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Frammenti di mitologia Isiaca

di Alessandro Puma - 02/01/2008

 

 

 

“Perché io sono la prima e l’ultima.

Io sono l’onorata e l’odiata.

Io sono la prostituta e la santa.”

(Frammento di Nag Hammadi 6,2)

 

 

Premesso che la conoscenza di una donna o di un uomo in senso biblico comporta soprattutto una conoscenza di tipo carnale e che, all’interno della stessa Bibbia, per esempio, il Cantico dei Cantici non è altro che una struggente lirica erotica orientale nella quale un giovane e la sua amata giurano fedeltà l’uno all’altra, l’uomo ha sempre cercato la sua donna ideale, la donna perfetta che, proprio in quanto tale, è sempre quella che non c’è o che non si potrà mai avere.

La donna ideale, perché idealizzata, l’immagine stessa dell’Idea come donna, la cosiddetta ‘madonna dei filosofi’, è ovviamente la ‘Sophia’, la Sapienza personificata in Pallade Atena che, a simboleggiare l’acutezza del pensiero filosofico, nasce già dalla testa spaccata di Zeus, adulta e completa di corazza, scudo e lancia.

La Sophia o ‘ennoia’ o ‘epinoia’, cioè il principio femminile più elevato in quanto pensiero – o volto femminile – di Dio, si trova sempre in stretto contatto (e a volte anche in contrasto) con il principio maschile più elevato, cioè il ‘Nous’ o Intelletto, dal quale proviene o di cui è ricettacolo ( il cosiddetto santo Graal, cioè la coppa contenente il sangue di Cristo, a questo proposito, non sarebbe altro che una delle rappresentazioni della stessa Sophia o della Shekhinà, cioè di Dio in quanto femmina, oltre che metafora dello stesso atto sessuale se consideriamo la lancia ‘fallica’ del Longino e la coppa-utero atta a contenere ).

Comunque lo si voglia situare, siamo qui in presenza di uno schema neoplatonico secondo il quale l’Intelletto, in quanto aspetto di Dio non mancante di nulla e assolutamente autosufficiente in se stesso, nel momento in cui riflette su se stesso giungendo così all’autocoscienza, inavvertitamente crea per il tramite di questa sua nuova apprensione che è caratterizzata, quasi sempre, in senso femminile. Il ‘Nous’ si ricollega, così, alla Sophia e all’Aletheia o nuda veritas (1) che – anche come Anima del mondo – è connessa alla creazione, potendo così affermare, in uno col tantrismo, che “la donna è il vero creatore dell’Universo”, senza peraltro che ciò possa essere interpretato in un senso eminentemente positivo.

Una fondamentale caratteristica dell’induismo tantrico, infatti, è lo Shaktismo, cioè la progressiva femminilizzazione di un avatara (incarnazione) di un dio creatore prevalentemente statico e cosmico come Vishnu. Sostantivo femminile che deriva dalla radice SÁK, potere, esso: “indica la manifestazione femminile del dio supremo, la sua efficienza personificata. Ad essa incombe la cura della creazione, garantendo in tal modo l’essenziale inattività del dio.” (2).

Ma la testimonianza più avvertita di quell’aspetto vieppiù negativo di una creazione degradata in senso femminile, la si può riscontrare nelle varie e multiformi eresie gnostiche dei primi secoli del Cristianesimo, nello specifico all’interno della gnosi Valentiniana.

Ci informa Jonas che: “Nei sistemi tipici della gnosi siro-egiziana è (il Pensiero femminile) che personifica l’aspetto defettibile di Dio, in genere sotto il nome di ‘Sophia’, ossia ‘Sapienza’, nome paradossale in considerazione della storia di follia di cui essa è fatta protagonista. (…) In che modo questa figura, o almeno il suo nome (hokmah in senso giudaico), sia stato combinato nel pensiero gnostico con la dea-luna, la dea-madre e la dea dell’amore della religione del Vicino Oriente, per formare quella figura ambigua che abbraccia l’intera scala dal più alto al più basso gradino, dal più spirituale al più sensuale (come è espresso dalla combinazione ‘Sophia-Prunikos’, ‘Sapienza-Prostituta’), non possiamo sapere (…)” (3).

