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La religione del Tibet

di redazionale - 27/12/2007

Fonte: tibetlibero

 

 

Il Buddhismo.

 

La dottrina buddhista, esiste da circa 25 secoli, durante i quali ha subìto numerose e profonde trasformazioni, rappresentando uno dei massimi eventi culturali nella storia dell’umanità, e ciò non deve essere circoscritto al mero ambito religioso, bensì deve essere esteso al pensiero umano nella sua totalità.

Gli elementi che maggiormente caratterizzano la dottrina buddhista sono due: innanzitutto la mancanza di interventi divini o sovraumani per la salvezza dell’uomo, il quale può compierla soltanto per mezzo del proprio sforzo; in secondo luogo la grande tolleranza nei confronti delle altre religioni, questo perché, per il Buddhismo, gli dèi non sono concepiti come entità reali e concrete, bensì come proiezioni fondamentalmente illusorie di elementi noetici e psichici appartenenti alla coscienza[1].

Non esiste nemmeno la tipica figura, propria delle religioni monoteiste, di un dio sul quale proiettare tutti i sentimenti più puri e sacri, questo perché l’idea di un dio lontano dall’essere umano, non è contemplata dalla dottrina buddhista. Tutto ciò porta ad evitare che il dio sia una figura estremamente vulnerabile ed attaccabile dai nemici, perché colpendolo si colpiscono i sentimenti migliori dei fedeli; tutto questo è testimoniato dal fatto che, in nome del Buddhismo, non sono mai state combattute guerre[2].

Come per la maggior parte delle religioni, il fine del Buddhismo è la liberazione dell’uomo, tale liberazione la si intende quale emancipazione dal dolore (duhkha) e dalle illusioni proprie della vita terrena, la quale si protrae a lungo in una serie continua di nascite e rinascite (samsāra). Il dolore esiste perché c’è un Io che lo raffigura, in una serie di passioni, tendenze, brame, desideri ecc.

Il compito dell’uomo è quello di scardinare questo Io illusorio sperimentando la sua non-essenza (an-attā), staccandosi da ogni attaccamento si giunge ad un’illuminazione interiore (bodhi) che conduce alla liberazione, che nel Buddhismo viene indicata con il termine di “estinzione” (nirvāna)[3].

Abbiamo visto come nel Buddhismo non esista un dio distante dall’uomo, così come la salvezza sia frutto dello sforzo dell’uomo, ma allora, quale importanza viene data alla figura del Buddha? e, soprattutto, chi era Buddha?

Innanzitutto Buddha non è il nome proprio di una persona, bensì un appellativo dato ad un essere umano che abbia conseguito la Liberazione, Buddha significa, infatti, “risvegliato”[4].

Ciononostante, con il termine Buddha, si indica generalmente (almeno nel mondo occidentale), Siddhārta Gautama, figlio di Śuddhodana, principe (raja) del paese degli Śākya (i Potenti), situato nel nord dell’India; è con riferimento al proprio ceppo familiare che egli viene identificato anche come Śākyamuni, ovvero “il Saggio degli Śākya”[5]. Un’esatta collocazione cronologica della nascita di Siddhārta Gautama, non è possibile, tuttavia si ritiene che venne al mondo tra il 563 ed il 570 a.C.[6].

La religione buddhista non conferisce un’importanza eccessiva alla figura storica del Buddha Śākyamuni, il suo merito maggiore è quello di aver trasmesso gli insegnamenti spirituali relativi al Dharma[7], con l’individuo Gautama coesisteva il principio spirituale di Buddha, quindi il suo corpo fisico viene visto come una sorta di “veicolo” del Dharma, tanto è vero che i buddhisti hanno sempre combattuto la tendenza dei non-risvegliati a riporre la propria fede in una persona reale, limitando al massimo l’importanza del Buddha storico. Ciò che conta è quindi il principio spirituale del quale il corpo fisico di Siddharta era un semplice portatore[8].

In quanto incarnazione di un tipo trascendente, il “Buddha storico”, non è un qualcosa di isolato ed irripetibile, ma semplicemente una delle numerose manifestazioni di una serie di Buddha che appaiono in questo mondo terreno di età in età per aiutare gli uomini a trovare la via per la Liberazione. La tradizione riconosce sei predecessori di Gautama (Vipaśyin, Śikhin, Viśvabhu, Krakuccanda, Kanakamuni e Kaśyapa)[9] ed allorché iniziò a diffondersi un certo pessimismo riguardante la vitalità del messaggio di Śākyamuni, andò diffondendosi con sempre maggior vigore il culto del Buddha del futuro, Maitreya[10].

