United debits of America
di Ugo Bertone - 05/01/2008
Non bastavano i subprime, ora anche le carte di credito rischiano di fare “sboom”
A Manhattan un avvocato ha inventato un sistema per ripulire i debiti con altri debiti
L’
importante, di questi tempi, è esserpiù Fico, sempre più Fico. No,
non è la pubblicità di una palestra, pardon,
fitness center, di borgata dopo gli
eccessi natalizi. Per le famiglie americane,
ai tempi della grande crisi del
credito Fico, è un programma elettronico
di gran successo sviluppato dalla
Fair Isaac Co. (di qui il Fico) per dribblare
con successo tutte le astuzie degli
emittenti delle carte di credito per cogliere
sul fatto il truffatore o, cosa ben
più comune, il debitore debole, che ha
esaurito il suo ossigeno finanziario. Oppure,
ed è il caso più comune, un’enciclopedia
dei trucchi leciti per alzare il
proprio punteggio davanti alle banche
evitando di far schizzare gli interessi.
Perché il sistema è spietato: i più poveri,
in quanto soggetti a rischio, pagano
di più. Don’t worry: per soli 47,95 dollari
ti puoi abbonare allo “score simulator”,
che ogni trenta giorni ti aggiorna
un po’ su tutto, dai tuoi diritti alle decisioni
dei giudici in tutti gli States, compresi
gli abusi degli avvocati di “quelli
di Wall Street”. Un modo, insomma, per
proteggere la tua patente a punti di debitore
dalle brutte sorprese.
Eh sì, sa quasi di guerra clandestina,
seppur solo a suon di carte bollate, l’atmosfera
che si respira nelle case del
fante glorioso dell’economia globale: i
consumatori americani, quelli che, trimestre
dopo trimestre, hanno consumato
sempre di più dal 1981 a oggi, trascinando,
in pratica da soli, il miracolo
dell’economia globale: dal decollo del
Giappone a quello di Cindia, dal boom
del made in Italy a quello di Mercedes
o Bmw. Oggi, i fantaccini eroici della
globalizzazione, quelle famiglie che nell’Ottanta
risparmiavano il 12 per cento
del reddito, oggi spendono più di quel
che guadagnano, hanno, forse, esaurito
le ultime munizioni. E si difendono come
possono, in mezzo alla giungla dei
subprime o, se preferite, nella Tikrit
traversata dai razzi delle credit cards.
Mentre spuntano dalla frontiera quei
fenomeni della prateria, metà Rambo,
metà doppio Rum (quello dei fumetti di
Blek macigno, per chi era bambino nei
mitici Sessanta) che hanno fatto la storia
del West. Di quel ceppo fa senz’altro
parte l’avvocato Ted Stearns di San Diego,
California, salito all’onore delle cronache
per aver lanciato, alla vigilia di
Sant’Ambrogio, il sistema infallibile per
“alzare il tuo punteggio” davanti al giudice
più implacabile: gli emittenti delle
carte di credito. E’ l’uovo di Colombo:
hai raggiunto il tuo tetto di spesa? No
problem. Rivolgiti alla TradeLine (unico
azionista Stearns) e per soli 1.199 dollari
ti verrà restituita la tua verginità di
debitore. In meno di una settimana, potrai,
infatti, acquistare vecchi debiti,
saldati alla perfezione, da aggiungere
alla tua storia bancaria. Con il risultato
di presentarti con un buon biglietto da
visita ad un nuovo sportello.
Una truffa? Oddio, lo stesso Stearns
non garantisce al cento per cento che la
cosa fili liscia. Non a caso ben si guarda
dal citare il nome delle banche che hanno
aderito al suo sistema. Men che meno
risponde alla domanda se i “debitori
buoni” ricevano o meno una mancia
per la cessione dei loro debiti onorati fino
all’ultimo cent. Ma, da buon avvocato,
Stearns ha già pronta l’arringa per
gli inevitabili processi. Primo, il sistema
della cessione del debito buono è adottato,
senza obiezioni, nel mondo del big
business. Perché negarlo ai milioni di
americani che rischiano di restar senza
tetto per la crisi dei subprime e il crollo
dei prezzi degli immobili a loro venduti
a caro prezzo? “La vera truffa – declama
ai giornali – l’hanno subita i miei
clienti: gente semplice, cui hanno rifilato
dei mutui capestro. Andate a spiegare
a questa gente che i truffatori sono
loro, quelli tre anni fa hanno comprato
casa e oggi rischiano di finir sul marciapiede”.
