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Esistono motivi razionali di speranza anche in mezzo alle tenebre del male?

di Francesco Lamendola - 04/01/2008

 

 

 

Abbiamo sostenuto, nel precedente articolo Tutto progredisce, anche il male: è la metastasi dello sviluppismo, che i meccanismi profondi della società di massa tendono a spaccare l'uomo in due metà - quella di un lavoro che abbrutisce e quella dello svago come stordimento e come narcotico - che tradiscono, entrambe, la sua natura profonda e lo indicono a non prendersi sul serio (per usare l'espressione di Yves Congar), in quanto essere unitario.

Le tenebre del male sembrano avvolgerci da ogni parte: sia nella sfera del politico (il 2008 è incominciato con il rogo di decine di persone che avevano cercato rifugio in una chiesa di Nairobi a cui la folla, ebbra di sangue, ha dato fuoco), sia in quella del privato (come nel caso del diciottenne milanese che, dopo aver tentato di violentare la propria madre, l'ha uccisa tagliandole la carotide). È dunque necessario che ci domandiamo se, in questa oscurità che scende come una eclisse di Sole in pieno giorno, vi sia ancora posto per la dimensione della speranza.

Ma che cos'è, esattamente, la speranza?

È solo il pio desiderio di un bene che si vorrebbe conseguire, il bisogno disperato e irragionevole di una salvezza improbabile, che tutte le circostanze sembrerebbero smentire?

O è l'attesa inerte, passiva di un bene che non abbiamo né la forza, né la volontà di perseguire da soli e che un miracolo, forse, potrebbe offrirci a portata di mano?

Insomma: la speranza è l'ultimo rifugio dei disperati o è una virtù virile, fatta di coraggio e di realismo, per cui si è certi, anche quando la neve ha coperto tutte le impronte in un paesaggio invernale livido e spettrale, che tornerà la primavera, fiorirà tutta la campagna e a noi, o a chi verrà dietro di noi, sarà possibile ritrovare la giusta direzione?

Una cosa, per noi, è certa: sperare non vuol dire fantasticare, non vuol dire illudersi e sognare compensi inesistenti. La speranza non è una virtù delle persone deboli e sfiduciate, ma delle persone forti, anche nei momenti di scoraggiamento.

Ma andiamo con ordine e cominciamo dall'etimologia della parola.

"Speranza" viene dal tardo latino sperantia ed è, più o meno, la traduzione del vocabolo greco έλπίς.

La teologia distingue due generi di speranza, quella naturale e quella soprannaturale, che viene dalla Grazia divina.

Scrive Pietro Palazzini alla voce Speranza della Enciclopedia Cattolica (edizione 1953, vol. XI, col. 1.110-1.111):

 

"Il significato primigenio del termine έλπίς è desiderio; sperare è tendere verso un oggetto che ci appare come un bene. La speranza, considerata nel piano naturale, è il desiderio di un bene futuro, arduo ma possibile (Summa Theologiae, 1a-2ae, q. 40, a. 2). Suoi elementi essenziali sono il desiderio e la fiducia. È la tensione di chi non è ancora tutto quello che deve essere, ma ha coscienza insieme della sua imperfezione e della sua perfettibilità.

"la speranza cristiana presenta la medesima struttura; ma la tensione supera la nativa capacità dell'uomo, spingendosi fino al possesso eterno di Dio. Per questo è essenzialmente un suo dono. Infusa nell'anima del battezzato come qualità permanente, insieme con la virtù della fede, la speranza è, sotto il soffio della Grazia attuale, il principio di quella santa inquietudine, che stimola l'uomo, oltre la sua debolezza e le sue colpe, a superarsi continuamente fino a raggiungere il fine supremo."

 

I filosofi del Novecento si sono appassionatamente confrontati intorno al binomio speranza-disperazione, mano a mano che le ombre della modernità (prima fra tutte, l'ombra del fungo atomico) si allungavano inquietanti sulle prospettive del nostro presente e del nostro domani. Né qui ci dilungheremo a esaminare dettagliatamente il principio disperazione di Günther Anders, il principio speranza di Ernst Bloch e il principio di responsabilità di Hans Jonas, perché non vogliamo fare dell'ermeneutica per specialisti, ma una riflessione piana e accessibile a tutti gli uomini di buona volontà.

In particolare, vogliamo domandarci se sia possibile fondare un principio della speranza al di fuori delle sabbie mobili del sentimento (o, addirittura, del sentimentalismo), recuperando sotto i piedi il solido terreno della ragione, come si dice, oggettiva.

La cosa, infatti, è terribilmente seria: viviamo in un'epoca oscura e la Nemesi della civiltà moderna, con gli spettri paurosi dell'angoscia disperante e dell'autodistruzione, sembra ormai dietro l'angolo. Abbiamo quindi non solo il diritto, ma anche il dovere di interrogarci se sia possibile nutrire un ragionevole principio di speranza, senza il quale non resta che il lasciarsi vivere all'insegna della casualità.