Per motivi di spazio, non si può in questa sede esternare nel dettaglio tutta la complessa e articolata cosmogonia degenerativa valentiniana, per cui ci basti per il momento sapere che all’interno di tale sistema, la realtà materiale e il mondo nascono come un vero e proprio aborto informe – al quale lo stesso Gesù luminoso dà forma e sostanza in un’opera di restaurazione spirituale – causato dalla smodata passione, o sete di conoscenza dell’unico vero Padre (l’incomprensibile Abisso), da parte della Sophia comunque residente – in qualità di ultima tra gli Eoni – all’interno del Pleroma, cioè della pienezza spirituale.

E del resto: “L’approssimazione maggiore alla forma valentiniana è rappresentata dai Barbelognostici (…) dell’Apocrifo di Giovanni. Essi, come gli Ofiti, hanno sentito la necessità, per poter spiegare tutta la grande estensione di condizioni rappresentate dall’aspetto femminile di Dio, di differenziare tale aspetto in una Sophia superiore e una Sophia inferiore, quest’ultima come forma decaduta della prima e portatrice di tutta la calamità divina e delle indegnità provenienti dalla caduta.” (4).

La Sofia superiore viene nominata dai Barbelognostici, appunto, “Barbelos” (forse “Vergine”) ed “Ennoia”, dagli Ofiti “Spirito Santo”, mentre entrambi concordano nel ritenere che la Sofia inferiore venga chiamata direttamente ‘Sophia’, nonché ‘Prunikos’ o ‘La Sinistra’; i Sethiani la dissero ‘Eden’ o ‘Israele’.

Che si tratti, dunque, di una vergine-guerriera (Atena e Artemide), di una puttana riscattata da un bordello di Tiro (l’Elena come pensiero di Simon Mago, che si riteneva Dio in terra), o dello Spirito Santo femminilizzato, e quindi negativizzato in funzione gnostica o anticosmica (Barbelos, Ruha d’Qudsha, Eden o Edem), siamo sempre in presenza della Sofia, sia essa superiore o inferiore. E siamo quindi in presenza di Iside (donde il motivo del titolo del presente articolo).

Riconoscendomi come un perfetto discepolo di Apuleio e confutando il Festugière, il quale affermava che, in questo genere di cose, non è necessario tirare in ballo Iside, sono dell’opinione, invece, che bisogna tirarla in ballo eccome!

L’esempio più elevato di Sofia superiore (recante in sé elementi anche di quella inferiore), infatti, è sicuramente – all’interno di tutto il mondo antico – la dea-madre Iside, vera e propria madonna egizia, ma anche greco-romana, che, in quanto concrezione piena della Grande Madre di origine preistorica e soprattutto prefigurazione più prossima della Vergine Maria, riassume in sé tutte le raffigurazioni mitiche femminili e tutte le dee che l’hanno preceduta e seguita.

Sia come emblema della sposa devota, connessa alla copula vivificante, e quindi trasfigurante, che riscatta il Cristo-Osiride di tra i morti, sia come emblema della tenerezza della madre, che allatta o tiene in grembo il figlioletto Horo, è comunque caratterizzata da una tripartizione ginecocratica non indifferente e piuttosto inquietante.

In un continuo passaggio dall’una all’altra delle seguenti figure, Iside contempla la sua iniziale ierofania di dea dell’ebbrezza erotica e della gioia sessuale, Hathor, con orecchie e corna di vacca al cui centro è posto un disco solare, e il trasmigrare da questa forma a quella di Bastet/Sekhmet, dea-gatta o dalla testa di leonessa il cui nome significa “la potente” (5). Signora dell’ira e del fuoco purificatori, rappresenta il potere della distruzione nei casi in cui è necessario ricorrere alla violenza.

Ed è con questo aspetto felino o leonino che ci addentriamo nei più intimi e tenebrosi misteri Isiaci, sempre consapevoli, come lo erano gli iniziati al suo culto, del fatto che nessun mortale ha mai potuto sollevare il suo velo.

