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Tutto progredisce, anche il male: è la metastasi dello sviluppismo

di Francesco Lamendola - 04/01/2008

 

 

 

Fanno male, i filosofi di professione, a disprezzare le umili pagine di cronaca quotidiana, a cominciare dalla cosiddetta "cronaca nera": è lì che s'imparano un sacco di cose sull'orientamento morale e spirituale del nostro tempo; non sui manuali polverosi e sui virtuosismi dialettici di qualche cervellone universitario (che fa rima con barone).

Qualcuno si ricorda ancora del "caso Curina", che le cronache del tempo ribattezzarono subito "il delitto del catamarano"?

Era il 10 giugno del 198, son passati quasi vent'anni esatti. Filippo De Cristofaro detto "Pippo", ex ballerino di 34 anni, e la sua giovanissima amante olandese, la studentessa diciassettenne Diane Beyer, avevano noleggiato il catamarano Arx, nel porto di Senigallia (Ancona), di proprietà della trentaquattrenne Annarita Curina, per fare una crociera in Adriatico. Ma i due giovani turisti sognavano la Polinesia; e sognavano anche di possedere il catamarano. Così, appena partiti, uccisero a colpi di coltello e di machete l'incomoda skipper e presero il largo. L'imbarcazione (che i due avevano ribattezzato Fly II) venne ritrovata, il 19 luglio, su una spiaggia della Tunisia; i due assassini vennero arrestati mentre tentavano una improbabile fuga verso l'interno, accompagnati da un amico olandese col suo cane lupo.

Da principio la Beyer si assunse tutta la colpa del delitto, dicendo di aver perso la testa per gelosia: disse che la vittima si esibiva nuda e provocava il suo fidanzato. Ma presto gli inquirenti sospettarono che si trattasse di una manovra di De Cristofaro perché la sua ragazza, essendo minorenne, avrebbe avuto una pena relativamente mite. La giuria del processo di primo grado se ne convinse, e il 30 marzo 1990 lo condannò a 30 anni di reclusione; pena che i giudici della Corte d'appello gli tramutarono in quella dell'ergastolo, e che quelli della Corte di cassazione confermarono definitivamente. Quanto alla Beyer, se la cavò con una condanna a 6 anni per concorso in omicidio; e, nel 1992, fu rispedita in Olanda.

Vent'anni fa, dicevamo; fu un caso che fece scalpore. Ogni giorno i giornali, fra giugno e luglio, dedicavano pagine e pagine alla fuga del catamarano attraverso il Mediterraneo e, magari, anche più lontano; il 19 giugno era stato ritrovato, legato a un'ancora, il corpo della Curina, e da quel momento lo sdegno, la rabbia, il desiderio di vendetta infiammarono il pubblico italiano. Quando poi, catturati  gli assassini, fu chiaro che l'unico movente del delitto era stato il cieco desiderio di impadronirsi della barca; e quando, per tentar di alleggerire la loro posizione, gli assassini  cercarono di presentare la vittima come una seduttrice alquanto disinibita, l'indignazione cedette al disgusto, alla nausea. Possibile che la vita umana valga così poco, si chiesero gli Italiani, da poterla troncare per impadronirsi di una barca? E che si possa giungere, pur di ridurre la propria condanna, a infangare la memoria della propria vittima?

E ora facciamo un balzo in avanti e torniamo ai nostri giorni. Torniamo, per esempio, a quella notte del 1° novembre 2007 in cui è stata uccisa, sgozzata, la studentessa inglese Meredith Kercher, di 21 anni, che frequentava i corsi dell'Università di Perugia. Indagati e incarcerati per il delitto, che non sembra aver alcun movente, sono la compagna di appartamento della vittima, la studentessa americana Amanda Knox,    anche lei ventunenne;  il suo fidanzato Raffaele Sollecito, di 24 anni; un ragazzo ivoriano di 21 anni, Rudy Gude (che in primo tempo era scappato in Germania ed è stato poi riacciuffato); e  (a piede libero) il congolese Patrick Lumumba, di 37 anni, proprietario di un pub. L'inchiesta è tuttora in corso e quindi non è il caso di fare considerazioni di carattere giudiziario; ma nulla vieta di svolgere una riflessione di carattere generale sulle circostanze in cui sembra essere maturato il delitto.

