Sull'identità
di Sergio Terzaghi - 02/01/2006
Fonte: Arianna Editrice
Pochi decenni fa le Identità sia personali che collettive non erano nemmeno lontanamente oggetto dei nostri pensieri, rappresentavano la residuale di meditazioni filosofiche. Parafrasando Martin Heidegger, ci si accorge delle cose, ponendole sotto la lente della contemplazione, solo quando esse svaniscono o sono sul punto di andare in rovina.
Stante lo spirito del tempo, è necessaria una riflessione circa l’uomo, il gettato nel mondo. Anzitutto occorre evidenziare come l’Identità personale presupponga una riposta alla domanda “Chi Io sono”. Ad oggi, però, il quesito di specie viene evitato dai più. Così, sulla necessità di un mutuo riconoscimento, Arnold Gehlen afferma che “c’è un essere vivente, che tra le sue caratteristiche più rilevanti ha quella di dover prendere posizione circa se stesso, cosa per la quale è necessaria un’”immagine”, una formula interpretativa. (…) Circa se stesso significa: circa le proprie pulsioni e qualità percepite, ma anche circa i propri simili, gli altri uomini; infatti anche il modo di trattare gli uomini dipende da come li si considera e da come si considera se stessi. Questo però vuol dire che l’uomo (ciascun uomo n.d.r.) deve interpretare la sua natura e perciò assumere un atteggiamento attivo e tale da prendere posizione rispetto a se stesso e rispetto agli altri”[i].
Il problema “identitario” trova, quindi, il nesso di causalità nella carenza di dialogico e di consapevolezza, nell’assenza d’individuazione del Sé. Inoltre, l’identità personale si organizza intorno al simbolo, dal quale prende forma il mito. A detta di molti, però, il simbolo postmoderno non ha alcunché di profondo, non rimanda alle forze primordiali, non incita alla loro riscoperta. Oggigiorno, l’identità del Singolo si costruisce sulla quantità di materia che è possibile far propria, da cui l’immedesimazione attraverso l’immagine sociale.
Partendo da ciò, viene in atto la civiltà del narcisismo, in cui consumo e possesso velano dipendenze sociali ben strutturate, causate dalla necessità di colmare il vuoto della mancanza. L’insufficiente autostima non permette di riscoprire quel contenitore vuoto, presente in ognuno di noi, il quale può essere colmato solo con profondi rapporti affettivi. Ciò avviene anche perché il principio della responsabilità esige una gratuità reciproca. L’adolescenziale tendenza al trattenere per sé non può esprimere tutto ciò. Esiste però l’idea “liberal” secondo cui la felicità, fine ultimo degli “adulti in età adolescenziale”, è raggiungibile solo attraverso l’incessante soddisfazione del principio del piacere. Parafrasando Nietzsche, occorre affermare come solo chi non tende alla felicità, può essere felice. La persona matura e responsabile cerca di comprenderlo. Allo stesso tempo, egli è consapevole che, sebbene si attenga fedelmente alle proprie norme interiori, è uomo manchevole.
“Nietzsche (…) definì l’"Uomo" come l’"animale non ancora definito". Quest’espressione è esatta, e ha un senso duplice. In primo luogo vuol dire: non sussiste ancora un accertamento di ciò che l’Uomo è propriamente; e, in secondo luogo: l’essere umano è per qualche verso "incompiuto", non "costituito una volta per tutte"[ii].
Ed ancora, secondo Gehlen, l’uomo “deve trovare a se stesso degli esoneri (Entlastungen) con strumenti e atti suoi propri, cioè trasformare le condizioni deficitarie della sua esistenza in possibilità di conservarsi in vita”[iii].
Tanto premesso, l’individuo postmoderno manifesta la sua volontà di potenza attraverso il dispiegamento della tecnica, la quale “non si limita così a circondare l’uomo moderno, ma si spinge nel suo sangue”[iv]. Sul punto, Emanuele Severino statuisce che “la volontà di potenza raggiunge nella civiltà della Tecnica la propria espressione più radicale”[v].