Diavolo di un avvocato, maestro
del “piggy backing”, l’arte di moltiplicare
il credito facendo spuntare altri debitori:
hai un figlio appena uscito dalle
superiori? O una vecchia zia appena arrivata
dal Messico? Bastano 100-150 dollari
a Stearns e ci pensa lui a farsi consegnare
una carta di credito nuova di
zecca per allargare il fido familiare. No,
non è ancora l’eroe della California, mister
Stearns. Ma rischia di diventarlo
perché qui, come a Miami, in Arizona o
a Las Vegas, la crisi immobiliare pesa
per davvero. Vista dal punta di vista di
Arnold Schwarzenegger e dei colleghi,
questo vuol dire 6,6 miliardi di dollari
in meno di entrate fiscali. Visto dai cittadini
di Los Angeles e San Francisco,
questo equivale a 14 miliardi di valore
bruciati in 8-9 mesi: peggio dell’incendio
della scorsa estate. E lo sboom non
è virtuale, come potrebbe suonare alle
orecchie degli italiani, gente che ha scoperto
il mutuo pochi anni fa e che nemmeno
si sogna di ipotecar l’abitazione di
famiglia per finanziare i propri consumi.
In America è tutta un’altra musica:
ogni dollaro in meno sul valore della casa,
spiega Michael Mandell, capo economista
di Business Week, vogliono dire 9
cents in meno di consumi per ogni famiglia.
Ovvero, dopo il salasso del mattone,
in California c’è un miliardo in meno
da spendere. Se l’anno prossimo il
patrimonio immobiliare degli Stati Uniti,
calcolato sui 21 mila miliardi di dollari,
perderà il 10 per cento del valore,
gli americani, in pieno anno elettorale,
scopriranno di dover rinunciare a 2 o
300 miliardi di consumi. Senza però trascurare
il fatto che tante cose, dall’istruzione
universitaria dei figli, alle assicurazioni
sanitarie, che fanno parte del
welfare all’europea, vengono classificate
oltre Oceano sotto la voce consumi.
Una voragine di spese che, dal 2000 a
oggi, è stata compensata da 340 miliardi
di dollari presi a prestito dalle famiglie
sul valore della casa, costantemente in
crescita.
A questo punto, insomma, la faccenda
si fa assai più spessa di una crisi periodica
ciclica dalle parti di Wall Street.
O della crisi, in sé già seria, del mercato
immobiliare. Il contagio, infatti, è già
più profondo. Metti il caso dell’auto.
Quello, ad esempio, dei signori Jennifer
e Bobby Post, storia di prima pagina a
San Silvestro sulle colonne del “Los Angeles
Times”. Solo un anno fa i due pensavano
di aver fatto l’affare del secolo
cedendo, in cambio di una Ford F-350
turbo diesel nuova di zecca il loro Suv
Chery Suburban del 2001. Il prezzo? No
problem. Anche se mancavano ancora
9,500 dollari da pagare sulla vecchia
macchina il venditore avrebbe girato il
debito sul nuovo contratto. Senza aumentare
la rata sul prestito, 700 dollari
al mese, giunto nel frattempo a 44.276
dollari. “ Non mi rendevo conto in che
guaio mi stavo cacciando” geme ora la
signora Jennifer. Ma le è andata meglio
che a Cindy Gephardt, segretaria, sposata
con due figli. La febbre di cambiar
macchina le ha giocato un brutto scherzo:
dopo aver cambiato cinque modelli
in tre anni, si ritrova oggi ad avere un
debito di 43 mila dollari contro due
macchine che, messe assieme, non arrivano
a 30 mila. “E quando ho provato a
rinegoziare il mio mutuo – singhiozza
davanti al cronista del Denver Post – mi
hanno risposto picche, proprio per quei
debiti”. Ben gli sta, diranno i supporter
di Visco piuttosto che i nostalgici dei sani,
frugali principi. Ma fino a che punto
l’industria a quattro ruote, costretta a
far marciare gli impianti a pieno regime
pur di far fronte al debito verso la sanità
o la previdenza sociale non ha favorito
le smanie delle tante Gephardt d’America?
Secondo la Consumer Banker
Association ormai il credito per l’auto
copre il 99 per cento degli acquisti negli
States. E c’è chi garantisce il 100 per
cento del prezzo, chi arriva al 125. Addirittura,
per assurdo che sia, c’è chi offre
in prestito il doppio del valore, purché
si compri la macchina. E si apra un rapporto
di debito comunque costoso. Spesso
troppo costoso.