Un esempio emblematico di ciò è dato dal mito, al tempo stesso solare e oscuro, di Sansone nel Vecchio Testamento, laddove – ancor prima del taglio dei capelli, come metafora della castrazione ad opera della Sofia inferiore Dalila – possiamo riconoscere la mancata virilizzazione giudaica di quell’elemento felino e femmineo egizio.

L’uccisione a mani nude del leone da parte dell’eroe solare, non lo preserva, infatti, dalla fine imminente ad opera di una donna (anche se tecnicamente siamo in presenza di un suicidio, volto ad abbattere i nemici), preconizzata dal fatto che Sansone mangia, qualche tempo dopo, il miele secreto dalle api all’interno della carcassa dell’animale smembrato – e ne fa mangiare, anzi, anche ai suoi genitori – ; ed è risaputo che le api, specie le api-regine, sono nel mondo antico un chiaro simbolo della supremazia femminile sull’elemento maschile.

Il leone, animale virile e solare, non riesce in questo caso ad evolversi dall’essere anche una leonessa e ci troviamo, fatalmente, di fronte a quell’ibrido leonino, maschio e femmina al tempo stesso, isiaco per eccellenza: la Sfinge.

“Animale dalle due nature”, al pari del Grifone di cui parla Dante, “si può considerare la testa umana come raffigurazione della saggezza, e il corpo di leone, della forza; la testa è l’autorità spirituale che dirige, il corpo è il potere temporale (inteso qui) nel suo stato ‘non agente’ (poiché) la Sfinge è raffigurata sempre in riposo” (6), come i suoi inesplicabili indovinelli, che inducono al silenzio.

Per questo motivo – ci fa sapere Elèmire Zolla – mutuandolo dalla tradizione egizia, un delirante accostamento tra la Sfinge e il Cristo venne propalato dal Cusano, “per il quale essa è il volto di Gesù. Dell’essere duplice, divino e umano, spirituale e psichico, ‘velato in tutti i volti e visto in un enigma’. Soltanto toccando il metafisico silenzio lo si coglie davvero.” (7).

Fra i tanti pittori che seppero assurgere alle vette di questa apofatica filosofia perenne, “Toorop, il simbolista neerlandese, ostenta la folla accalcata in una chiesa, dove Cristo-sfinge sgomina le false coscienze, e non si osa pensare che Toorop sapesse che Nemesi sta accosto alla sfinge fin dalle pitture parietali etrusche.” (8).

E ancora: “la Madonna del Silenzio di Michelangelo mostra Gesù giacente angosciato sopra una clessidra: vide Horus, il prediletto della sfinge, intimare il silenzio!” (anche se) “fu una storia infinita quella che contrappose la sfinge al papato fin dalle pitture vaticane del Pinturicchio, dove il papa è circondato dai figli del Sole sulla terra, imperatori e altri grandi: non soltanto profeti e sibille, Iside, santi e Vergine Maria, ma anche la sfinge adorano il papa. E’ un enigma!” (9).

E’ certamente vero che “La religione di Iside e il culto di Mithra, in particolare, apparvero nei primi secoli dell’impero romano come i più temibili concorrenti del cristianesimo nascente” (10), e sarebbe stato interessante assistere allo sviluppo religioso di quell’etica guerriera mithriaca (anche Mithra nasce in una grotta, da una roccia, e la sua nascita veniva celebrata il 25 Dicembre) che i vari papi convertiti al secolo avrebbero stravolta e fatta propria, specie al tempo delle Crociate. Così come è interessante notare che all’interno delle grotte e degli antri mithriaci, dove veniva affrescato l’intero firmamento – come se lo splendore più abbacinante potesse rifulgere nei meandri più oscuri e tenebrosi del sottosuolo – la presenza, in taluni affreschi, del leone alato assimilato a Zurvann, dio del tempo illimitato, potrebbe essere interpretata in chiave gnostica nel senso di una liberazione dall’Eone temporale, di cui il sacrificio del toro, da parte di Mithra, sarebbe una prefigurazione.

