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Wallace, l’altro Darwin

di Francesco Agnoli - 02/01/2008

Coautore della teoria della selezione naturale, lo scienziato gallese si convinse che l’uomo non è solo figlio del caso 
 


 
 Q uando si parla dell’evolu­zionismo, si dimenticano spesso di approfondire il ruolo e le idee di Sir Alfred Russel Wallace, il grande naturali­sta nato nel Galles nel 1823, consi­derato il padre della biogeografia, di pionieristici studi sull’urang-u­tan e sull’uccello del paradiso, oltre che coautore della teoria della sele­zione naturale, insieme a Darwin. È proprio quest’ultimo, nella sua Au­tobiografia,
  a raccontare che Walla­ce gli aveva inviato un suo scritto contenente le sue stesse identiche considerazioni. Giuseppe Scarpelli, nel suo
Il cranio di cristallo (Bollati Boringhieri), aggiunge che «il testo di Wallace aveva straordinarie cor­rispondenze con quello di Darwin, oltre che nel significato generale e nel modo di investigare il proble­ma, anche per quanto riguardava la concatenazione concettuale e la scelta terminologica».
  Effettivamente in tutti i testi di bio­logia, il nome di Wallace compare accanto a quello di Darwin. Anche due studiosi rigorosamente atei, co­me Watson e Dawkins, citano spes­so il nome di Wallace, e il secondo lo considera, insieme a Darwin, il nume tutelare della sua visione a­teistica.
 
Eppure la storia di Wallace è piutto­sto diversa, ed è misconosciuta, spe­cialmente in Italia, dove sono stati pubblicati solo alcuni dei suoi scrit­ti, e per lo più ormai moltissimi an­ni fa. Tra questi occorre ricordare almeno Esiste un’altra vita?, I mira­coli e il moderno spiritualismo, L’o­rigine delle razze umane, Il darwi­nismo applicato all’uomo.
 In tutte queste opere, Wallace, che partiva da una visione dell’esisten­za atea e scettica, affronta il miste­ro dell’uomo con estrema curiosità ed apertura, e, deluso dal determi­nismo materialista dell’epoca, che negava la dimensione dello spirito e della libertà, arriva sino a speri­mentare l’evocazione di spiriti, in­sieme a eminenti scienziati come madame Curie, criminologi mate­rialisti come Lombroso, e scrittori atei come Conan Doyle.
  Soprattutto, Wallace indaga e met­te in luce l’originalità dell’uomo, il suo non essere del tutto riconduci­bile a mera materia in evoluzione.
  Il suo pensiero è caratterizzato dal­la convinzione che «l’immane labi­rinto dell’essere, che vediamo e­stendersi ovunque attorno a noi, non sia senza un piano» divino, e che non tutto l’uomo sia spiegabi­le unicamente con la selezione na­turale, quasi fosse una «causa on­nipotente
». In questa sua visione Wallace trova l’appoggio di altri evoluzionisti del­la prima ora, tra cui quello di alcu­ni intimi amici di Darwin, da Lyell, ad Herschel, ad Asa Gray, il più gran­de darwinista americano, tutti pro­pensi ad accogliere sì l’evoluzioni­smo, ma come processo finalizzato, guidato, e non casuale.
  Riguardo all’uomo Wallace sottoli­nea l’unicità della sua pelle, sensi­bile, morbida e senza peli, delle sue mani, capaci di straordinarie ap­plicazioni, e aggiunge che «nessun principio dell’ereditarietà, neppu­re la selezione naturale, può dar ra­gione del superiore sviluppo cere­brale dell’uomo, ma neppure del­la stazione eretta, degli organi del linguaggio, dell’abilità manuale, della pelle priva di peli» (G. Scar­pelli,
p. 133). A tutt’oggi, oltre cento anni dopo, su molti testi di biologia appena un poco seri si possono leggere affer­mazioni in perfetta armonia con l’o- pinone di Wallace: «Non si sa con sicurezza quali spinte evolutive hanno favorito l’ingrandimento del­l’encefalo »; quanto alla stazione e­retta, la locomozione bipede, la pel­le glabra e il cervello più grande, propri dell’uomo, e non della scim­mia, la domanda è come mai... e «la risposta è che nessuno lo sa» (Au­desirk- Byers, Biologia, vol.I, Einau­di, 2003; sulla derivazione del lin­guaggio umano dal «linguaggio» a­nimale sono invece molti i linguisti a negare la possibilità di tale pas­saggio; tra questi il celebre Noam Chomsky e quanti invece sottoli­neano, come già faceva Wallace, l’assoluta originalità fisica della la­ringe umana rispetto a quella delle varie specie di scimmie).
  Wallace, inoltre, metteva in luce al­tre due constatazioni interessanti per ogni naturalista.
  La prima è che la comparsa della vi­ta e dell’uomo sulla Terra sono «e­venti assolutamente unici, spiega­bili con la posizione privilegiata del nostro pianeta nella galassia e con una complessa e singolare conco­mitanza di fattori fisici e chimici» (Scarpelli, p. 134): è in sostanza la stessa idea che va oggi sotto il no­me di principio antropico, e che vie­ne sostenuta da fisici e astronomi credenti, per la quale sono tante e tali le condizioni necessarie perché si sviluppi la vita sulla Terra, che non possono essere semplicemente frutto del caso.
 