Importante è anche la tradizione secondo cui egli, oltre al normale corpo fisico con cui si rendeva visibile alla gente comune, aveva anche un corpo “etereo” che soltanto gli eletti potevano scorgere con l’occhio della fede. Tale corpo, presentava i 32 “contrassegni del superuomo”, quali le ruote segnate nei piedi, membrane che univano tra loro le dita, un alone o aureola intorno al viso, una protuberanza alla sommità del capo, un piccolo ciuffo di capelli fra le sopracciglia, le orecchie allungate ed altri ancora. Parti di questa tradizione possono essere fatte risalire addirittura a credenze di epoca prebuddhista, concernenti i canoni di bellezza maschile, l’arte di predire il destino basandosi su segni e pronostici vari, ecc[11].

Gli elementi davvero importanti relativi alla vita di Śākyamuni, sono il raggiungimento dell’Illuminazione e la decisione di diffondere la Dottrina, decisione presa sulla base del sentimento della compassione verso tutti gli esseri viventi.

A Benares tenne il sermone detto “la messa in moto della Ruota della Legge (Dharma-cakra-pravartana), mediante il quale rivelò la Dottrina ai primi cinque discepoli, detti “beato gruppo”[12].

Ciò che il Buddha intuì, per mezzo della meditazione, fu innanzitutto la dipendenza di tutte le creature da sentimenti come gioia, brama, dolore ed altri ancora, che si basano sulla ignoranza, intesa come forza cosmica, dalla quale nasce l’attaccamento a sé stessi[13].

L’idea di un Io esistente, è da attribuirsi alla mancanza di conoscenza di come sono esattamente le cose, e questa ignoranza è la causa prima di tutte le afflizioni. La persona entra in contatto con il mondo esterno per mezzo dei sei ricettacoli (vista, udito, odorato, gusto, tatto e mente ricettiva), da questo contatto si genera il desiderio dell’oggetto e l’attaccamento alla vita, quest’ultimo è la base dell’esistenza stessa intesa come divenire karmico, ovvero una serie di nascite, contraddistinte da diversi destini, sulla base delle azioni (karman) commesse nelle vite precedenti[14].

Questo ciclo di esistenze, o esistenza ciclica, ha le proprie radici nelle afflizioni e nelle azioni contaminate, le afflizioni sono dei fattori mentali che quando diventano manifesti, influenzano la mente, spingendo l’essere ad accumulare un’azione negativa.

Le azioni sono solitamente suddivise in: meritorie, non meritorie e invariabili. Le azioni meritorie, spingono a rinascite felici, come quelle degli uomini, dei semidèi e degli dèi. Le azioni non meritorie spingono verso rinascite infelici, come gli animali e gli abitanti degli inferi; infine le azioni invariabili portano ai regni superiori.

Come abbiamo visto, a causa del principio di causa-effetto (karma), ogni azione si ripercuote nella nostra vita, determinando delle conseguenze buone o cattive, ma le ripercussioni possono manifestarsi anche nelle nascite successive[15]. L’esistenza ciclica è un processo al di fuori del controllo dell’uomo, il quale può indirizzarlo con il proprio comportamento e le proprie azioni, però la natura di questo ciclo di esistenze è l’infelicità[16].

Onde potersi liberare da questo ciclo di vite, il samsāra, il Buddha ha indicato le cosiddette “4 Nobili Verità”, che sono:

1-     La vita è sofferenza ed imperniata sul dolore (duhkha);

2-     La sofferenza è generata dall’attaccamento, dall’egoismo, dal desiderio;

3-     Vi è la possibilità di liberarsi da tale attaccamento;

4-     Il cammino verso la liberazione da questo stato di sofferenza è indicato dall’Ottuplice Sentiero verso la retta via[17].

La prima Nobile Verità, indica che l’esistenza terrena è sostanzialmente imperfetta e permeata di dolore e sofferenza per sua stessa natura; nascita e morte implicano sofferenza, così come tutta l’esistenza compresa fra questi due momenti[18].

Esistono anche i momenti di gioia, tuttavia la sofferenza è una costante della vita, dettata dal fatto che laddove l’uomo brama attaccamento alle circostanze, alle persone o alle cose, la vita è contraddistinta dal mutamento e dalla caducità.