Quello che colpisce a prima vista, oltre alla mancanza di un movente, è la disinvoltura con cui, in certi ambienti universitari di tipo internazionale, si fa uso di stupefacenti  e la promiscuità sessuale che accompagna il "fumo". Non è per fare del moralismo a buon mercato, ma si resta interdetti dai continui "non ricordo" che costellano le confuse dichiarazioni degli indagati, a proposito di quelle notti brave dove, a forza di andare un po' oltre, ci si è trovati con il cadavere di una ragazza cui qualcuno ha tagliato la gola; e non si sa perché.

Fra l'altro, lo spaccato sociologico che viene fuori da questa vicenda, cui fa da sfondo il progetto Eramus - che tante scuole e tanti genitori vedono come un ambito di studi molto serio e molto affidabile per i giovani - è di uno squallore desolante. Colpiscono, inoltre, le fotografie che Sollecito e Knox hanno inserito nel loro blog, in cui posano, con aria soddisfatta, armati di mannaia e di mitragliatrice. Fantasie? Può darsi. Ma abbiamo bisogno, in questa povera Italia già immersa fino al collo nella violenza e nella pasticcioneria, di studenti e studentesse che vengono dall'altro capo del mondo nelle nostre università non per studiare, ma per cercare sistematicamente lo sballo, la trasgressione, l'ordinaria follia? Pensiamo che tali studenti potrebbero rimanersene tranquillamente nella loro Seattle o nella loro Londra; non abbiamo bisogno di loro e ne faremmo volentieri a meno. E forse è il caso di ripensare, almeno in parte, a tutto il denaro pubblico che viene destinato a certe forme di viaggi studio internazionali dove, a quanto pare, studiare è l'ultima cosa che abbia importanza.

Ecco dunque il progresso: in una società che viole avere sempre di più, che ha eretto ovunque altari per i sacrifici al Dio denaro, non si uccide più per impadronirsi di una barca; si uccide e basta. Per provare emozioni forti. Come cantava Lucio Battisti negli anni '70: "Tu chiamale, se vuoi, emozioni". Già: le emozioni dei figli di papà che non sanno come ammazzare la noia, perché di emozioni vere non ne hanno mai provate e mai ne proveranno, abituati come sono a dare tutto per scontato e per dovuto. A cominciare dall'ospitalità del Paese e delle università che li accolgono, sulla fiducia, ritenendoli (a torto) persone serie.

Non che si sia persa l'abitudine di uccidere per soldi. Ne sa qualcosa quel Michele Fusaro che, il 12 dicembre scorso, ha rapito, sgozzato, tagliato a pezzi la povera Iole Tassitani, di Castelfranco Veneto. Intendeva chiedere il riscatto - il riscatto di una morta; e, intanto, faceva tranquillamente la sua vita di sempre. Con i pezzi della vittima messi in garage dentro tanti sacchetti per la spazzatura. Tuttavia, sempre più spesso, si assiste a delitti raccapriccianti e inspiegabili, che sono in apparenza  privi di movente. Come quello compiuto da un certo Lorenzo Giacomini, diciottenne milanese che, il 2 gennaio 2008, prima tenta di violentare sua madre, la giornalista e scrittrice Edi Vesco; poi le taglia la carotide con un coltello da cucina, si pulisce, prende il treno, va a Brescia e dice ai carabinieri, con perfetta lucidità: "Arrestatemi, ho ucciso mia mamma; non so perché".

Lo avevamo già scritto, partendo da una riflessione dal caso di Guidonia (nell'articolo Qualcosa sta accadendo che non sappiamo interpretare): è come se le forze del Male si stiano scatenando: la società è in fiamme, sconvolta da una violenza cieca e bestiale che infuria sin dentro le pareti di casa; e noi stiamo qui a disquisire sul sesso degli angeli. Parliamo di un'Italia, di un'Europa che non c'è più, che non esiste; e le nostre classi dirigenti sono più cieche dell'uomo della strada.

Davanti alle ultime, orribili rivelazioni sul delitto di Castelfranco, il vice-presidente della regione Veneto ha dichiarato che i Veneti ripudiano uno come Fusaro; che egli deve solo marcire in carcere. Belle parole; ma non è così: Fusaro - e tutti quelli come lui - come Giacomini, come Sollecito, come Knox - non sono Marziani. Non servono i riti di esorcismo: Fusaro è un veneto, di Bassano: questo è un dato non solo anagrafico, ma antropologico. Non serve dire che i Veneti lo ripudiano: è come chiudere la stalla dopo che i buoi sono fuggiti.

