraggia una risacralizzazione della natura».[35] Michel Serres, che insiste sul dato religioso, contrappone opportunamente ad esso il suo contrario etimologico, la negligenza (neg-ligere): «La modernità neglige, assolutamente parlando».[36] Così, pur rallegrandosi del fatto che, finalmente, «Dio accoglie gli dèi», non esita a scrivere: «Commosso dalla tradizione, ho a lungo creduto che il monoteismo avesse ucciso gli dèi locali, e piangevo la perdita delle amadriadi, pagano come tutti i pagani miei padri. La solitudine in cui si trovavano gli alberi, i fiumi, i mari e gli oceani mi lacerava; sognavo di ripopolare lo spazio vuoto, avrei volentieri pregato gli dèi distrutti. Odiavo il monoteismo di quell’olocausto di divinità, mi sembrava la violenza integrale, senza perdono né eccezione».[37] E un po’ oltre: «Sì, eccomi davvero pagano, lo confesso, politeista, contadino figlio di contadino, marinaio figlio di sottufficiale di marina […] Io credo, credo soprattutto, credo essenzialmente che il mondo è Dio, che la natura è Dio, cascata bianca e riso dei mari, che il cielo variabile è Dio stesso…»[38] Questi modi di procedere non hanno ovviamente tutti lo stesso valore o interesse. Molti non sfuggono al confusionismo e al facile sincretismo tipici dell’epoca del «New Age», e rappresentano da questo punto di vista illustrazioni piuttosto tipiche della «seconda religiosità» denunciata a suo tempo da Spengler. Anche il “paganesimo” di cui gli ecologisti si vedono accreditati da taluni avversari non è privo di equivoci. Non si ribadirà mai abbastanza, ad esempio, che l’antico paganesimo indoeuropeo non si è mai limitato ad una semplice «religione della natura» (non può essere pensato al di fuori della natura, ma non si riduce ad un naturalismo) e che, per giunta, il culto della Terra Madre appartiene ad una tradizione che gli è estranea (tradizione tellurica, ctonia, che esso ha in larga misura soppiantato). In questo senso, la risacralizzazione della natura predicata da certi ecologisti radicali rimanda non tanto alla sacralità pagana «classica» quanto piuttosto alla tradizione ermetica che poneva l’accento soprattutto sul legame fra uomo e natura, microcosmo e macrocosmo, «parte divina presente nell’uomo e fondamento divino del cosmo» (Giovanni Filoramo). Non è certamente esagerato vedervi il risorgere, in forme rinnovate, di taluni modi precristiani di vedere il mondo; ma limitarsi ad interpretare l’ecologismo contemporaneo come un semplice «neopaganesimo» significherebbe cadere in un duplice malinteso, sia su ciò che fu il paganesimo europeo, sia su ciò che è l’ecologia contemporanea. Fra l’uno e l’altra c’è parentela, ma non identità. Quel che invece va rimarcato è che, secolarizzandosi, il “disincanto” del mondo si è rivoltato contro la tradizione religiosa che inizialmente lo aveva reso possibile. L’ateismo moderno è pertanto il frutto paradossale della religione; che ha proclamato l’onnipotenza della ragione. E quanto constata Danièle Hervieu-Léger quando scrive: «L’ebraismo e il cristianesimo hanno di certo potentemente spalleggiato il processo di “disincanto” del mondo, che ha aperto la via tanto alla valorizzazione della natura quanto al suo illimitato sfruttamento. Ma l’avanzata della razionalizzazione che corrisponde a questo processo di “disincanto” ha prodotto anche la rimozione della presa della religione sulle coscienze e sulle società».[45] Così gli antichi dèi sono morti di una morte che si sono inflitti da soli, mentre gli dèi nuovi non sono ancora nati. [1] Alain Laurenl, De l’écolatrie au néo-animlsme, in. «Liberalia», agosto 1992, pag. 24. |