Modulor è una scala di proporzioni basate sulle misure dell’uomo inventata dall’architetto svizzero Le Corbusier
N el 1951 la Nona Triennale di Milano celebrò un convegno dal singolare titolo: La divina proporzione. Nelle incertezze e anche nell’ottimismo del dopoguerra si cercava di indagare sulla possibilità o perfino la necessità di attenersi a un sistema riconoscibile di proporzioni in architettura e, più ampiamente, nelle arti. C’erano personaggi del calibro di Le Corbusier e Rudolf Wittkower, le anime trainanti del convegno, partigiani dichiarati della proporzione. Ma c’erano anche architetti e artisti, storici e critici d’arte, matematici e filosofi, grandi nomi tra di loro a fianco di giovani studiosi come lo era allora James Ackerman. Si dissero cose importanti, non si ritenne di aggiornarsi a un nuovo incontro e l’intera riflessione rimase sepolta Una dimensione «divina», la ricerca di un equilibrio magico che rivive nel ’900 negli archivi della Triennale fino ad oggi, quando appare, curato da Anna Chiara Cimoli e Fulvio Irace, il volume degli atti (Electa, 276 pagine, 28 euro). Il titolo era mutuato dal libro che il matematico Luca Pacioli pubblicò proprio a Milano nel 1489, nel quale l’aggettivo divina indicava la convinzione che i rapporti di proporzione insiti nella natura fossero progetto e opera del Creatore e che la proporzione 'artistica' si ponesse come via dell’aspirazione universale a una perfezione estetica, morale. Platone e Pitagora hanno segnato anche in questo aspetto la civiltà occidentale, impostando un modo di raffigurare e prima ancora di guardare. Il primo con il richiamo a elementi geometrici, il secondo con rapporti numerici. Più platonico il medioevo (i pupazzi di Honnecourt o gli schemi delle cattedrali riducibili a triangolo o quadrato), più pitagorico il rinascimento (i rapporti di Alberti o la polifonia cinquecentesca), vivono entrambi della stessa convinzione: la bellezza è fondata sulla proporzione, e questa si trova in natura. Agostino aveva detto che per la ragione «non ha valore se non l’armonia ( pulchritudo) e nell’armonia le figure e nelle figure le misure e nelle misure i numeri». Bisogna arrivare al XVIII secolo per cambiare registro. Edmund Burke nel famoso A Philosophical Enquiry… del 1712 poneva la categoria del sublime come nuova risorsa estetica: la reazione emotiva a ciò che è incommensurabile, incontrollabile, selvaggio, pericoloso. A seguire, l’artista diventerà refrattario al canone o crederà di essersene liberato, perfino nei periodi più accademici dell’Ottocento. C’era qualcosa di vero nell’impostazione degli antichi? Nel convegno del ’51 Matilda Ghynka poneva una questione a mio avviso fondamentale: certe proporzioni, come la simmetria pentagonale o la sezione aurea, si trovano negli esseri viventi; nelle formazioni cristalline abbondano le simmetrie esagonale e quadrata. Com’è che il mitico 0.618… o sezione aurea si ritrova dappertutto, dal micro al macroco-smo, così come ritorna spesso nelle soluzioni tecniche più avanzate? E’ solo un esempio delle molte proporzioni di natura. Qui non parla del Creatore ma della scienza. Ora, se l’uomo fa parte di questo stesso cosmo, non è da considerare che i suoi sensi siano, per così dire, predisposti a percepire un certo tipo di armonie 'naturali'? Ne era convinto Le Corbusier, con la sua poetica dell’angolo retto e il suo Modulor, nuova versione dell’uomo leonardesco attraverso il quale intendeva fondare i nuovi rapporti. Apparentemente all’opposto, Gaudì cercava nella natura (i famosi alberi maestri d’architettura) le chiavi per le sue originalissime forme. Le Corbusier si diceva convinto che Gaudì fosse tra i più grandi architetti mai esistiti, mentre questi considerava il giovane collega svizzero buono a fabbricare scatole di sapone. Ma il loro atteggiamento era così diverso? Gaudì sembra sbilanciato verso il sublime, l’irrazionale. Sembra. Perché i suoi paraboloidi sono complesse misure geometriche… ottenute spesso per via empirica. L’esaltazione ortogonale di Le Corbusier per conto suo non sempre tiene conto dei propri principi. Quando i suoi progettisti gli dicevano che certe soluzioni non si potevano ottenere con il Modulor, egli rispondeva: «Del Modulor, me ne infischio!». E basti pensare alla copertura meravigliosa della Cappella di Ronchamps. Cosa allora? Semplicemente: non sono le misure a fare dell’opera un opera d’arte, ma quel in più d’incommensurabile che solo l’artista darà. Ma al tempo stesso le opere che rimangono belle nel tempo hanno una salda ossatura di rapporti ben calcolati. Certe architetture di Ludwig Mies van der Rohe sembrano fatte ieri, i quadrati di Mondrian vengono imitati da marche commerciali ancora oggi, e via citando. Non si sta parlando quindi di classicismo né di canoni, ma di armonie di cui forse non si può fare a meno. Nelle contorte architetture di Frank Gehry non è difficile rintracciare la sezione aurea.
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