Come è veneto, della bassa veronese, quel Pietro Maso che tanti anni fa massacrò a martellate il padre e la madre per intascare i soldi dell'eredità e che poi, per costruirsi un alibi, andò tranquillamente a passare la serata in discoteca. Uno sempre vestito con eleganza; che passava le giornate al bar con gli amici; uno cui non mancavano i soldi: ma non gli bastavano. Ora la stampa si è ricordata di lui, perché è di nuovo libero e si è fidanzato. Come stupirsi? Già l'indomani del suo arresto, in carcere gli arrivavano montagne di lettere di ammiratori e ammiratrici; soprattutto ammiratrici: gli scrivevano di amarlo, di volerlo sposare.

E veneti sono quei due fratelli di Cimadolmo, in provincia di Treviso, che hanno assassinato la madre per questioni di eredità: entrambi maggiorenni e con un lavoro. Come un lavoro lo aveva Fusaro. Non si parla di delitti maturati nel degrado materiale, ma in quello spirituale. Gente non povera, in alcuni casi benestante. Ma che vuole di più, sempre di più. E che vuole subito; che  non è disposta ad aspettare. Come insegnano gli araldi e i profeti del progresso: soddisfatti i bisogni primari, bisogna passare ai secondari; soddisfatti anche quelli, bisogna incominciare ad inventarsi altri bisogni, sempre più lontani da quelli autentici, dalla vita vera. L'importante non è migliorare la qualità della propria vita; l'importante è poter disporre di sempre più cose e sempre più costose. Che roba da poveracci, passare le ferie al mare vicino casa: la Polinesia ci vuole. Subito. E col catamarano di proprietà.

Il poeta Andrea Zanzotto, di Pieve di Soligo, ha dichiarato al quotidiano Il Gazzettino che non riconosce più questo Veneto. Ecco, questo è già un discorso più onesto: nessuno lo riconosce; ma è diventato così. È cambiato. Come è cambiato il Friuli; come è cambiata la provincia in generale; come sono cambiate l'Italia, l'Europa, il mondo. Tutto sta cambiando, proprio sotto i nostri occhi; e sta cambiando tanto, troppo in fretta. Forse, questo cambiamento sconvolgente non è solo opera dello stordimento da super-benessere; forse c'è qualcosa d'altro; forse siamo le cavie inconsapevoli di qualche malvagio pifferaio che vuol condurci, felici e contenti, verso l'abisso  (vedi i nostri precedenti articoli: Esiste un progetto consapevole per strappare l'anima del mondo? e Lo shock del futuro, banco di prova del nuovo ordine mondiale).

Certo,  i meccanismi della modernità sono in se stessi demoniaci.

Scriveva, già mezzo secolo fa, Yves Congar nel suo libro Spirito e libertà (titolo originale: Si vous êtes mes témoins, Parigi, 1958; traduzione italiana Torino, Borla Editore, 1962, pp. 10-14):

 

"Il mondo nel quale siamo stati chiamati a vivere è caratterizzato da due movimenti che agiscono, contemporaneamente, in senso contrario e si compensano reciprocamente: da un lato l'esaltazione del soggetto individuale e della sua libertà; dall'altro la ricerca della potenza attraverso l'organizzazione e lo sfruttamento dei mezzi di massa e della socializzazione dell'esistenza.

"Da una parte la società moderna tenta di rendere assoluta la libertà individuale; in Francia, particolarmente, l'ideologia rousseiana e giacobina concepisce la libertà come una pura autonomia dell'individuo, come possibilità per ciascuno di fare ciò che gli piace, possibilità limitata solamente dall'equivalente libertà degli altri individui e dalla libertà comune. Dall'altra parte però, l'individuo moderno è in balia della potenza di due colossi: lo Stato e la grande impresa industriale. L'impresa, organizzata su larga base è diventata condizione del benessere materiale, che sempre più dipende dalla macchina.

"Ne derivano quattro conseguenze che condizionano la nostra vita.

"1) l'aspra competizione che fa della vita, ad ogni livello, una lotta spossante per i nervi; l'uomo moderno è iperteso, costantemente alla ricerca di una maggiore velocità per sorpassare il concorrente, per strappare una promozione, per arraffare un titolo che lo ponga in una buona posizione davanti agli altri;

"2) l'assoggettamento continuo ad una propaganda o ad una pubblicità aggressive che vogliono conquistare una clientela di massa, vuoi per un prodotto industriale vuoi per una potente organizzazione ideologica o politica (…): una vera e propria violenza alle coscienze da parte dalla tecnica della propaganda che giunge a paralizzare le facoltà di riflessione e di giudizio personale;

"3) la concentrazione della massa in scuole di larghi mezzi, in grandi officine, in città o grossi agglomerati, che favorisce per se stessa una psicologia di massa;

"4) l'intervento dello Stato, infine, responsabile del bene comune e della popolazione, il quale intervento assume la forma di una pianificazione che si sforza di armonizzare questi potenti fattori, condizioni del benessere umano, in modo razionale e scientifico ove previsioni e controlli sono basati sulla statistica.