Perciò è proprio l’attaccamento a generare il dolore, perché se questo sentimento non esistesse, non ci sarebbe sofferenza di fronte ai mutamenti. Ora, dal momento che non è possibile opporsi allo svolgimento del flusso della vita, è necessario riuscire a raggiungere una posizione di distacco dalle cose terrene, riconoscendole per quello che sono, ovvero senza una reale importanza e consistenza[19].

La seconda Nobile Verità indica che l’uomo si trova a vivere sulla Terra a causa del suo attaccamento, in pratica l’uomo è sulla Terra perché vuole starci. Questo attaccamento alle cose, siano esse materiali, come la ricchezza, o spirituali, come la bramosia del potere, l’avidità, il possesso di ideali politici, idee religiose ed altre ancora, è una forza che non si distrugge con la morte, ma cerca nuove forme per continuare a vivere, ed infatti è la causa del ciclo di nascite contrassegnato dal proprio karma[20].

La terza Nobile Verità, sostiene che è possibile liberarsi dalla sofferenza, quindi sottrarsi al continuo ciclo di vita e morte, che viene visto come una forma di schiavitù.

Se si eliminano le basi delle afflizioni, e non si accumulano nuove azioni, le cause del ciclo karmico di esistenza vengono meno, in questo modo l’uomo si libera da tale schiavitù[21].

Dal momento che la causa dei mali risiede nell’uomo, quest’ultimo può, con il proprio sforzo distruggere tale causa, ma solo se sa come procedere.

A tal fine il Buddha, alla stregua di un medico, ha indicato il modo per eliminare la causa della sofferenza, ma questo sistema è inutile senza il reale sforzo personale[22].

L’idea dell’indispensabilità dello sforzo umano, sottolinea ancora una volta la lontananza dall’idea cristiana di enorme distanza tra Dio e l’uomo, anzi, il fine ultimo del percorso intrapreso dai buddhisti è colmare tale distanza, giungendo ad esprimere il Buddha potenziale che è insito in ogni individuo[23].

La Liberazione consiste in uno stato trascendente, oltre l’esperienza ordinaria, dove tutti i mali cessano, insieme alle loro cause ed ai loro effetti, questo prende il nome di nirvāna[24].

La quarta Nobile Verità, asserisce che per raggiungere la Liberazione alcuni sistemi sono più proficui rispetto ad altri, questi vengono descritti nell’Ottuplice Sentiero verso la retta via (astānga-marga)[25].

Quest’ultimo è articolato in una serie di consigli pratici, relativi al come occorre comportarsi al fine di raggiungere la liberazione, le otto componenti sono: retta visione (samyag-drsti), retta rappresentazione concettuale o retto proposito (samyak-sankalpa), retta parola (samyag-vāc), retta azione (samyak-karmānta), retto metodo di vita (samyag-ājīva), retta applicazione o retto sforzo (samyak-vyāyāma), retta consapevolezza (samyak-smrti) e retta meditazione (samyak-samādi)[26].

Con “retta visione”, s’intende che è necessario vedere le cose nel modo più oggettivo possibile, sforzandosi di rimuovere gli elementi di soggettività, che sono ingannevoli[27]. Retto proposito significa che occorre essere pienamente coscienti dei motivi che spingono ad agire, analizzando le motivazioni e purificando i pensieri, questo porta ad agire per intima convinzione e ritenendo giusto farlo[28]. Queste due regole iniziali attengono al pensiero, perché ciò che motiva l’azione, ovvero i suoi preparativi, hanno per il buddhista notevole importanza. “Retta parola” sottintende un modo di esprimersi che non semini sentimenti malsani quali odio, inimicizia, discordia, rancore, ma vuol dire anche non perdersi nei pettegolezzi, non seminare zizzania. E’ necessario invece esprimersi in modo benevolo, onesto e pacato, avendo cura di non essere fraintesi[29]. La quarta regola, “retta azione”, impone che l’azione non deve nuocere ad alcuno, non bisogna agire con superficialità né con avventatezza, allo stesso modo non bisogna sottomettersi, dal momento che la sottomissione non è di alcuna utilità, anzi, la retta azione è impavida. Il significato di retta azione è integrato anche dai cinque precetti morali indicati dal Buddha, in base ai quali occorre ordinare la propria esistenza, smettendo di uccidere, rubare, fornicare illecitamente, mentire e fare uso di sostanze inebrianti. Questi ammonimenti non devono essere presi alla lettera, perché ciò che conta è lo spirito con il quale le azioni si compiono, ad esempio, anche bevendo si uccidono numerosi microrganismi presenti nell’acqua, senza per questo divenire degli assassini[30]. Le norme morali sono utili per “orientarsi”, tuttavia ognuno è responsabile davanti a se stesso per il proprio comportamento che, infatti, si ripercuoterà nel proprio karma. La cieca obbedienza quindi non ha valore in sé, ma anzi ostacola la responsabilità soggettiva e lo sviluppo individuale[31].

