Il disastro di una nazione. Saccheggio dell'Italia e globalizzazione
di Stefano Serafini - 02/01/2006
Fonte: diorama.it
Antonio Venier, Il disastro di una nazione. Saccheggio dell'Italia e globalizzazione, presentazione di Bettino Craxi, Padova, Edizioni di Ar ("Le due bestie 1") 1999, 157 pp.
Ammesso che li conoscessero, quale pathos storico sarebbero mai in grado d'ispirare ai non addentrati gli avvenimenti economici italiani dell'ultimo decennio? Apocalittico, addirittura, se limpidamente spiegati come sono in questo breve saggio delineano il « disastro di una nazione », consumato come segreta guerra sotto i nostri occhi inconsapevoli.
Di questi giorni, in cui la cronaca è inflazionata da critiche genericamente filantropiche alla globalizzazione, un simile libro può aver l'effetto d'una doccia fredda per tante anime belle, serenamente dimentiche dei propri ventri pasciuti.
E' facile infatti per gli stessi italiani amanti della protesta perdere di vista che il loro Paese si annovera ancora fra le dieci nazioni dal maggior prodotto, appetto degli oltre duecento stati esistenti sul pianeta. Ebbene, Venier ce lo rammenta per mostrarci che da tale posizione stiamo venendo rovinosamente scalzati ad opera di oculate strategie, le quali ci pongono fra le prime vittime eccellenti del nuovo assetto mondiale. Magra consolazione sapere di essere in compagnia di altri grandi Paesi come la Russia (1), soprattutto quando gli effetti sulla società cominciano già a farsi tangibili.
Non proverete insomma noia alcuna scorrendo i dati profusi da questo dossier economico-politico, antiliberista e antiglobalista a modo suo, cioè coi piedi sensatamente piantati a terra. Lo divorerete come un libro giallo, e sovvenendovi delle mezze verità lasciate cadere da giornali e tv, vi desterà semmai sorpresa, rabbia, e un inquietante sentimento di luce davanti al riordino di tante tessere musive sinora scomposte.
In maniera spesso convincente, con coraggio, l'opera rovescia i fondamentali luoghi comuni della nostra storia recente: il fenomeno "Mani pulite", viene riletto come l'eliminazione pianificata della classe dirigente che sarebbe stata capace di opporsi alla spoliazione del Paese; il trattato di Maastricht è visto come subordinazione agli interessi tedeschi; il federalismo, accusato di eversione; la riduzione del debito pubblico, in realtà un gioco di prestigio nelle tasche degli italiani; le privatizzazioni, indicate senza mezzi termini quale svendita disastrosa dei pezzi ancora sani e necessari di un grande Paese, a vantaggio di pochi affaristi.
Ricorre spesso il nome di Romano Prodi, e in un libro dedicato alla memoria di Enrico Mattei non è certamente per lodare questo eterno promosso dagli errori che l'Italia sta pagando: smembramento dell'IRI, totale asservimento alle decisioni della Bundesbank, rilascio delle migliori aziende italiane al capitale straniero, drammatici tagli alla spesa pubblica, svendita delle imprese di pubblica utilità, dal Nuovo Pignone al Credito Italiano, distruzione della siderurgia italiana (ILVA), sottomissione ai parametri europei nonostante ci penalizzino, demolizione del sistema industriale, agroalimentare e dei servizi pubblici.
Chiariamo subito che le accuse non hanno nulla da spartire con la ridda partitica, tant'èche gli unici politici trattati favorevolmente dall'Autore sono quelli defunti: fattuali, vengono sempre supportate da analisi schiette, dati alla mano (2).
Molta attenzione viene ad esempio riservata ai conti delle privatizzazioni. Il documento ufficiale del Ministero del Tesoro che avrebbe dovuto spiegare con trasparenza agli italiani scopo, modalità e frutto di tale operazione (Relazione sulle privatizzazioni, 1998) non dice quanto sia stato effettivamente incassato, né fornisce una stima - come logica vorrebbe - su fatturato e profitti delle aziende cedute. Considerando così che il processo di vendita, iniziato nel 1994 e accelerato improvvisamente dal 1996 (con la cessione di: IRI, TELECOM, ENI, CREDIT, COMIT, e i maggiori impianti siderurgici ed agroalimentari) ha reso sulla carta soltanto 150.000 miliardi in sei anni, del tutto inutili a ridurre il debito pubblico; e che ad esso si sono accompagnati aumento della pressione fiscale e tagli alla spesa, l'Autore accusa di ladrocinio l'intera operazione la quale, fra l'altro, sostanzialmente si è svolta col denaro dei cittadini che erano già proprietari della ricchezza comune. Ora gli stessi beni stanno saldamente nelle mani di gruppi stranieri e dei pochi, soliti « principi » locali i quali con quote del solo 2 o 3% controllano colossali strutture (e profitti) già patrimonio nazionale.