"Da tutto ciò ne consegue che gli uomini sono ridotti allo stato di massa; è un fatto più volte messo in rilievo, particolarmente da quel grande storico della cultura che fu Huizinga. Egli riteneva infatti che questa collettivizzazione della vita distoglie l'uomo dalle decisioni della propria coscienza, gli toglie la sua umanità e gli fa seguire le sorti della massa: crudeltà, intolleranza, sentimentalismo, ineducazione, in breve, l'opposto di uno spirito erasmiano umanista e personale.

"Vi è senza dubbio una rivincita dell'individuo, ed è senz'altro forte, ma come si esplica e dove porta?

"L'uomo moderno rischia di essere come spaccato e diviso in due parti, in ciascuna delle quali la sua personalità profonda, la sua libertà spirituale minacciano di inaridire. Rischia infatti di lasciare che la sua vita sia divisa tra la parte di se stesso dedicata alla professione, alla lotta per un'esistenza materiale e difficile, alla programmazione, a quelle attività socializzate che lo riducono allo stato di massa, da un lato, e, dall'altro, ad un contrappeso di svaghi nei quali cerca di rimettersi a posto i nervi.

"Appena gli è possibile l'uomo moderno evade dalle officine e dalle città: parte in automobile, in moto, verso i fiumi, le montagne, il verde. Là sfugge al massimo le costrizioni; ed il simbolo di questo abbandono è allora il suo modo di vestire. Non pensa più a nulla. Ma questa non è anche evasione da se stessi? La sua qualità di uomo, la sua libertà profonda - non quella del corpo, ma quella dell'anima, quella dell'essere responsabile di se stesso - vi trovano un vantaggio? In questo ricercare una contropartita al lavoro nel turismo, al peso dell'impegno quotidiano nel bikini, si rischia di non lasciar posto alla propria persona e persino di non pensar più che vi sono dei valori di spirito, di libertà spirituale, di miglioramento dell'uomo stesso che richiedono di essere rispettati.

"È prendere sul serio tutto l'uomo, applicarsi solo al lavoro e alla lotta per l'esistenza materiale, compensando quanto vi è di abbrutente con delle semplici attività di svago e di evasione?"

 

Mezzo secolo fa, certi fenomeni erano solo in embrione: eppure, Congar li ha visti e compresi alla perfezione. Non si è stracciato le vesti; non ha detto che ripudiava certi comportamenti aberranti: li ha analizzati, si è sforzato di comprenderli. E si è reso conto che i meccanismi profondi della società di massa tendono a spaccare l'uomo in due metà - quella di un lavoro che abbrutisce e quella dello svago come pura evasione - che tradiscono, entrambe, la sua natura profonda e lo indicono a non prendersi sul serio in quanto essere unitario.

Non poteva, però, immaginare che anche lo svago sarebbe divenuto non già una fuga verso il verde e la libertà, ma verso luoghi e forme di alienazione, di nevrosi e di inautenticità ancor più gravi di un lavoro disumanizzante: spiagge affollatissime, discoteche, droga, superalcolici, orge sessuali, atti di criminalità per puro divertimento (come il gettare grosse pietre, dai cavalcavia, sulle automobili che transitano al di sotto).

Questo, ormai, è il pericolo. Che l'essere umano, alienato e derubato della propria essenza profonda, della sua parte spirituale, si riduca a un puro meccanismo alla ricerca di emozioni forti, che gli diano ancora l'illusione di essere, almeno in parte, umano. Che cerchi, nel ricorso a una violenza sempre più insensata e sempre più diffusa, al tempo stesso un narcotico per la propria noia esistenziale e uno stimolante per il proprio inaridimento interiore. Come nel film Arancia meccanica di Stanley Kubrick.

Solo che non è più soltanto un film; è l'orrore quotidiano della nostra società vuota, allucinata, ormai prona nell'adorazione di un progresso che è solo l'altro nome del Nulla.