«Allo stesso tempo simile e differente, l’India ci rinvia in qualche modo l’immagine di ciò che la nostra cultura sarebbe potuta diventare se avesse seguito un’altra strada». Con queste parole apparse su un numero di pochi anni fa della rivista francese Eléments, Alain de Benoist inquadrava la questione indiana in un’ottica particolare, lontana da esotismi o sincretismi alla moda. E’ un India così lontana e così vicina, quella descritta dal pensatore francese. In copertina sullo stesso numero del mensile si leggeva, del resto: “L’Inde. La puissance e la fidélité”. Potenza e fedeltà: miti antichi di 4000 anni ed energia nucleare. Si capisce perché, allora, il subcontinente rappresenti per de Benoist l’immagine di una Europa che avrebbe potuto essere e non è stata. Ma che magari, proprio grazie al confronto con il gigante indiano, potrebbe in futuro diventare.

E un confronto con questo paese carico di suggestioni contraddittorie lo ha tratteggiato anche il giornalista di Repubblica Federico Rampini, già autore di fortunati saggi sulla Cina e ora campione di vendite nelle librerie con il suo La speranza indiana (Mondadori, Milano 2007, 236 pp, € 15).

Accumunare l’India al concetto di “speranza” è già una scommessa, in verità, se solo si pensa alle immagini di povertà e carestia che popolano il nostro immaginario al riguardo. Eppure Rampini vuole esattamente superare questi stereotipi ed illuminarci sulla nuova realtà di questa nazione immensa che, per quanto possa essere difficile immaginarlo, si proietta nel terzo millennio con una fiducia in se stessa a noi sconosciuta. Beninteso, il saggio non è esente da difetti. Al di là dell’accattivante prosa giornalistica e della pur abbondante documentazione, una certa ottica coloniale cacciata dalla porta sotto forma di “fardello dell’uomo bianco” rientra dalla finestra con le pagelline progressiste su ciò rispetto a cui l’India dovrebbe ancora “migliorare”. E tuttavia la potenza dell’oggetto del libro sembra spesso redimere questa attitudine occidentale, troppo occidentale.

Del resto, per capire le dimensioni del miracolo indiano, non occorre essere fini analisti. Basta leggere i dati: in termini di Pil, il sorpasso della Cina sugli Usa è previsto per il 2035, quelle dell’India per il 2050. Secondo il demografo di Harvard David Bloom, citato da Rampini, «oggi l’India ha duecento milioni di giovani fra i 15 e i 24 anni, cioè più dell’intera popolazione del Brasile». Duecento milioni di giovani: eccola, la loro speranza. Per rendere l’idea si consideri che la multinazionale di tecnologia dell’informazione Infosys conta 66mila dipendenti la cui età media è 27 anni, «un’età in cui molti neolaureati europei si affannano in cerca di lavoro, spesso rassegnati al precariato, comunque condannati ad anni di “gavetta” in basso alla piramide, sotto gerarchie aziendali stratificate di anziani». Il paragone è disarmante.

L’India, poi, ha un’arma che alla lunga si rivelerà invincibile: mentre nei nostri atenei esplodono i corsi in scienze della comunicazione, dalle parti di New Delhi troviamo «undicimila università che sfornano due milioni di laureati all’anno, fra cui oltre duecentomila ingegneri». Vi sono regioni che forniscono corsi di informatica a tutta la popolazione, puntando ad una alfabetizzazione informatica del 100%. Nella Silicon Valley di San Francisco, come noto, dominano i programmatori di computer giunti da Bangalore. Si consideri, inoltre, che negli ultimi anni è in corso un consistente fenomeno di inversione della fuga dei cervelli tale da impensierire seriamente gli Stati uniti. In tutto questo, la mentalità ancestrale induista ha fornito un motore di sviluppo le cui dinamiche andrebbero veramente indagate a fondo.