Ma, si obietterà, le privatizzazioni non erano forse inevitabili a fronte del debito pubblico italiano, questo mostro con tanta premura denunciato dai giornali, dalla Germania e dall'Unione Europea?
Venier spiega che il debito pubblico non solo è da sempre uno degli strumenti normali di finanziamento dello Stato, ma chiarisce (fonti EUROSTAT e OECD ) che nel 1996 il vero debito - cioè quello verso l'estero - era minimo rispetto a quanto contratto dallo Stato con i propri cittadini. Gran parte del debito nazionale, insomma, coincideva col risparmio degli italiani, sotto forma di obbligazioni e titoli di Stato. Il debito pubblico, dunque, non equivaleva come ripetono ad nauseam da anni certi giornali, all'ipoteca delle generazioni future; tale sarebbe potuto essere solo il credito esigibile dall'estero, che però fino a qualche anno fa era ben contenuto grazie all'andamento dell'economia del Paese. Chi piuttosto soffriva di questo problema (debito pubblico interno 460,3 miliardi di ECU, debito pubblico estero 275,5 miliardi di ECU, dove l'Italia viaggiava con misure di 928,3 mil. per l'interno e soltanto 41,6 mil. verso l'estero), era la Germania. Il trattato di Maastricht, grazie alla liberalizzazione del trasferimento dei capitali nell'area comune e all'impegno a contenere il debito nella sua interezza (gross financial liabilities), ha praticamente invertito la clessidra del nostro debito nazionale dando inizio a un impressionante travaso di capitali verso altri Paesi, e in particolare porgendo su un piatto d'argento alla Germania quella liquidità del risparmio italiano di cui aveva bisogno. Oltre che indebitata fuori confine, l'Italia è così risultata gravemente impoverita dal mancato investimento in titoli di Stato, con conseguente necessità di riduzione della spesa e aumento della pressione fiscale, azioni entrambe dannose allo sviluppo economico. Sulla base della libertà d'investimento nella U.M.E., i vincoli di Maastricht, e la campagna d'informazione terroristica sul debito pubblico si è insomma avviato un meccanismo di sottosviluppo per il nostro Paese, dagli effetti a medio termine gravissimi.
Un altro importante capitolo è dedicato alla silenziosa e dolorosissima perdita di innumerevoli aziende piccole e medie, spina dorsale del nostro sistema economico, vendute all'estero (3) o cedute in apparenti joint venture di facciata (4). Fra queste, e sopra tutte, il polo strategico dell'alta tecnologia, fondamentale al mantenimento di un ruolo fra i Paesi che contano, e che nessun altro membro del G8 si sognerebbe minimamente di alienare.
Tutto il processo ha già cominciato a trasformare l'Italia in ricettacolo dell\rquote indotto industriale europeo (ad es. nella produzione di accessori per le grandi case automobilistiche tedesche), e per un'unica concomitante ragione: il basso costo dei suoi bravi operai. Perduto il primato industriale tecnologico, saremo ridotti a riserva di lavoro qualitativamente appetibile a prezzi concorrenziali rispetto all'Europa. Si ponga mente al fatto, mai abbastanza risaputo, che un operaio italiano costa esattamente la metà di un suo collega tedesco. La riserva, naturalmente, durerà fino al giorno non remoto in cui i Paesi in via di sviluppo, la cui manodopera è ancora meno pretenziosa, non avranno raggiunto analoghi standard operativi.
Se dunque tale situazione genera per il momento un flusso di entrate liquide notevole, mitigando gli effetti del declino, sul lungo periodo dipendenza e vulnerabilità del sistema porteranno a sottooccupazione, ed impotenza a reagire in caso di recessione.
L'attacco allo stato sociale, ultimo passo del grande esperimento neoliberista in atto sulla nostra pelle, viene anch'esso inquadrato nella logica di un progetto d\rquote Italia flessibile, dai bassi salari e destinata al mercato delle esportazioni povere. La demolizione di quei servizi pubblici che sono una delle ragion d'essere dello Stato, è il risultato inevitabile della stessa logica perversa ed eteronoma.