La quinta indicazione, ovvero “retti mezzi di sostentamento”, suggerisce che vi sono dei modi di procurarsi da vivere che sono in contrasto con l’intenzione di abbandonare il ciclo di esistenze.

Tra queste si possono ricordare il commercio con armi, il commercio con sostanze inebrianti e che creano assuefazione, l’uccisione di animali e tutte quelle azioni come frodi o diffamazioni, che arrecano danni a terzi e compiute al fine di arricchirsi. In assoluto l’attività più fruttifera per il bene della propria spiritualità è, ovviamente, quella di monaco (bhiksu)[32]. Con “retto sforzo”, si intende uno sforzo prettamente spirituale, che comprenda emozioni, pensieri, sentimenti, con i quali riempire il proprio spirito, cercando di educare se stessi a disposizioni di animo buone e positive, eliminando invece quelle negative[33]. Questo atteggiamento è reso necessario dal fatto che i piaceri materiali sono contraddistinti dalla caducità, e l’eventuale felicità che da essi scaturisce, è effimera e passeggera.  

A ciò si deve aggiungere che piacere e dolore, non sorgono esclusivamente da fattori esterni, bensì hanno anche delle cause interne, viste come latenze delle azioni (virtuose e non), presenti nella mente e che si risvegliano per opera di cause esterne, generando così sensazioni piacevoli o meno[34]. Data questa importanza allo spirito, è facile intuire quanto sia importante allenarlo a coltivare sentimenti e pensieri positivi, si tratta di una sorta di “pulizia spirituale” da compiersi con costanza ed abnegazione. Queste ultime quattro regole, fanno riferimento al cosiddetto comportamento morale, mentre le ultime due riguardano l’approccio nei confronti della dimensione spirituale.

Difatti “retta consapevolezza” e “retta meditazione”, fanno riferimento all’allenamento della coscienza, con il quale si cerca di rendere consapevoli i processi emotivi e mentali, aprendosi ad una dimensione superiore[35]. L’esercizio spirituale pratico, ovvero la meditazione, è l’essenza stessa del Buddhismo, il quale annovera numerosissime tecniche che hanno però un obiettivo in comune, vale a dire il raggiungimento della condizione di “arhat”, ossia “il degno” del nirvāna[36]. Per raggiungere tale condizione, si deve realizzare uno stato dello spirito che sia pura coscienzialità, in cui ogni tensione ed ogni passione svaniscano completamente, in modo che la realtà appaia così come realmente è, ovvero “vuoto di essenza” (śūnya). Le linee basilari, relative all’esperienza meditativa sono due, la prima è la “samatha-bhāvanā”, e prevede una intensa focalizzazione del pensiero su un supporto meditativo, come ad esempio le fasi del respiro, che permette di giungere ad uno stato di concentrazione in grado di condurre il meditante ad una purificazione della mente (citta-visuddhi) dai cosiddetti “cinque ostacoli”, che sono: brama dei sensi (kāmacchanda), avversione (vyāpāda), torpore (thīnamiddha), irrequietezza della coscienza (uddhacca-kukkuca) ed infine il dubbio scettico (vicikicchā)[37].