Anche il fatto di mettere al mondo dei figli, oggi, è diventata una questione tremendamente impegnativa: sia per le difficoltà legate al crescerli e proteggerli, che fino a un paio di generazioni fa non erano neppur paragonabili a quelle odierne (eccezion fatta per eventi storici circoscritti, come le guerre del passato), sia per le loro stesse prospettive di sopravvivenza e di legittima ricerca della felicità in un mondo sempre più compromesso, a cominciare dai fondamentali equilibri ecologici.

Ebbene, vogliamo dire subito che nutrire in cuore la speranza, nel senso più ampio e trascendente della parola, non è, per noi, una irresponsabile evasione nel Limbo di un sentimento puramente soggettivo, bensì un atto razionale dell'intelligenza, della volontà e dell'essenza più profonda della nostra anima. Non si tratta di "ottimismo", più o meno a buon mercato, perché "ottimismo" e "pessimismo" nascono solo da una coloritura emozionale che noi diamo alla realtà; bensì di una salda convinzione basata sul ragionamento e sull'esperienza e sorretta da argomentazioni di ordine logico, oltre che spirituale.

E la prima di tali argomentazioni, che comprende tutte le altre e di cui tutte le altre non sono che un ulteriore sviluppo, è questa: esiste qualcosa invece del nulla, dunque - al di là dei fenomeni contingenti e accidentali - esiste l'Essere che ha originato questo qualcosa.

Perché, invece del nulla, esiste qualcosa? Noi siamo parte di questo qualcosa; e questo qualcosa è pieno di imperfezioni che ci fanno soffrire, che mettono a dura prova la nostra fede nella bontà del mondo. Tuttavia, non possiamo dubitare che qualcosa esista: perfino se il mondo intero non fosse che un sogno - e forse lo è, dice l'Induismo: un sogno cosmico di Dio -, perfino allora qualcosa esisterebbe: il sogno stesso, di cui siamo parte; il nostro sognare (e sia pure il nostro credere di sognare).

Ma c'è di più.

Noi - lo abbiamo detto - soffriamo per l'imperfezione delle cose e di noi stessi; ci sentiamo divisi e lacerati nella nostra essenza profonda, aspiriamo al bene e, tuttavia, compiamo continuamente il male.

Che cosa significa tutto questo, se non che il bene esiste, anche se continuamente umiliato e negato; e che esso, non il male, è la realtà fondamentale dell'esistente, il costante punto di riferimento della nostra coscienza? Potremmo avvertire questa amara consapevolezza del male e, al tempo stesso, questa bruciante nostalgia del bene, se così non fosse? Se il Male fosse il principio dell'esistente, da dove ci verrebbero questa amarezza e questa nostalgia?

E nemmeno è possibile che l'Essere sia il male, perché il male dà solo male, cioè negazione e privazione di esistenza; e dalla negazione nulla può avere origine, ma solo fine. Se l'Essere fosse il male, non sarebbe più l'Essere, ma il non-essere. E dal non-essere nulla può originarsi, nulla può prendere inizio.

Ancora: se l'Essere fosse il male, il mondo sarebbe un assurdo: assurdo nascere, assurdo vivere, assurdo morire (ed è questa, precisamente, la posizione di tanti scrittori e filosofi del Novecento, in particolare dell'area esistenzialista).

Ma, se esiste l'assurdo (e certamente esiste), non può essere però il fondamento delle cose, il fondamento dell'esistente: dunque non può essere l'Essere. L'assurdo, per sua stessa natura, non può costituire la base dell'intera realtà, per il semplice fatto che l'assurdo non è qualche cosa di positivo, bensì mancanza e privazione (di senso, di logica, di moralità); e la coscienza che riconosce l'assurdo come tale, riconosce che la privazione non può essere il fondamento logico delle cose, non può identificarsi con l'Essere.

Altrimenti, su che cosa poggerebbe l'assurdo? Saremmo costretti a una regressio ad infinitum, come nella cosmologia mitologica dell'elefante e della tartaruga. Se l'Universo poggia su un elefante che, a sua volta, poggia su una tartaruga, su che cosa poggia la tartaruga? E così via, sempre all'indietro, senza mai una fine.

Questo concetto è bene espresso da Enrico Zoffoli nel suo libro Problema e mistero del male  (Torino, Casa Editrice Marietti, 1960, pp. 41-42):

 

"Ritenere che la realtà è radicalmente, universalmente e irrimediabilmente assurda, equivale ad affermare che il male è qualcosa di positivo, per sé sussistente, anteriore ed autonomo rispetto a tutto il resto che, secondo l'ipotesi, non sarebbe che vano. Si ricade, così, nell'errore manicheo, che avendo ipostatizzato il male, lo ha negato e ne ha perduto la più elementare nozione.

