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Cattolici e comunisti. Un incontro fuori tempo

di Ernesto Galli Della Loggia - 02/01/2008



Una parte significativa, qualcuno forse direbbe una gran parte, della storia politica dell'Italia repubblicana è stata occupata dal rapporto tra i cattolici e i comunisti. Entrambi legati profondamente alle masse popolari; entrambi animati da ideali universalistici fondati sulla solidarietà e sul rifiuto dei valori acquisitivi; entrambi estranei alla cultura delle élite statali tradizionali: dopo il 1945 tutto era fatto per avvicinarli. E infatti allora e dopo reciproche attrazioni ideologiche si fecero sentire non poco, specie tra gli intellettuali. Nell'incontro con i comunisti molti cattolici vagheggiarono il più facile compimento di una radicale promessa di giustizia sociale; nella collaborazione con i cattolici, dal canto loro, molti comunisti videro la premessa per un consenso delle masse popolari capace di rendere la «via italiana al socialismo » una cosa diversa dalla tenebrosa prospettiva sovietica. A fare in modo che l'incontro restasse almeno potenzialmente possibile in futuro ci pensarono due decisioni strategiche di Togliatti e di De Gasperi: da un lato il voto del Pci a favore dell'inclusione dei Patti Lateranensi nella Costituzione, con cui i comunisti non solo sancirono la loro assoluta diversità dal laicismo delle vecchie élite liberal- democratiche, ma provvidero altresì a spogliare di qualunque riflesso internazionale con la Santa Sede ogni loro eventuale rapporto con i cattolici; dall'altro il rifiuto del leader trentino, a dispetto della scomunica del '49 e delle pressioni del «partito americano », di procedere alla messa fuori legge del Partito comunista.
Ma nella Prima Repubblica, come si sa, quell'incontro non ci fu, se non in forme spurie e provvisorie. Dovrebbe invece esserci ora nel Partito democratico, si dice. Si dice anzi che il Partito democratico in quanto tale sarebbe il sospirato frutto di quell'incontro a lungo rimandato. Così a lungo rimandato da avvenire però, oggi, in condizioni che lo rendono, a me pare, cosa assai diversa da quella che avrebbe potuto essere un tempo, e politicamente molto più problematica.
Tra l'Italia di appena ieri e l'Italia di oggi è infatti intervenuta una gigantesca cesura: il cattolicesimo ha virtualmente cessato di essere la viva matrice dei valori culturali e degli orientamenti pratici della maggioranza della popolazione. Sicché mentre un tempo per esempio la borghesia, pur se politicamente progressista, aveva tuttavia una morale sessuale e familiare in larghissima misura coincidente con quella tradizionale cattolica, oggi, invece, proprio su questi terreni «etici» essa tende a fondare e ad affermare la propria identità politica di sinistra, inalberando l'insegna della «modernità». E' la «modernità », infatti, è essa, oggi, che è divenuta, insieme alla sua sorella la «laicità», assai più della «giustizia» o della «solidarietà» il vero e massimo connotato ideologico dello schieramento progressista.
«Modernità» che naturalmente coinvolge— muovendosi in questo caso specialmente lungo linee generazionali — anche le classi popolari. Le quali, quindi, oggi tendono a non avere più nel retaggio cristiano quel tratto unitario, al di là della destra e della sinistra, che esisteva fino a un paio di decenni fa e che, come il Pci sapeva bene, esigeva il dovuto rispetto.
Ma anche sul versante cattolico c'è oggi, rispetto a ieri, un'importantissima novità.
Proprio in coincidenza con il ruolo via via sempre più centrale che la «modernità» ha acquistato sull'orizzonte dell'epoca, e dunque anche nella società italiana, proprio in coincidenza con ciò — per ragioni che devono sottrarsi a una banale ripulsa in nome della «ragione» o della «libertà» come invece ama fare tanto laicismo nostrano intellettualmente torpido — la posizione cattolica ha preso a identificarsi con una critica sempre più approfondita e combattiva verso la medesima «modernità». O perlomeno verso la sua vulgata più facile e più diffusa: accettando lucidamente, in questa prospettiva, anche il rischio di finire per rappresentare una posizione virtualmente di minoranza.
Ce n'è abbastanza, mi pare, per rendere l'amalgama che dovrebbe realizzarsi nel Partito democratico tra postcomunisti e cattolici tanto diverso da quello (eventuale) del passato quanto di assai problematica utilità politica. L'amalgama odierno, infatti, non solo urta da un lato contro un'ideologia identitaria diffusa nel popolo di sinistra (la cosiddetta «modernità-laicità»), che ieri non era significativa e che oggi invece ha acquistato un fortissimo rilievo politico, ma urta anche contro il nuovo orientamento del cattolicesimo di cui si è detto. E come se non bastasse non è per nulla certo, anche a causa della mutata incidenza quantitativa dei cattolici nel Paese, che esso sarebbe la premessa di quella grande maggioranza elettorale che invece avrebbe sicuramente arriso qualche decennio fa all'antico incontro tra cattolici e comunisti.