A questa condizione detta “di accesso” (upacāra-samādhi), segue una nuova condizione, detta “piena concentrazione” (appanā-samadhi), la quale è composta da vari passaggi sino a giungere alla “sfera di là da percezione e non percezione”, in cui ogni attività percettiva cessa di sostenere la concentrazione. A questo punto si prova una condizione di accesso virtuale al nirvāna, che però sarà effettivamente raggiungibile solo dopo la morte[38]. La seconda via prende il nome di “vipassanā”, che significa “contemplazione intuitiva”, e si fonda sulla consapevolezza di qualunque fenomeno che emerge nella coscienza, in rapporto a ciò che si fa o si sente, mantenendo sempre una coscienza vigile e senza mai distrarsi. Ovviamente questa attenzione si applica non solo ai processi fisici, bensì anche a quelli mentali. Si cerca di giungere ad una serie di “prese di coscienza” o “purificazioni” (visuddhi), iniziando da una purificazione morale, e passando attraverso la purificazione della mente, dell’opinione, la purificazione inerente alla visione noetica di sentiero e non-sentiero, la purificazione dovuta alla visione noetica del progresso nella pratica, la presa di coscienza relativa all’equanimità di fronte ai fenomeni reciprocamente condizionati, giungendo fino alla purificazione della visione noetica, con cui si consegue una doppia visione, quella del percorso che si è compiuto, e quella del frutto delle azioni che hanno portato a questa presa di coscienza, in pratica pur risiedendo nel nirvāna, si è in grado di vedere ciò che è avvenuto prima di giungere alla realizzazione[39].

Le “Quattro Nobili Verità”, l’”Ottuplice Sentiero”, la meditazione, sono le componenti principali della dottrina Buddhista, e quest’ultima è, a sua volta, uno dei cosiddetti “tre gioielli” nei quali il buddhista si “rifugia”, ovvero il Buddha, il Dharma (cioè la Dottrina), ed il Sangha (la comunità spirituale).

Della figura del Buddha si è già trattato, e si è visto come la sua importanza è data prevalentemente dalla enorme forza spirituale del Dharma che scorreva dentro di lui. Il Dharma, è il potere impersonale presente in ogni cosa, l’intero universo è personificazione e rivelazione del Dharma. In genere sono attribuiti al Dharma quattro significati principali:

1- Il significato di “Realtà suprema”, una realtà presente in tutto ciò che è percepibile. Essa si oppone alle cose illusorie del mondo materiale, dalle quali bisogna allontanarsi per volgersi esclusivamente alla Realtà suprema, poiché solo essa può appagare in modo davvero esaustivo. Il Dharma non è esterno alle cose del mondo, bensì immanente in esse[40].

2- Il significato soggettivo di Realtà suprema rivelata dall’insegnamento del Buddha Śākyamuni, ed in questa accezione ha il significato di “dottrina” o “verità”[41].

3- Il significato di “virtù”, allorché intendendo il Dharma nei due sensi precedenti, esso si riflette nella vita nella misura in cui si agisce in accordo con esso[42]. Vivere seguendo il Dharma vuol dire seguire il cammino che porta alla liberazione. Il Dharma è sia individuale sia relativo all’intero universo, perciò è necessario trovare anche la propria via, perché ognuno deve seguire, oltre alla legge universale, anche una propria legge, che permetta di trovare il proprio compito nel “Tutto”; così facendo, impegnandosi per il proprio bene, si fa anche il bene del “Tutto”[43].

4- Il significato scientifico, che deriva dal considerare le cose e gli accadimenti nelle loro relazioni col Dharma inteso nella prima delle quattro accezioni, ovvero dallo studiarli quali sono nella propria realtà ultima[44]. In questo caso, si fa riferimento alla teoria scientifica dell’atomismo[45], secondo la quale dietro le apparenze della natura, esiste un altro mondo, composto di atomi più o meno invisibili, individuabile unicamente tramite formule matematiche. Secondo l’atomismo, gli atomi sono ciò che è veramente reale, e dal loro comportamento si può controllare l’universo materiale e dedurre le proprietà fisiche percepite dai sensi. Allo stesso modo, i buddhisti ritengono che il mondo che l’individuo scorge, è irrimediabilmente deformato dall’ignoranza e dalla brama, ma è in realtà privo di reale consistenza. Ciò che per i fisici sono gli atomi, per i buddhisti sono i dharma, che sono stati spesso indicati come i sei campi dei sensi esterni ed interni, ovvero occhi, orecchie, lingua, naso, organi del tatto e mente, con i corrispettivi oggetti della vista, dell’udito, del gusto, dell’olfatto, del tatto e del pensiero. Il dharma è slegato da ogni cosa o essere, ed è dotato di una propria forza oggettiva[46].