Per comprendere l’attualità delle i­dee di Wallace basti citare breve­mente quanto scrive un famoso di­vulgatore scientifico come Franco Prattico, nel suo Dal caos... alla co­scienza
  (Laterza), dopo aver analiz­zato i grandi punti di domanda del­la scienza sulla mente, l’intenzio­nalità, la coscienza dell’uomo: «Bi­sogna perciò avere il coraggio di di­re, a conclusione di questo viaggio nella storia dell’Universo, che o­gnuno dei concetti che abbiamo co­sì disinvoltamente usati cela un mi­stero. E che forse il mistero più profondo è proprio la nostra co­scienza... »; mentre poco più avanti, riguardo al linguaggio umano, se­gno evidentissimo della differenza tra uomo e animale, e strumento principe dell’evoluzione culturale, aggiunge: «Eppure, come per la sta­zione eretta, l’apparizione del lin­guaggio articolato sembra configu­rarsi come un dono del 'caso', una coincidenza fortunata poco spiega­bile sulla base di una evoluzione li­neare e deterministica: una sorta di ’scherzo’ della natura».
 
La seconda constatazione assai in­teressante di Wallace è che l’uomo «ha tolto alla natura quel potere, che essa esercita su tutti gli altri anima­­li, di mutare lentamente ma defini­tivamente la forma e la struttura e­sterna secondo i cambiamenti del mondo esterno... Egli compie tutto questo per mezzo del solo intellet­to, le cui variazioni lo mettono in grado di mantenersi, anche con un corpo immutato, in armonia con l’universo che muta»: ciò significa che l’uomo, a differenza degli altri animali, non ha necessità di adat­tarsi materialmente, fisicamente, al­l’ambiente, perché, essendo dotato dell’intelligenza, è capace di af­frontare ogni clima e ogni situazio­ne attraverso la creazione di vestiti, indumenti e strumenti vari. Ciò ne fa, evidentemente, una creatura o­riginale, la più debole e la più ina­datta, fisicamente, ma, grazie allo spirito, la più forte, l’unica che si po­ne di fronte alla natura con capa­cità di dominarla: il vertice della na­tura, insomma. Una simile posizione permetteva a Wallace di non cadere nel razzismo tipicamente vittoriano, in cui inve­ce incapparono molti evoluzionisti, T. Huxley, il «mastino di Darwin», Francis Galton, cugino di Darwin, John Lubbock, allievo di Darwin, e, a tratti, lo stesso Charles Darwin. Mentre il primo, infatti, «cercherà di documentare la presenza di ca­ratteri affini tra uomo di Nean­derthal e ottentotti, considerando quest’ultimi come i gradini più bas­si della scala delle razze umane», il secondo «si cimenterà in una rac­colta di dati statistici allo scopo di quantificare la maggior dignità del­l’uomo bianco rispetto al negro» (Scarpelli, p.72).
  Wallace invece, rifiutandosi di ri­durre l’uomo a materia in evoluzio­ne, da una parte condanna aperta­mente l’eugenetica, creata dal cu­gino di Darwin, Francis Galton, e sostenuta da moltissimi evoluzio­nisti contemporanei, bollandola co­me una credenza non scientifica, dall’altra sostiene che «la specie u­mana ha posseduto ab initio l’in­sieme delle caratteristiche intellet­tive, etiche, creative che lo contrad­distinguono; di conseguenza essa deve essere stata in grado di pro­durre in alcune situazioni favore­voli, anche in epoche remote, gran­di opere artistiche, architettoniche, intellettuali in genere. E dunque i selvaggi odierni, identici a noi ana­tomicamente e cerebralmente, non vanno considerati come varietà ri­maste al palo...» (Scarpelli, p.76). È lo stesso Scarpelli ad aggiungere che il pensiero di Wallace è confermato dai ritrovamenti nel 1879 delle ma­gnifiche pitture rupestri di Altami­ra e nel 1940 di quelle di Lascaux, entrambe attribuite ai CroMagnon, già 40.000 anni fa provvisti di un vo­lume cerebrale pari al nostro o ad­dirittura superiore.

 Arrivò a condannare l’eugenetica, sostenne che la specie umana ha posseduto fin dall’inizio l’insieme delle sue caratteristiche