Del resto, già alla fine degli anni ’80 Fritjof Capra mostrava l’inaspettata convergenza tra la religione cosmica e monista degli indiani e le ultime frontiere della fisica quantistica (cfr. Il Tao della fisica, Adelphi 1989). A fronte di un Occidente bloccato, ripiegato su se stesso, ancora ricco e potente quasi per forza di inerzia, l’India rappresenta un mondo che capace di “comprendere” prima e di mettere a frutto poi le conquiste tecnoscientifiche che ci proiettano nel futuro più lontano grazie ad un pensiero arcaico che evidentemente ha ancora molto da dire. Già nel 1993, in effetti, in un sondaggio internazionale condotto dall’Eubios Ethics Institute per saggiare la volontà di disporre dell’ingegneria genetica per prevenire patologie e per incrementare le capacità fisiche e mentali ereditate dai propri figli, i dati parlavano di una percentuale di favorevoli pari al 22% in Israele, al 43% negli Stati Uniti e all’83% in India. Memore delle innumerevoli trasformazioni dei suoi dei, il popolo indiano sa rapportarsi in forma più aperta e meno moralistica di quanto non si riesca alle nostre latitudini alle biotecnologie.

E’ stato sempre Alain de Benoist, del resto, a ricordare come la grandezza politica, economica, tecnologica e culturale di questa nazione trovi la sua radice ultima nel cuore stesso della sua storia. Quella del subcontinente indiano, infatti, è «una potenza che viene da lontano e che non ha mai dimenticato le sue origini. Poiché l’India è anche 800 milioni di politeisti, una letteratura e una scienza di più di trenta secoli, una tradizione di studi grammaticali e linguistici che ha preceduto tutte le altre. I Veda sono allo stesso tempo le più antiche testimonianze dell’eredità indoeuropea e i più vecchi testi del mondo – la Bibbia, a confronto, non è che un testo recente. Da quattro millenni, essi ispirano l’immaginario indiano: il primo missile balistico lanciato da Nuova Delhi portava il nome di Agni!».

E’ lo stesso Rampini a ricordarci come proprio nel cuore della sua specificità culturale l’India sappia trovare le risorse per concepire un progresso scientifico che non sia distruttivo, sradicante e brutale. Il rispettò tipicamente indù per tutti gli animali, che non di rado sfocia nel vegetarianesimo, è ad esempio un tratto forte che domina ancora oggi la società indiana. Allo stesso modo, il libro mercato che fa da volano allo sviluppo tecnologico non diventa mai selvaggio, per acquisire spesso tratti marcatamente “sociali”, per quanto paternalistici.

Colonia britannica dal ‘600 fino al 1947, inoltre, l’India è forse il paese non occidentale che ha il rapporto più sereno con il proprio passato coloniale. L’indiano medio di oggi conosce i misfatti inglesi sulla sua terra, ma si sente ormai padrone del suo destino. Eppure, ed è lo stesso Rampini a ricordarcelo, il dominio britannico non è certo stato indolore: «Nel 1600, quando venne fondata la East India Company, il Prodotto interno lordo della Gran Bretagna era appena l’1,8% del Pil mondiale, quello dell’India rappresentava il 22,5%. La futura colonia era oltre dieci volte più ricca dei suoi futuri padroni. Tre secoli dopo, il Pil inglese era salito al 9% di quello mondiale, mentre l’India era precipitata nella condizione di un paese povero, stremato da carestie ricorrenti».

Ciononostante, gli indiani non parlano il linguaggio rancoroso della recriminazione. Oggi come oggi si sentono abbastanza forti culturalmente da confrontarsi senza perdere la propria identità, e se è rivincita, quella che cercano, ebbene preferiscono prendersela battendoci sul nostro stesso terreno economico-tecnologico. E nel preteso “scontro di civiltà”, il paese di Schiva non intende collocarsi con nessuno dei due schieramenti monolitici immaginati da Samuel Huntington, non sta né con “noi” né con “loro”. L’India, insomma, «sta esplorando una sua sintesi fra tradizione e modernità, tra identità storica e globalizzazione». I programmatori di Bangalore e le luci di Bollywood non ingannino: «nel momento in cui tutti la corteggiano, questa nazione non è diventata unidimensionale, non esiste solo nel “mondo piatto” della globalizzazione e della competizione economica. La presenza della dimensione spirituale nella sua vita quotidiana continua a colpirci».

Ed è proprio per via di questa “dimensione spirituale” che negli anni ’60 un’intera generazione si è persa andando sulle rive del Gange a “cercare se stessa”, inseguendo superficialmente un nirvana made in California. Passata quella sbornia esotico-fricchettona, è forse giunto il momento, per l’Europa, di provare di nuovo e più seriamente a “ritrovare se stessa” attraverso il confronto, l’alleanza o la competizione con una potenza che dall’alto dei suoi 4000 anni di storia ci osserva con la serenità di Vishnu e le forza di Shiva.