Il terzo “gioiello”, la comunità o ordine buddhista, si suddivide in una chiesa “visibile” ed una “invisibile”. Quella visibile è composta dai monaci e dalle monache regolarmente ordinati, nonché dai laici che danno sostegno ai monaci, prendono rifugio nei tre gioielli e osservano i cinque precetti propri dell’etica buddhista[47]. La chiesa invisibile è la comunità, elitaria, costituita dagli Ārya, ovvero i “nobili” o “santi”, ben distinti dalla massa dei comuni mortali. La dottrina buddhista pone queste due categorie di esseri su due piani di esistenza diversi, quello “mondano” e quello “sovramondano”, non solo, ma solamente gli Ārya sono considerati davvero vivi. Questi ultimi si sono staccati da tutto ciò che è condizionato in modo da procedere lungo la via che porta al nirvāna. Anche il comune mortale può intraprendere il cammino che porta al raggiungimento del nirvāna, tuttavia deve impegnarsi con costanza nella meditazione, al fine di conseguire la “nascita spirituale” che contraddistingue gli Ārya[48].

Il rifugio nei tre gioielli[49] (Tri-ratna), è quindi la via per giungere alla Liberazione, ovvero il nirvāna. Per spiegare il concetto di nirvāna, si utilizza spesso il termine “estinzione”, questo perché in esso si annullano tutti gli attaccamenti alle cose terrene, sia negative che positive, generatrici di karman e, quindi, del ciclo samsarico di esistenze, il quale viene così sciolto, per il venir meno della legge di causa-effetto.

Con il raggiungimento del nirvāna, ci si risveglia alla universale coscienza della “non-sussistenza” di tutte le cose; il nirvāna è uno stato di quiete immota al di là dell’essere e dell’esistere, è una coscienza che non viene turbata nemmeno dalla conoscenza, perché tutte le cose hanno cessato di esistere, compreso il Dharma[50].

Così come i buddhisti danno una importanza quasi marginale alla figura storica di Śākyamuni, essi si preoccupano meno di definire il nirvāna che non di realizzarlo in se stessi[51].

La comunità buddhista, non rimase unita molto a lungo, ben presto si suddivise in numerose sètte, inoltre il buddha Śākyamuni non nominò un proprio successore, cosicché il buddhismo non ha mai conosciuto una figura guida paragonabile al Papa cristiano cattolico o ai califfi islamici[52].

Le varie sètte si mantennero però costantemente in contatto, a prescindere dalle divisioni di carattere dottrinario e dalle distanze geografiche, e questo diede vita, da una parte ad una continua mescolanza delle varie scuole, e dall’altra al fatto che gli appartenenti alle varie scuole continuarono a capirsi e, spesso, a convivere in armonia. Le linee di congiunzione fra le varie scuole interpretative, erano costituite dall’avere come base comune lo stesso Dharma, ammettendo che allo stesso fine si poteva pervenire per mezzo di strade diverse, e dalla dipendenza economica dell’Ordine nei confronti dei laici[53]. L’ordine buddhista escludeva che un laico potesse giungere alla salvezza nella vita presente, ma poteva conseguirla acquisendo un “merito” sufficiente per dargli la forza di abbandonare la vita sociale e di passare alla vita monastica in una esistenza futura. Quindi, nella vita presente, il compito del laico è quello di accumulare la maggiore quantità possibile di “merito”, e la religione buddhista prescrive che, per conseguire tale scopo, è necessario conformarsi a quattro condizioni: osservare i cinque precetti[54], venerare i “Tre Gioielli”[55], essere generosi, specialmente con i monaci, sia per il loro mantenimento che per la costruzione di edifici religiosi[56]e venerare le reliquie del Buddha[57].

A prescindere dalle numerose sètte, che contraddistinguono il Buddhismo, esso viene solitamente suddiviso in due grandi scuole: lo Hīnayāna ed il Mahāyāna.

Abitualmente, si suole suddividere il Buddhismo in quattro periodi storici, il primo periodo va dal 500 A. C. sino al principio dell’èra cristiana, il secondo periodo intercorre tra l’inizio dell’èra cristiana ed il 500 D. C., il terzo periodo giunge fino all’anno 1000 e successivamente non si  è più rinnovato, arrivando ai giorni nostri con quello che rappresenta il quarto periodo della sua storia[58].

Il Buddhismo antico coincide con ciò che venne successivamente chiamato Hīnayāna o Theravāda, ovvero la “Dottrina degli anziani” o “Piccolo Veicolo”[59]. Lo Hīnayāna è indubbiamente la forma più vicina alla Legge predicata dal Buddha Śākyamuni, o almeno alla forma praticata nel periodo a lui immediatamente successivo[60].