"E, infatti, se alla radice o base ultima delle cose troviamo il male, si deve anche concedere che questo precede e fonda la realtà delle medesime; ma noi, così, sfociamo nel nulla, perché un male totale e radicale è totale e radicale negazione. Ora, il nulla dà il nulla, sul nulla non regge nulla, neppure la illusione…

"In altri termini, se la contraddizione colpisse la coerenza intima, ossia negasse l'identità del reale e con se stesso al punto da costituirne l'unico substrato primo e irriducibile, dovremmo anche supporre che la negazione dell'essere fonderebbe l'essere…; e negazione dell'essere è infatti il difetto d'identità dell'essere con se stesso, ossia la contraddizione immanente nella sua struttura profonda.

"Oppure: il male, se è privazione di bene, è necessariamente posteriore al medesimo perché condizionato dal bene. Dunque:

"se c'è qualcosa ,ci può essere anche il male; ma se tutto è male, non c'è niente, perché il male totale è negazione totale…;

"se c'è il male, è segno che c'è anche il bene; e, nel caso, il male non è solo insieme col bene, ma altresì per il bene, suo esclusivo e ineliminabile soggetto…;

"la gravità del male non è mai pari e tanto meno maggiore dell'eccellenza del bene.

"Il primato del bene, dunque, è assoluto e pacifico, come il primato dell'essere che, essendo identico a se stesso,  esclude la contraddizione e fonda l'essenziale intelligibilità e bontà delle cose.

"Pertanto il pessimismo, che si spinge fino a negare la Provvidenza intesa come Razionalità pura, affermando l'irrazionalità del Tutto, è insostenibile: per noi è semplicemente assurdo porre l'assurdità alla base stessa dell'essere. Per esser logici, dovremmo negar tutto, compresi noi stessi coi nostri problemi e quanto in qualsiasi senso e misura provoca la nostra insofferenza… Col pessimista non si può neanche ragionare sul perché del male. Esagerandolo, egli lo nega…

"Suppongo che Tutto sia realmente, radicalmente, disperatamente assurdo.  Dunque, anche la ragione è tale. Ma, questa, se è assurda, come può avvertire l'assurdo, parlare di assurdo, respingere l'assurdo?… Se l'osserva, lo giudica e non intende rassegnarvisi, è segno che almeno essa, nel suo fondo più riposto ed autentico, è fuori e sopra l'assurdo: la ragione è vera, coerente, luminosa Che, se non fosse tale, come potremmo fidarci della fondatezza delle sue proteste e accettare le sue conclusioni?… Solo il razionale avverte l'irrazionale; solo chi è nella verità, scopre l'errore. Il quale non può mai conoscere se stesso come errore: chi vi cade, riconoscendolo, già se ne libera."

 

Certo vi sono state anche alcune anime grandi, come Giacomo Leopardi (specialmente nel suo Inno ad Ahrimane), che sono cadute in tale errore; che, sopraffatte dallo spettacolo del male, hanno finito per concepirlo come il fondamento della realtà. Ma la contraddizione logica è evidente.

Attenzione: non vogliamo negare che il male esista e che sia anche una realtà sussistente e personale; lo abbiamo, anzi, ripetutamente sostenuto e continuiamo a mettere in guardia dal sottovalutarne lo spessore ontologico. Il Male, cioè, non è solo (come pensava sant'Agostino),  assenza di bene; esso è anche assenza di bene. Ma ha un suo principio autonomo; che, tuttavia, non è e non può essere - lo abbiamo appena visto - il Principio; e non può, in alcun modo, costituire l'Essere.

Il Male esiste, ma è subordinato all'Essere, sia logicamente che ontologicamente. E, di conseguenza, anche eticamente.

Nonostante le apparenze, il Male non ha e non potrebbe avere, in alcun caso, la stessa forza del Bene. Perché il Bene è l'Essere - l'Essere per cui le cose esistono, invece del nulla - e il male non è che una delle manifestazioni dell'esistente. Non è un principio indipendente e sovrano, ma gode solamente di un certo grado di autonomia.

Perché, non lo sappiamo.

È un grande mistero, che ci ispira - direbbe Kierkegaard, sulla scia di san Paolo - un reverenziale timore e tremore.

E che ci sgomenta, anche, a volte; ci fa vacillare e sembra sul punto di disperdere il nostro coraggio e la nostra speranza.

Ma la speranza non può mai morire, perché costituisce la primizia dell'Essere: ogni ente, giunto all'autocoscienza, ne è pervaso e illuminato.

Perciò, coraggio!

Nulla di quanto accade, per quanto cupo e drammatico ci possa apparire, giustifica la perdita del principio di speranza, che rischiara il nostro cammino anche nelle notti più buie e tormentose.