E’ anche vero che “fin dalla sua origine l’uomo è stato accompagnato dalla tecnica, ed essa è tanto originariamente sapiens quanto lo è l’uomo. (…) Fra le più antiche testimonianze di manufatti umani rientrano in effetti le armi, che come organi sono mancanti, e sotto questa voce andrebbe contato anche il fuoco, pur essendo servito primariamente per il riscaldamento. Questo sarebbe il principio del sostituto dell’organo, accanto al quale compaiono fin dall’inizio l’esonero dell’organo e il superamento dell’organo. La pietra impugnata per colpire esonera e nel contempo supera nel risultato il pugno. Il veicolo, la cavalcatura, ci esonerano dal camminare e ne superano le capacità. Nella bestia da soma il principio dell’esonero (Entlastung) diviene intuibile in modo tangibile. L’aeroplano a sua volta sostituisce le ali che non ci sono cresciute, e supera ampiamente tutte le prestazione organiche nel campo del volo. Alcuni di questi esempi indicano che esiste una tecnica dell’organico molto antica: l’addomesticamento, e anzitutto l’allevamento di animali è un’autentica tecnica, riuscita solo dopo molti esperimenti”[vi].
La tecnica, quindi, rappresenta la dimensione costitutiva dell’essere umano “addomesticato”, nonché il modello di identificazione dell’uomo nel tempo presente, imponendo i suoi principi anche nella sfera delle relazioni interpersonali.
Ad oggi, l’individuo, imprigionato dalla coazione a ripetere, propria della volontà di dominio, appartiene al mondo delle macchine, de “l’autoproduzione della produzione”. Sul tema, Günther Anders afferma come “per poter consumare, è necessario che ne abbiamo necessità. Ma poiché questa necessità non ci viene spontanea (come la fame), dobbiamo produrla; e ciò per mezzo di un’industria particolare, con mezzi specifici di produzione prodotti macchinalmente a questo scopo, che sono prodotti di terzo grado. Questa industria, che deve rendere uguali la fame delle merci di essere consumate e la nostra fame di merci, si chiama “pubblicità”. Si producono dunque mezzi di propaganda, al fine di produrre il bisogno di prodotti che hanno bisogno di noi; in modo che, liquidando questi prodotti, noi garantiamo la continuazione della produzione di questi prodotti”[vii].
Sul punto, Benjamin Barber ci corre in aiuto sostenendo che “qualsiasi settore dei beni di consumo si consideri, il suo tono prevalente è al tempo stesso sempre più americano e sempre più globale: la cosa è meno contraddittoria di quanto sembri a prima vista, perché la cultura popolare globale è americana. (…) La Coca Cola ha sempre avuto ambizioni globali. Ma oggi un’azienda ambiziosa non può semplicemente pensare di catturare i consumatori nei mercati globali scimmiottando il loro modo di pensare e conformandosi ai loro gusti. E’ necessario essere preparati a creare un mercato globale con un’attenta pianificazione ed un controllo costante. (…) La sete non può essere fabbricata, ma il gusto certamente sì. Chi ha sete può bere acqua, così come le persone possono indossare scarpe normali (non di marca n.d.r.) per passeggiare: perché beviamo bibite che arricchiscono qualcun altro, il consumo deve essere associato a nuovi “bisogni”, a nuovi gusti, a un nuovo status”[viii].
A ragione, quindi, Severino afferma che “il paradiso della tecnica è la situazione in cui tutti i bisogni dell’Uomo possono essere soddisfatti – compreso il bisogno di aver sempre nuovi bisogni…”[ix].