Il Buddhismo del primo periodo, vide nell’imperatore Aśoka[61], che governò tra il 274 ed il 236 A. C., il fautore della propria diffusione.

Durante questo periodo, l’insegnamento fu trasmesso solo oralmente, solo verso la fine venne redatto in scritture, per fare in modo che il Dharma durasse, e la lingua adottata fu il Pāli, dando vita al cosiddetto canone-Pāli[62]. Uno degli eventi più importanti, relativamente allo Hīnayāna, è senz’altro la conversione dell’isola di Ceylon, ad opera di Mahinda, figlio di Aśoka, l’importanza di tale evento è data dal fatto che, grazie anche alla propria insularità, l’Isola mantenne nei secoli l’attaccamento alla dottrina Hīnayāna delle origini, agevolata in questo anche dai rapporti tra i Re ed il Sangha, rapporti che diedero al Buddhismo singhalese[63] uno spirito nazionalistico, tanto che sin dall’epoca di Mahinda, fino ai giorni nostri, il Buddhismo Hīnayāna è la religione di stato dell’Isola.

Da un punto di vista geografico, il Buddhismo Hīnayāna restò quasi completamente circoscritto all’India e si incentrò su problemi psicologici, difatti l’analisi psicologica fu il mezzo mediante il quale si cercò di realizzare un controllo su sé stessi. Per quanto attiene al tipo di uomo che si cerca di realizzare, nel buddhismo del primo periodo questo è l’Arhat, cioè un essere che ha conseguito il distacco, ha spento ogni brama e non intende rinascere né in questo né in un altro mondo[64]. In pratica il percorso che si prefigge un seguace della dottrina Hīnayāna, consiste nello stabilire come base comportamentale, una delle forme di etica per monaci o per laici, a seconda del proprio stato, utilizzare il percorso meditativo per rendersi conto della non-essenza di tutte le cose, liberandosi così dalle afflizioni e giungendo quindi alla Liberazione, che rappresenta lo stadio ultimo dell’hinayanista[65].

Intorno all’inizio dell’èra cristiana, si forma nel Buddhismo una nuova corrente, quella Mahāyāna, che fu propiziata dall’indebolirsi dell’impulso originario, che ebbe come effetto l’apparire di un sempre più esiguo numero di Arhat; inoltre si verificarono altri due fattori, cioè l’insorgere di tensioni interne tra le varie dottrine, e la richiesta di parificazione avanzata dalla componente laica dei seguaci del Dharma[66]. La scuola Mahāyāna ( il Grande Veicolo), riuscì ad affermarsi prevalentemente nel nord-ovest e nel sud dell’India, ovvero in quelle regioni maggiormente esposte alle influenze non hindu, dando vita ad una serie di incroci che saranno l’elemento che permetterà a tale scuola di estendersi oltre i confini indiani, infatti per poter essere accettato da altre civiltà, dovette prima riceverne l’impronta[67]. A poco a poco il Grande Veicolo si espanse nell’emisfero settentrionale dell’area di influenza buddhista, cioè in Nepal, Tibet, Cina, Corea, Mongolia e Giappone[68].

L’oggetto principale dello studio mahayanico, fu l’analisi della natura (svabhāva) della vera realtà, considerando il realizzare in sé stessi tale vera realtà delle cose come fattore decisivo per la salvezza[69]. A differenza dell’Hīnayāna, per il quale l’ideale di uomo è l’Arhat, nel Mahāyāna l’ideale è il Bodhisattva, ovvero un uomo che mira alla Liberazione ma non solo per sé, bensì per tutti gli uomini, dunque la differenza di base fra i due veicoli poggia sulla motivazione, infatti laddove l’Arhat si propone di conseguire la Liberazione per sé; il Bodhisattva mira alla Liberazione di tutti gli esseri viventi, al fine di divenire un Buddha onnisciente[70].

In altri termini, la scuola del Grande Veicolo intende estendere i grandi benefici del Dharma oltre la ristretta schiera degli Arhat[71].