Quali, infine, le cause sostanziali del disastro? Secondo l'Autore, che pur non disdegna l'ipotesi del complotto (segnalando però il rischio del « complottismo », che scredita qualsiasi critica valida confondendola con le fantasie) sono le stesse che lamentava il Guicciardini sei secoli fa nel carattere degli italiani: prevalenza degli interessi particolari su quelli generali, tentazione di scambiare la ricchezza dei singoli per segno di potenza, grande zelo nel sottomettersi ai padroni di turno, e perciò cronica incapacità a realizzare un forte Stato nazionale. Già in passato regolarmente tali pecche congenite promossero danni al bene pubblico: dalla Banca Romana di sabauda memoria all'acciaio Falck, la storia insegna. Ma il nuovo contesto della globalizzazione, ove gli appetiti e gli strumenti per soddisfarli si fanno giganteschi, ha reso micidiale l'ultima opera di distruzione.
E allora quali le soluzioni? Al di là degli avvertimenti tecnici la passione prorompente nel richiamo conclusivo del libro (« Un discorso per l'Italia »), la medesima che imbrigliata nella freddezza dell'analisi ha dato anima ad ogni capitolo come un fuoco sotterraneo, sembra essere la vera risposta.
Sì, innanzitutto Venier propone una disamina imparziale della situazione, cui ben difficilmente aderirebbero i coautori del disastro e del consenso ad esso: politici, giornalisti, giudici, faccendieri; indi l'interruzione delle ultime privatizzazioni, tornando a salvaguardare i servizi di pubblico interesse; la ripresa della spesa pubblica investendo in sanità, difesa e progetti industriali a lungo termine, finanziandola col deficit di bilancio ed il debito pubblico interno (o debito virtuoso); infine, fondamentale, il rilancio dell'alta e media tecnologia. Tutto questo tralasciando per contesti supernazionali la critica all'economia finanziaria globale che ha sinora avallato e persino promosso troppe acrobazie ai danni dei popoli e a vantaggio di pochi individui senza scrupoli.
Ma qualsiasi soluzione, dice l'Autore, sottintende la riscoperta della volontà di salvare lo Stato nazionale italiano. Non è facile mettere mano a quest'opera, conclude, « Ma dobbiamo volerlo fare: perché l'Italia viva ».
Questa conclusione idealmente slanciata verso l'azione, coerente allo spirito del libro, amaro e sovente sarcastico, sì, ma altrettanto intenzionato a trovare una via d'uscita, lo allontana da certa pubblicistica in voga negli ultimi anni. Dico quei testi che rileggendo in maniera fosca, e bisogna pur dire realistica, la nostra storia nazionale conferiscono ferite talvolta meritate, ma senza lenimento e dunque inutili, all'anima del Paese (5).
Avremmo visto bene, anche se apparentemente si sarebbe usciti dall'argomento che ha il suo fuoco analitico e passionale sull'Italia, un allargamento di prospettiva al piano internazionale. Colpiscono ad esempio i paralleli fra certe operazioni e gli avvenimenti che portarono lo Stato Vaticano sull'orlo del baratro finanziario due decenni fa. Ma più interessante ancora sarebbe stata un'analisi di quegli accenni eversivi, secondo il medesimo copione di "Mani pulite", ripetutisi a stretto giro di anni in Germania (il caso Khöl), Russia (il caso Eltsin) e Francia (il caso Chirac). I primi due grandi uomini politici hanno pagato gli attacchi giudiziari a regia verosimilmente estera con l'abbandono della carica. Ma la reazione degli Stati, in tutti e tre i casi, è stata degna delle grandi nazioni cui hanno la responsabilità di sovrintendere. Espansione militare ed economica sull'Adriatico da parte della Germania già preponderante nella Unione Europea (Croazia) e nuova politica dell'immigrazione tecnologicamente qualificata; emersione e ripresa del controllo del Paese da parte della struttura di sicurezza che ha sempre rappresentato il vero potere in Russia (il corso di Putin e dei nuovi governatori). In tutti e tre i casi, comunque, nessuna Rivoluzione ha avuto seguito alla caduta o alla difensiva dei presidenti. Tale resistenza non è andata esente da una terribile e drammatica escalation immediatamente scatenata "dall'altra parte", e forse un giorno sui libri di storia si leggerà dello scampato pericolo d'una guerra mondiale cominciata con l'infiltrazione propagandistica e giudiziaria e fermatasi con le bombe su Belgrado e la punizione politica del solo alleato atlantico, l'Austria, che osò anteporre alla prepotenza del nuovo impero le proprie ragioni nazionali.