Così questo meccanicismo ha legittimato il pericolo, paventato da Gehlen, secondo cui “non si può conservare la cultura accanto all’apparato (tecnologico n.d.r.) ma solo salvarla inserendola in esso”[x]. Al contempo, è evidente come “distogliere i popoli dal consumare acqua è una questione economica (dopotutto l’acqua è gratis), ma distoglierli dal consumo di tè presuppone una campagna culturale. Il declino del consumo di tè, che per un antropologo potrebbe costituire il sintomo di un’erosione della cultura locale dominante, è visto come una porta socchiusa per la vendita di soft drink”[xi]. Pertanto, esiste una sorta di dipendenza collettiva, avente il carattere proprio dell’ossessione, ovvero della mancanza del rischio e della novità, che persuade nel profondo l’uomo, sino al punto di metterlo a suo agio solo se, in qualunque luogo egli si trovi, possa cibarsi da McDonald’s o bere Coca Cola. Questi marchi conferiscono una “identità globale” soprattutto alle nuove generazioni, le quali si assoggettano all’idea secondo cui “devi bere perché questo ti fa sentire (a scelta): giovane, sexy, importante, intelligente…partecipe del mondo nel senso di “noi siamo il mondo”. Insomma come un vincente, un eroe, un campione, un americano”[xii]. Ma l’effimero ha anch’egli, in sé, il suo limite: “quando l’uomo dell’occidente, nel paradiso della Tecnica, prende coscienza della propria felicità, è inevitabile che si imbatta in quel limite. (…) Nella civiltà e nel paradiso della Tecnica, la potenza indefinitivamente crescente funziona senza avere verità. Questo significa che la felicità raggiunta non può escludere, di essere improvvisamente perduta”[xiii]. Ed allora, si offuscano i paradigmi della cosiddetta “identità globale”: l’uomo si rende conto che la vita non è solo questione di calcolo. Adesso l’uomo è solo ad un bivio, una strada lo spinge a perdersi. L’altra, invece, può permettergli di riscoprire la propria identità profonda, il suo “essere di cultura” nonché la sua essenza fatta di apertura al mondo ma anche di manchevolezza. Sullo specifico punto, Ernst Jünger sosteneva che “una strada sale verso i regni dei grandi sentimenti, verso chi sacrifica la propria vita per una nobile causa, verso il destino di chi cade con le armi in pugno, l’altra scende invece verso le bassure dei campi di schiavitù e dei mattatoi, dove esseri primitivi, hanno stretto con la tecnica un patto omicida”[xiv]. Quest’ultimo il destino di chi, non riuscendo a rinunciare alla volontà di dominio, perora coattivamente la causa dell’Apparato, il quale promette l’illusione di “trasformare la struttura biologica dell’uomo e cancellare non solo la vecchiaia, ma anche la morte”[xv]. Ma, come già narrato, “la tecnica è vecchia quanto l’Uomo (…) E già il rozzo cuneo di pietra focaia nasconde in sé la stessa ambiguità che oggi è propria dell’energia atomica: era un utensile da lavoro ed in pari tempo un’arma micidiale. Nell’Uomo qualsiasi trasformazione degli aspetti originari della natura al servizio dei propri scopi è intrecciata fin dagli inizi alla lotta con i suoi simili…”[xvi]. La desacralizzazione della morte, e la mancanza della sua metabolizzazione, costringe l’uomo postmoderno alla rimozione del problema stesso. L’Apparato favorisce il prometeismo: basti pensare ad alcuni videogiochi. Il meccanismo si è già fissato nell’inconscio quando i bambini, avanti all’immagine della morte, rivolgono ai genitori domande, sempre più frequenti, del seguente tenore “tanto torna vivo, è come nel gioco, vero?”. Oramai, abbandonata a se stessa è la celebre espressione di Martin Heidegger, secondo cui “quando l’uomo nasce è già abbastanza vecchio per morire”. Abbandonata soprattutto perché dietro alla morte, su cui non vi può essere controllo, esiste il fantasma della paura, esprimente la non accettazione del dono di una vita anche avventurosa. Ma la paura, sintomo heideggeriano dell’esistenza inautentica, si fonda spesso sul timore di non essere accettati dall’apparato sociale. Sul punto, Ernst Jünger afferma che “in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni cuore, la paura dell’uomo è sempre la stessa: paura della morte, paura dell’annientamento. (…) Vincere la paura della morte equivale dunque a vincere ogni altro terrore: tutti i terrori hanno significato solo in rapporto a questo problema primario”[xvii]. Ma la paura è anche, senza dubbio, il motore primo della perdita dell’Identità personale. Inoltre, i compensi nevrotici della società del consumo innescano la guerra del tutti contro tutti. In un simile contesto, la paura del simile ha affiancato, se non preso il posto della paura del diverso. L’uomo “civilizzato” è giunto al punto di temere il collega di lavoro, il vicino di casa, persino un familiare, qualora sorga in lui l’idea che costui possa essere d’intralcio al proprio interesse economico, alla propria volontà di dominio. Il legame sociale si è spezzato.