Il Bodhisattva è un Buddha in potenza, il quale rimanda la propria liberazione finché tutti gli esseri non siano stati redenti nel Dharma, oppure fintanto che egli non abbia portato a termine la missione affidatagli per quel prestabilito periodo cosmico[72]. La missione consiste nel preparare la necessaria atmosfera spirituale alla predicazione della Dottrina da parte di un particolare Buddha; quindi il Bodhisattva è una sorta di precursore del Buddha umano, il quale sceglie di discendere sul piano corporeo (nirmāna-kāya, o “corpo di apparizione”) sottostando a tutte le limitazioni che questo piano comporta[73]. La figura del Bodhisattva è mossa dal desiderio di pervenire alla perfetta illuminazione di un Buddha, tuttavia è mosso in eguale misura da altre due forze, la compassione e la sapienza; la compassione lo spinge a ritardare l’entrata nel nirvāna, al fine di aiutare le creature sofferenti a causa delle passioni, mentre invece la sua sete di sapienza lo spinge a cercare la visione del “vuoto”, che rappresenta una delle grandi innovazioni del Mahāyāna[74].

La distanza che sussiste fra un Buddha ed un Bodhisattva è pressoché infinita e per colmarla servono numerose esistenze, tuttavia l’ostacolo da superare è uno solo, cioè il credere, da parte del Bodhisattva, in un Io personale nonché il considerare tutto in funzione di “io” e “mio”[75]. Liberarsi dell’io è possibile percorrendo due vie, quella dell’opera e quella della conoscenza. La via dell’opera consiste nel servire, scevri da interessi, gli altri; la via della conoscenza si intraprende realizzando l’effettiva inesistenza dell’io. Azione e conoscenza devono però andare di pari passo, e questa condizione si realizza tramite le “Sei perfezioni” o pāramitā, che debbono essere praticate dal Bodhisattva per eoni, prima di poter assurgere alla condizione di Buddha vero e proprio[76].

Le “Sei perfezioni” sono: perfezione nel dare, moralità, pazienza, forza, contemplazione, sapienza. Perfezione nel dare concerne la disponibilità a dare tutto ciò che si possiede, compreso il proprio corpo, moralità attiene alla rigorosa osservanza dei principi etici, anche a scapito della propria vita, la pazienza sottintende la capacità di sopportare qualsiasi azione ostile del prossimo ed il dolore, eliminando collera, irritazione, scontentezza, non solo, ma fa riferimento anche alla capacità di non avere reazioni emotive al cospetto di alcune dottrine proprie del Mahāyāna, prima fra tutte quella relativa alla non-esistenza di ogni essere[77].

La quarta “perfezione”, la forza, designa l’instancabilità del Bodhisattva nella sua opera di aiuto verso tutti gli esseri, che si protrae per numerose epoche senza che esso si perda d’animo.

La contemplazione è quella che permette di procedere in forme di trance di numero incalcolabile, ed infine la sapienza consiste nell’abilità di comprendere le proprietà di tutti i fenomeni, le loro mutue relazioni, le condizioni della loro nascita e morte fino alla irrealtà in cui consiste la loro essenza ultima[78].

Un altro elemento dottrinario introdotto dal Mahāyāna, è il suo distinguere dieci “terre” (bhūmi) che il Bodhisattva deve attraversare prima di divenire un Buddha. Le prime sei terre corrispondono alle pāramitā, e sono definite dalla intensa pratica delle stesse, così facendo il Bodhisattva viene a trovarsi “faccia a faccia” (abhimukhī) con la Realtà. E’ a questo punto che esso ottiene la facoltà di sottrarsi ai dolori del mondo, possibilità alla quale rinuncia per compassione allo scopo di aiutarne gli abitanti[79]. Tuttavia, vi è una differenza sostanziale tra i diversi Bodhisattva, difatti quelli che si trovano negli ultimi quattro stadi, pur essendo nel mondo, non sono più del mondo, poiché hanno conseguito la “sovranità sul mondo”, e sono divenuti degli esseri sovrannaturali dotati di poteri miracolosi. Prendono il nome di “Bodhisattva celesti”, per distinguerli da quelli ordinari delle prime sei terre, e divengono oggetto di culto, tra essi è necessario ricordare Avalokiteśvara, Mañjuśrī, Maitreya, Samantabhadra e molti altri ancora[80]. Una ulteriore virtù propria dei Bodhisattva di ogni tempo, è la cosiddetta “abilità nei mezzi”, che egli ottiene solo una volta giunto alla “settima terra”, e consiste nella capacità di elevare le capacità spirituali degli individui, per mezzo di azioni e parole che si adattino alle loro capacità di comprensione[81]. L’abilità nei mezzi racchiude tutta la speculazione mahayanica, che altro non è se non una serie di finzioni atte alla salvazione degli esseri, infatti, la verità ultima è che non e