Anche all’interno del cattolicesimo permangono le due Sofie – o per meglio dire le due Marie, che non a caso portano lo stesso nome – rappresentate rispettivamente dalla Vergine Maria e dalla Maddalena che, appunto in quanto Sofia inferiore, si caratterizza anch’essa come prostituta redenta, esattamente come l’Elena di Simon Mago o la Sarah di Shebbatei Zevi, livornese ebrea destinata ad andare in sposa soltanto al Messia e della quale si diceva che un angelo le avesse donato un “vestito di pelle” che Eva aveva confezionato seimila anni prima.

La Maddalena, in quanto unica donna presente al momento della trasfigurazione, avrebbe potuto svolgere un ruolo importante nel “predisporre un culto della Vergine che rimediasse alla perdita atroce di Iside! (…) anche perché uno dei modi di entrare in contatto con Iside era di rivolgersi a un soave tempietto per trovare una prostitutella” (11).

Se la Sapienza, nell’omonimo libro del Vecchio Testamento personificata in donna, è un esempio di Sofia superiore che invita l’uomo ad occuparsi di lei nelle piazze e davanti all’uscio di casa come una peripatetica (12), un mirabile e voluttuoso esempio di Sofia inferiore si può ritrovare in Giuditta, archetipo della dea-guerriera che si prostituisce per abbattere il nemico (13).

E’ universalmente noto il modo in cui questa donna, che rappresenta il ‘climax’ della bellezza semitica, preghi Dio di renderla ancor più sensuale e irresistibile agli occhi del generale Assiro Oloferne, per potersi introdurre nella sua tenda e ubriacarlo, così, di vino e di sesso.

Possiamo soltanto immaginare la sua fronte imperlata di sudore, il corpo attraversato dagli spasmi del desiderio erotico, la nudità della sua perfetta bellezza, tutti in direzione – come ogni mantide religiosa sa e ottiene – della decapitazione del proprio amante, il cui schizzo di sangue dalla gola appena squarciata è così eloquentemente rappresentato dal Caravaggio nel suo ‘Giuditta e Oloferne e il baro’, o, ad opera compiuta, mentre tiene semplicemente in mano – con una espressione sordida che sintetizza, coi suoi gioielli art nouveau, tutta la lascivia del Novecento – la testa mozzata di Oloferne, nel ‘Giuditta I’ di Gustav Klimt.

Anche se forse nessun pittore ha mai saputo cogliere la nefandezza perpetrata – sempre per volere di Dio – da una Giuditta minore e molto più infame di un altro passo biblico, ossia Giaele. Costei, moglie di Eber, dopo aver ospitato nella sua tenda, per farlo riposare, il generale Cananeo in fuga Sìsara, “preso un piuolo da tenda e impugnato un martello, si appressò cautamente a Sìsara, gli piantò il piuolo nella tempia che arrivò sino al suolo” (14).

Dopo tutte le immagini isiache qui descritte, può ancora esistere, oggi, una vera donna che sia in qualche modo avvicinabile a una soltanto di queste figure femminili grandiose e terribili? Dove sono quelle donne “vere, meravigliose, grandiosamente inafferrabili e veramente un po’ madonne e un po’ streghe (…) dei nostri sogni, delle nostre letture, qualche volta dei nostri incontri?” (15).

Come afferma Julius Evola: “Nella donna vera – tipica, assoluta – fu riconosciuta la presenza di qualcosa di spiritualmente pericoloso, di una forza fascinatrice e anche dissolutrice; il che spiega l’atteggiamento e i precetti di quella particolare linea di ascesi che avversò il sesso e la donna, quasi per tagliar corto col pericolo. L’uomo che non abbia scelto né la via della rinuncia al mondo né quella di un impassibile distacco nel mondo, può affrontare il pericolo (…) se usa il sesso senza rendersene schiavo e se ha il modo di evocarne le dimensioni profonde, elementari, in un certo senso trans-biologiche.” (16).