Ma un altro mondo è possibile, poiché “mai come oggi gli uomini che non temono la morte sono infinitamente superiori anche al più forte potere temporale”[xviii]. Ecco, dunque, l’itinerario percorribile in quanto “la vita spinge a quel cambiamento tipico della cultura, alla creazione di forme nuove, adeguate alle forze attuali”[xix]. Per intraprendere questo sentiero, l’uomo, però, deve essere consapevole che “l’appropriarsi del mondo è un’appropriarsi di se stessi, la presa di posizione verso l’esterno è una presa di posizione verso l’interno, e il compito posto all’Uomo in uno con la sua costituzione è sempre un compito oggettivo da padroneggiarsi verso l’esterno, quanto anche un compito verso se stesso. L’Uomo non vive, bensì conduce la sua vita”[xx]. In senso conforme Alain de Benoist afferma che “l’uomo è il “signore delle forme”. Egli mette forma nel mondo come in se stesso: una forma che, prima, fuori di lui e senza di lui, non esisteva. (…) Costruirsi da sé, darsi una forma, può anche significare: passare dallo status di individuo a quello di persona. (…) La persona è un individuo che si è data un’anima”[xxi].
Pertanto, la strada d’una riscoperta identitaria conduce necessariamente anche verso il regno dei grandi sentimenti, seguendo “una via che non dà garanzie di sicurezza né dall’interno, né dall’esterno”[xxii]. Riscoprire l’Identità personale significa “divenire ciò che si è”, significa riscoprire il senso dell’Essere-con-gli altri, della comunicazione e della solidarietà. Questo perché, volenti o nolenti, esiste anche l’altro, ed anche se lo ignorassimo non potremmo comunque cancellarlo. Costui spesso è anche il cosiddetto “altro significativo”, cioè la persona nei cui occhi ci riconosciamo. Una persona, l’amato, l’amico fidato o il familiare, con cui non possiamo trattenere, attraverso il quale ci apriamo per accedere al mondo, perché siamo in comunicazione. La comunicazione, che è anche azione-comune, è etimologicamente cum munus (con dono n.d.r.) e, al contempo, cum moenia (con le mura n.d.r.). Pertanto, l’EsserCi è la fortezza del dono. In Così parlo Zarathustra, Nietzsche afferma che “auro riluce lo sguardo di chi dona. (…) Una virtù che dona è la massima virtù. In verità, io leggo in voi, miei discepoli; voi aspirate come me alla virtù che dona. Che cosa avreste in comune con lupi e felini? Questa è la vostra sete, divenire voi stessi vittime e doni: e perciò avete sete di accumulare tutte le ricchezze nella vostra anima”. Charles Champetier aggiunge che “il dono costituisce verosimilmente l’essere-insieme di società arcaiche. (…) Saggezza del donare, forza del ricevere e obbligo di rendere: è questo l’ingegnoso trittico che rende le società arcaiche capaci di regolare i loro conflitti senza ricorrere alla costrizione statale, permettendo contemporaneamente un rapporto armonioso con il mondo”[xxiii]. Nella virtuosa fortezza del dono, la quale ha sempre il ponte levatoio dispiegato, in segno d’apertura, si organizza la Comunità. All’interno di essa prende forma la risposta al quesito “Chi siamo Noi”, il quale non è la mera addizionale di “Io”, di egoismi individuali. Nella fortezza del dono, la persona non può esimersi dal sacrificare parte del proprio interesse privato-individuale per dare un senso al concetto di Bene Comune. Così facendo, l’uomo si dà uno stile conferente forma all’Identità collettiva. Sul punto, Alain de Benoist afferma che“un’Identità collettiva non può essere analizzata, in modo riduttivo, come se fosse la semplice somma delle caratteristiche individuali all’interno di una determinata collettività. Essa esige che i membri di questa collettività abbiano la chiara consapevolezza che la loro appartenenza ingloba o eccede la loro essenza individuale, vale a dire che la loro identità comune è il risultato di un difetto di composizione”[xxiv].
