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Somalia, un paese martire della propaganda

di Raffaele Matteotti - 04/01/2008

 
 

Un anno dopo l'invasione della Somalia, il paese si è guadagnato il primo posto nella poco ambita classifica delle emergenze umanitarie. Poco più di un anno fa il regime etiope di Meles Zenawi dichiarava la “Guerra di Natale” alla Somalia e, di concerto con gli Stati Uniti, invadeva il paese per installarvi l'autorità del Governo Federale di Transizione di Alì Ghedi; governo di dubbia legittimità (eletto da un'assemblea di warlord e rappresentanti tribali somali dopo lunghe trattative in Kenya, un paio d'anni fa), ma soprattutto privo della minima rappresentatività. A scatenare l'ira del Dipartimento di Stato americano era stata la presa del potere a Mogadiscio e poi in tutta la Somalia da parte dell'UIC (Unione delle Corti Islamiche). Presa del potere che, per la prima volta dal 1991, aveva ridato ai somali una parvenza di vita civile e presa del potere fondata sul consenso da parte della società civile, a livello popolare come a quello d'elite. Su questi presupposti politici l'UIC, militarmente inconsistente, aveva guadagnato il controllo quasi totale del paese mentre il governo somalo aveva riaperto porti ed aeroporti, scuole e mercati e i somali avevano potuto finalmente girare per le strade del loro paese senza temere gli assalti di disperati e milizie armate.

La storia della Somalia è anche la storia di una sconfitta americana. Quando Bush padre decise a fine mandato di lasciare a Clinton la fallimentare missione Restore Hope, nessuno avrebbe scommesso un dollaro sull'avventura che infatti si tramutò in una tragedia della quale restano solo un film di guerra e le infamie registrate da numerose commissioni parlamentari a carico dei contingenti restauratori di speranza. Che a motivare i due Bush potesse esserci altro oltre gli “islamici” (che ai tempi di restore Hope non erano in questione), non è venuto i mente a nessuno, con buona pace dei dipendenti della CONOCO, unica azienda (petrolifera) occidentale a non avere mai abbandonato il suo compound fortificato a Mogadiscio dalla caduta dell'ultimo governo somalo nel 1991. L'invasione della Somalia si mosse quindi improvvisa e silenziosa un anno fa; alla memoria rimangono solo la lunare dichiarazione di Zenawi che giustificava l'invasione con il pericolo per l'Etiopia di essere invasa dai somali e le dichiarazioni di plauso per parte statunitense e di compita preoccupazione per parte europea.

Un anno dopo i numeri dipingono una tragedia e la cronaca restituisce l'ennesima farsa di pessima qualità. Centinaia di migliaia di profughi, milioni bisognosi di aiuti che non possono essere recapitati perché i “governativi” li rapinano, truppe etiopi che operano rappresaglie sanguinose, censura sulla stampa, caccia al giornalista, violenze ovunque e paese allo sbando. Il governo non esiste più, Alì Ghedi si è dimesso, il presidente Yusuf è molto malato e attaccato anche nel suo feudo del Puntland; il nuovo premier che ha appena nominato non sa dove sbattere la testa e non controlla nulla. A comandare sono gli etiopi, che ormai sono oggetto dell'odio trasversale alla popolazione somala. I due paesi sono sempre stati fieri nemici e gli etiopi si sono abbandonati a brutalità clamorose: il risultato era da considerarsi scontato.

Brutalità che peraltro sono la cifra del regime di Zenawi che si permette un regime di lager e la gestione di una sanguinaria dittatura senza ricevere alcuna condanna dall'Occidente. Per reprimere le richieste di autonomia dell'Ogaden, sfociate in attacchi alle aziende petrolifere cinesi nella regione, Zenawi non ha esitato a sigillare la regione mettendola alla fame. Poi ha fatto attaccare tutti i villaggi sospettati di sostenere la causa autonomista, arruolato forzatamente i civili locali perché massacrassero i vicini. Per questi bei modi, il regime è da anni un paria della comunità internazionale, c'è da capire che i soldi e le entrature americane abbiano costituito uno stimolo potente nello spingere Zenawi alla guerra.

C'è da notare che nonostante Zenawi abbia fatto arrestare gli sfrontati giornalisti internazionali giunti fin lì per dovere di cronaca e nonostante abbia fatto espellere anche i diplomatici norvegesi con l'accusa di collaborazione con i “terroristi”, nessuna delle anime belle che in Occidente hanno sempre in bocca parole come democrazia e libertà, ha dato segno di curarsene. Anche gli appelli delle organizzazioni umanitarie e dell'ONU sono cadute ne vuoto, come nel caso di quelli per la Somalia. Ad echeggiare sono ancora e solamente gli appelli per il Darfur, dove però la guerra è finita da anni, mentre una coltre di silenzio ha coperto i massacri e le pulizie etniche nei vicini Ciad e Repubblica Centrafricana; i governi dei quali sono peraltro sostenuti da Parigi. Una simmetria dell'informazione per nulla casuale, visto che si attesta su linee perfettamente sovrapponibili agli interessi occidentali nell'area.

A ben vedere, negli ultimi due anni di cronache sulla Somalia risalta solo la propaganda che interessati agitatori hanno sparso prima dell'invasione etiope; fecero molto notizia la proibizione “islamica” di vedere le partite dei mondiali di calcio in una piccola città somala e altre notazioni di colore; fece più notizia l'atterraggio di un (uno) aereo misterioso all'aeroporto di Mogadiscio di quanta non ne facessero le feroci repressioni del regime etiope ai danni dei propri cittadini. Cantori del nulla come Magdi Allam ed altri dell'eletta schiera, gridavano al pericolo “islamico” e plaudirono all'intervento, dall'altra parte nessuno parve accorgersi o preoccuparsi del dramma che andava dispiegandosi.

Oggi si può dire che l'Etiopia ha perso la sua guerra. A rendere l'ufficialità del risultato, oltre la situazione sul campo, c'è lo smarcamento americano. La signora Jenday Frazier, ha detto che gli Stati Uniti erano contrari all'invasione etiope, dimenticando forse le sue stesse dichiarazioni di pochi mesi fa, quando assumeva con orgoglio la paternità e la gestione della crisi promettendo islamici spezzati e un futuro radioso per i somali. Smarcamento umiliante per l'Etiopia, che per voce di un generale ha pure ammesso che è vero, il generale americano Abizaid glielo aveva detto che sarebbero finiti come gli USA in Iraq e Afghanistan. Che poi dichiarazioni del genere siano pubbliche ammissioni dei fallimenti americani altrove, poco importa; la coerenza reciproca delle dichiarazioni è un lusso al quale l'amministrazione Bush ha rinunciato da tempo e la sconfitta è sempre orfana.

Il 2007 si chiude con il TFG somalo di nuovo in fuga a Baidoa, con l'esercito etiope impantanato perchè non può abbandonare il TFG all'ira dei somali e con l'arrivo di qualche centinaio di soldati del Burundi, brandello di una minuscola forze di peacekeeping dell'Unione Africana che in un anno ha visto solo due paesi contribuire inutilmente a fornire un quarto degli ottomila uomini promessi. Perchè nemmeno i migliori alleati africani di Bush hanno voluto rischiare di farsi portare al massacro in Somalia. Per i somali nessuna speranza fino a che non sloggeranno gli etiopi, continueranno a morire e a combattere senza dare troppo fastidio all'infotainment.