Venier accenna più volte agli interessi di potenti lobby internazionali, e al sistema finanziario mondiale selvaggiamente teso a imporre ovunque il deserto neoliberista, come alle vere cause remote del disastro italiano. Simile tesi non assurge però a una formula chiara, e le concrete soluzioni avanzate, per quanto sensate, peccano del limite operativo nazionale, quando la partita, per stessa ammissione dell'Autore, si giuoca ormai su ben altri scacchieri. Soprattutto sembrano quasi impossibili ad applicarsi a fronte di un nemico tanto potente e generosamente dotato di infiltrati.
Anche dovendo tuttavia limitarsi per ragioni pratiche ai nostri confini , brilla per la sua assenza una critica al sistema parlamentare italiano, ormai troppo permeabile non solo ad interessi di parte, ma agli stessi metodi inquisitori e propagandistici del nuovo totalitarismo; non si parla del ruolo funesto delle società di pubbliche relazioni né della gestione della cosiddetta "informazione" mediatica; non v'è una riga a favore della responsabilizzazione della magistratura; e infine, se non implicitamente, non si discute per una rifondazione critica del concetto stesso di democrazia nell'era dell'esautoramento della politica, e del dominio scientifico delle coscienze mediante una propaganda acuta e onnipotente, secondo la peggiore pratica totalitaria che mai abbia visto la luce dall'inizio della storia.
In fondo viene da domandarsi se il libro, ove le sue analisi siano corrette, non descriva altro se non i passaggi locali d'un dramma storico di ben più vasta portata: la morte dello Stato, l'avvento del nuovo ordine supernazionale fondato su quell'impalpabile, onnipervadente e spietato sacramento della violenza che sub specie elettronica e globale è divenuta la convenzione finanziaria. La nuova volontà di potenza, indifferente persino all'aretè definitivamente domina i popoli ed elimina dalla scena le loro vecchie strutture socio-politiche a favore di un'inaudita, sinora, ed anonima epifania del Potere. Ma se così fosse, varrebbe ancora la pena scommettere sulla politica? L'Autore sembrerebbe rispondere di sì, senza però indicarci con chiarezza le vie praticabili.
Il saggio tuttavia porta inevitabilmente a riflettere su questi argomenti cruciali, e ciò è assai importante. Un solo uomo, con un solo libretto, di questi tempi, poteva fare di più, e altrettanto bene? Crediamo fermamente di no. Diceva un grande amico dell'Italia, Henry Furst: « Chi tace, e tacendo perpetua e acuisce il suo male, è il vero nemico dell'umanità » (6) . Dobbiamo perciò essere grati ad Antonio Venier per la sua lucida denuncia. Essa merita di essere meditata, diffusa e discussa, come il primo passo, ch'è sempre il più difficile e il più importante, di un cammino forse disperato ma necessario.
Stefano Serafini
Note
(1) Le disastrose "cure da cavallo" neoliberiste nella ex URSS al seguito della perestrojka, le svendite delle più importanti società statali (si pensi solo a Gazprom), i criminali attacchi al rublo operati da Soros hanno ipotecato in pochi anni il futuro di una popolazione superiore a quella dell'intera Europa. Cfr. Giulietto Chiesa, Roulette russa, Milano, Guerini e Associati, 1999. Per farsi un'idea della propaganda sbugiardata dai fatti: Abel G. Aganbegjan, La perestrojka nella economia, Milano, Rizzoli, 1988.
(2) Notevole per utilità l'appendice che correda il libro di statistiche sul cursus politico nazionale, sul debito pubblico europeo comparato, sulla spesa sociale, e che fornisce la lista dei beni privatizzati fra il 1992 ed il 1999.
(3) Per es. Birra Moretti, Rinaldo-Piaggio, Moto Guzzi, le aereonautiche ex EFIM.
(4) Esemplari i casi di Alenia, Alitalia, Agusta.
(5) Cfr. ad es. Lorenzo Del Boca, Maledetti Savoia, Casale Monferrato, Piemme, 1998 e la sua amarissima revisione del Risorgimento. Il mito fondante del Paese viene castigato duramente, smascherandone menzogne, atrocità e colossali ipocrisie, ma nessuna soluzione alternativa vi ene offerta al pur innegabile, autentico, e tradito fin che si vuole, ideale d'Italia che percorre la storia.
(6) Henry Furst, Simun, Milano, Longanesi, 1965.