Abbracciare quest’archetipo potrebbe significare un’originale produzione di uno stile di vita. Di conseguenza, non va dimenticato come “l'inconscio collettivo è una parte della psiche che si può distinguere in negativo dall'inconscio personale per il fatto che non deve, come questo, la sua esistenza all'esperienza personale e non è perciò un'acquisizione personale. [...]'inconscio personale consiste soprattutto in "complessi"; il contenuto dell'inconscio collettivo, invece, è formato essenzialmente da "archetipi". Il concetto di archetipo, che è un indispensabile correlato dell'idea di inconscio collettivo, indica l'esistenza nella psiche di forme determinate che sembrano essere presenti sempre e dovunque. La ricerca mitologica la chiama "motivi"; nella psicologia dei primitivi esse corrispondono al concetto di raprésentations colletives di Lévy-Bruhl; nel campo della religione comparata sono state definite sa Hubert e Mauss “categorie dell’immaginazione”[xxv]. Pertanto, la fortezza del dono è il luogo ove l’individuo, fattosi persona, può sottrarsi all’annientamento, amando il suo destino. Lì l’uomo troverà un porto sicuro e “altri significativi” ad accoglierlo, soprattutto quando, per dirla con Jünger, si profileranno all’orizzonte iceberg e isole dalle bocche di fuoco.
[i] A. Gehlen, L’Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (1940), Feltrinelli, Milano, 1983, p. 35
[ii] A. Gehlen, op. ult. cit., 36.
[iii] A. Gehlen, , op. ult. cit., 63.
[iv] A. Gehlen, , Prospettive Antropologiche, Il Mulino, Bologna, 1987, p. 138.
[v] E. Severino, Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano, 1992, p. 51.
[vi] A. Gehlen, , op. ult. cit., p. 128.
[vii] G. Anders, L’uomo è antiquato. La terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 10.
[viii] B. Barber, Guerra santa contro McMondo, Marco Tropea, Milano, 2002, p. 45.
[ix] E. Severino, Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano, 1992, p. 53.
[x] A. Gehlen, , L’Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 202.
[xi] B. Barber, op.cit., p. 47.
[xii] B. Barber, op.cit., p. 46.
[xiii] E. Severino, Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano, 1992, p. 54.
[xiv] E. Jünger , Il trattato del ribelle, Adelphi, Milano, 1990, p. 50.
[xv] E. Severino, Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano, 1992, p. 53.
[xvi] A. Gehlen, L’Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 10.
[xvii] E. Jünger , Il trattato del ribelle, Adelphi, Milano, 1990, p. 76.
[xviii] E. Jünger in Ernst Jünger e Martin Heidegger, Oltre la Linea, Adelphi, Milano 1989, p. 97.
[xix] G. Simmel, Il conflitto della cultura moderna, Edizioni di Ar, Padova, 2001, p. 77.
[xx] A. Gehlen, , L’Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., p. 78.
[xxi] A. de Benoist, Le idee a posto, Coop. Edit. Akropolis, Napoli, 1983, p. 49-50.
[xxii] E. Jünger in Ernst Jünger e Martin Heidegger, Oltre la Linea, Adelphi, Milano 1989, p. 94.
[xxiii] C. Champetier, Homo consumans, Arianna Editrice, Bologna, p. 23, 80.
[xxiv] A. de Benoist, Le sfide della postmodernità, Arianna Editrice, Bologna, 2003, p. 63.
[xxv] C. G. Jung, Conferenza su Il concetto di inconscio collettivo (1936), trad. it. in Opere , vol. IX, tomo I, Bollati Boringhieri, Torino, 1999, p. 23.