E, per forza di cose, “Non riesce facile immaginarsi una ‘donna assoluta’ nelle vesti di una ragazza ‘evoluta’ e ‘moderna’. (…) In realtà, l’entrata della donna con parità di diritti nella vita pratica moderna, la sua nuova libertà, il suo trovarsi a fianco degli uomini negli uffici, nelle professioni, nelle fabbriche (…) e ormai perfino nella vita politica e negli eserciti, rientra in quei fenomeni dissolutivi dell’epoca di cui, nella maggioranza dei casi, è difficile scorgere una controparte positiva. In essenza, con tutto ciò si è manifestata soltanto la rinuncia della donna al suo diritto di essere donna.” (17).

“In una esistenza inautentica, il regime dei diversivi, dei surrogati e dei tranquillanti proprio alle tante ‘distrazioni’ e ai tanti ‘divertimenti’ di oggi, non lascia ancora presentire al sesso femminile la crisi che attende la donna moderna nel punto in cui essa riconoscerà quanto quelle occupazioni maschili, per le quali ha tanto combattuto, siano prive di senso, nel punto in cui le illusioni e l’euforia delle sue realizzate rivendicazioni svaniranno, nel punto in cui, d’altra parte, essa constaterà che, dato il clima di dissoluzione, famiglia e prole non possono più darle un senso soddisfacente della vita, mentre per via della caduta di tensione anche uomo e sesso non potranno significarle più gran cosa, non potranno più costituirle, come ne fu il caso per la donna assoluta tradizionale, il centro naturale dell’esistenza, ma le varranno soltanto come uno degli ingredienti di una esistenza dispersa ed esteriorizzata vicino a vanità, a sport, a culto narcisistico del corpo, a interessi pratici e simili.” (18).

Iside è myrionyma (“dai diecimila nomi”) e panthèa, secondo la definizione di Apuleio, cioè una divinità unica, venerata sotto nomi diversi presso tutti i popoli. A lei si devono la separazione della terra dal cielo, l’abolizione dell’antropofagia, l’invenzione della scrittura e della navigazione.

“L’enumerazione delle varie aretài (virtù) delinea l’immagine di Iside come potenza di respiro universale, signora dell’universo nella sua dimensione cosmica e umana insieme e, secondo alcuni documenti, reggitrice del destino astrale, quella Heimarmène che si impone all’uomo di età ellenistica ed imperiale come forza oscura e tirannica, ai cui disegni egli era costretto dolorosamente a sottostare.” (19).

Ma ella è soprattutto la Regina Coeli, la Stella maris dei naviganti, garante della rotta da seguire per far ritorno a casa e della vita ultraterrena, la luce nelle tenebre e “la madre che protegge gli infelici con la sua tenerezza inumidita dai raggi lunari” (20), dalla sopravveste nerissima luccicante di stelle e capace di suscitare nei suoi adepti quella inexplicabilis voluptas determinata dalla consapevolezza che l’approssimarsi della morte è anche inizio gioioso del rapporto erotico-divino, carnale e orgiastico, con la Dea.

Una delle ultime incarnazioni – se non l’ultima – di Iside sulla terra, quale tipico esempio di ‘donna assoluta’, Tradizionalista, fu sicuramente Valentine de Saint-Point, poetessa, narratrice e danzatrice francese che visse a cavallo tra l’Otto e il Novecento, capace di sconvolgere persino i salotti di Parigi con la sua “esplosiva femminilità, fatta di marziali pose da virago e di incontenibili notti eteriche.” (21).

Scrive Valentine nel suo ‘Manifesto della donna futurista’, in opposizione a Filippo Tomaso Marinetti (di cui fu anche l’amante), il quale aveva esaltato – com’è noto – “la guerra, sola igiene del mondo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”, che “La maggioranza delle donne non è superiore né inferiore alla maggioranza degli uomini. Esse sono uguali. Tutte e due meritano lo stesso disprezzo” (22).

“ (…) nel periodo di femminilità in cui viviamo”, prosegue Valentine, “solo l’esagerazione contraria è salutare” (ecco perché) “il Futurismo, con tutte le sue esagerazioni, ha ragione.”

Ed ecco che, per risvegliare la virilità mancante in entrambi i sessi, bisogna dire basta alle “donne infermiere che perpetuino le debolezze e le vecchiezze, addomesticando gli uomini pei loro piaceri personali o pei loro bisogni materiali! Non più donne che facciano figli solo per se stesse, riparandoli da ogni pericolo, da ogni avventura, cioè da ogni gioia; che disputano la loro figliuola all’amore e il loro figliuolo alla guerra! Non più donne, piovre dei focolari, dai tentacoli che esauriscono il sangue degli uomini e anemizzano i fanciulli; donne bestialmente amorose, che distruggono nel Desiderio anche la sua forza di rinnovamento!

“Le donne sono le Erinni, le Amazzoni; le Semiramide, le Giovanna d’Arco, le Giovanna Hachette; le Giuditta e le Carlotta Corday; le Cleopatra e le Messalina, le guerriere che combattono più ferocemente dei maschi, le amanti che incitano, le distruggitrici che spezzando i più fragili contribuiscono alla selezione (…)” (23).

Giunto alla fine di questo breve saggio, mi piace qui concludere con un’ultima dirompente ed emblematica affermazione dell’isiaca Valentine, la quale, convinta fermamente che il femminismo fosse un errore politico e cerebrale della donna, si augurava: “Che le prossime guerre suscitino delle eroine simili a quella magnifica Caterina Sforza che, mentre sosteneva l’assedio della sua città, vedendo dall’alto delle mura il nemico minacciare la vita di suo figlio per obbligarla ad arrendersi, mostrando eroicamente il proprio sesso, gridò: ‘Ammazzatelo pure! Mi rimane lo stampo per farne degli altri!”.

 

 

 

 

 

Note:

(1)  Checchè ne dica il ‘Vangelo di Filippo’, di scuola Valentiniana, circa il fatto che “La verità non è venuta nuda nel mondo, ma è venuta in simboli ed immagini”, indubbiamente prima di mondanizzarsi e soprattutto al cospetto di Dio, la Verità è sempre ignuda.

(2)  “Guida alle religioni”, a cura di F. Pierini, San Paolo editore.

(3)  “Lo gnosticismo” di Hans Jonas, Società Editrice Internazionale, Torino, 2002.

(4)  “Lo gnosticismo” op. cit.

(5)  “Storia delle religioni”, Volume Settimo, a cura de “La biblioteca di Repubblica”, 2005.

(6)  “Autorità spirituale e potere temporale” di Renè Guènon, Luni Editrice, Milano, 1995.

(7)  “Discesa all’Ade e resurrezione” di Elèmire Zolla, Adelphi, 2002, Milano.

(8)  “Discesa all’Ade e resurrezione”, op. cit.

(9) Ibidem.

(10) “Guida alle religioni”, op. cit.

(11) “Discesa all’Ade…”.

(12) “Chi di buon mattino la cerca (…) la troverà a sedere presso la propria porta. (…) a quanti son degni di lei, per le strade si mostra ad essi benigna e con ogni cura va loro incontro.” Sapienza (6, 14-17).

(13) E’ singolare rilevare come, sia il libro della Sapienza, sia quello di Giuditta, siano Deuterocanonici, cioè non rientrino nel Canone accettato dagli ebrei.

(14) Giudici (4,21).

(15) “Austria Infelix” di M. Bernardi Guardi, Solfanelli Editore, 1990.

(16) “Cavalcare la tigre” di Julius Evola, Ediz. Mediterranee, Roma, 2000.

(17) “Cavalcare la tigre”, op. cit.

(18) Ibidem.

(19) “Storia delle religioni”, Volume Ottavo, a cura de “La biblioteca di Repubblica”, 2005.

(20) “La luce della notte” di P. Citati, Mondadori Editore.

(21) “Lussuria e Crudeltà” di V. de Saint-Point, Stampa Alternativa, 2001.

(22) Ibidem.

(23) Ivi.