Una piccola sosta, prima di addentrarci
nella giungla delle carte di credito
e delle tante stranezze di un sistema
che, in questi mesi, invoca leggi più
severe contro la bancarotta dei cittadini
che non pagano; ma che, da ottobre
a oggi, ha moltiplicato gli sforzi per acquisire
nuovi clienti, per taroccati e
spiantati che siano: 5 miliardi di messaggi
di pubblicitari, sì, un miliardo e
mezzo in più dell’ultimo trimestre del
2006, via tv, e-mail, buca delle lettere o
cartelloni all’ingresso della subway.
Perché di mutui e credit card, tanto rischiose
ma tanto redditizie, il sistema
americano non ne vuole né può fare a
meno: come fare, del resto, a rovesciare
una piramide di 915 miliardi di dollari
di debito (poco meno del 50 per
cento del pil italiano) diffuso in tutte le
famiglie che, in media, hanno cinque
carte di credito per ciascuna? Una piramide
che si regge, nonostante tutto,
sulla fiducia perché, in media, ogni
americano con una carta di credito in
saccoccia merita un credito di 12,192
dollari. Resta il fatto che quell’edificio,
oggi, trema di fronte alla crescita delle
insolvenze e delle frodi. O, più ancora,
sulla rabbia dei cittadini che, al momento
di pagare il conto, scoprono che
è assai più salato di quanto previsto. Di
qui alcune domande d’obbligo: lo tsunami
del debito significa recessione?
Per Alan Greenspan, vecchia volpe, le
probabilità stanno a 50 contro 50. Non
va molto più in là il New York Times
con un titolo che è un programma (“La
terra dei tanti se e ma…”) da cui si
evince che, comunque vadano le cose,
la crescita delle insolvenze (il 4,3 per
cento in più ad agosto, probabilmente
peggio dopo), il numero di case invendute
(più di due milioni) e il calo dei
prezzi delle case (almeno un altro dieci
per cento) qualche guaio grosso lo
provocherà. Recessione? Forse sì, forse
no. David Rosenberg di Merrill Lynch
storce il naso: mica siamo negli anni
Trenta, dice. Ma nel 2008, e anche
dopo, gli americani rischiano di ricevere
brutte sorprese ogni volta che apriranno
la posta o un’e-mail. Forse George
Bush si congederà con un nuovo regalo
fiscale, ma è dubbio che possa bastare
a restituire buonumore e voglia
di spendere ai tempi della recessione
temuta. Già, la parola non è più tabù,
come dimostra il fatto che “Time” ha
dedicato una cover story al tema, rispolverando
Robert Shiller, lo storico
dell’economia che si fece un nome coniando,
a metà anni Novanta, l’espressione
“Esuberanza irrazionale”, ripresa
da Greenspan (che ben si guardò,
però, dal frenare la corsa del Nasdaq).
Shiller, che dal 2001 non ha smesso di
vaticinare disastri un po’ ovunque, torna
a vivere un momento di gloria: le caratteristiche
dello “sboom” ci sono tutte:
quotazioni gonfiate, acquisti fasulli,
crescita geometrica delle nuove abitazioni,
soprattutto nei punti caldi, come
Miami e Las Vegas. Infine, la scriteriata
politica del credito facile a tasso zero.
La sintesi? Una recessione destinata
a durare almeno per la prima metà
del prossimo mandato presidenziale.
Diverso, anzi opposto il parere di David
Kotok, alla guida di una società di
consulenza, la Cumberland Advisors,
che gode di gran credito. Anche Kotok
pensa che il salasso per il settore immobiliare
sarà ancora pesante. Ma il
contagio al resto dell’economia può esser
evitato perché la Fed, dopo gli errori
iniziali, ha capito la lezione della
Bce: e così, in barba al parere degli accademici,
è chiaro immetterà sul mercato
tutta la liquidità che ci vuole per
riportare il mercato alla normalità, riportando
sotto controllo il Libor, il tasso
su cui si calcolano gli interessi di
una massa sterminata di prodotti finanziari
per la cifra iperbolica di 150
mila milioni di dollari. Lo stesso, a
questo punto, accadrà all’Euribor, il
tasso interbancario che ogni mattina
viene calcolato sulla domanda e offerta
di una cinquantina di banche europee
e che minaccia di rovinare i sonni
di tanti italiani con un mutuo a tasso
variabile in saccoccia.
E qui arriva la seconda domanda:
che effetto può avere questa grande sarabanda
di carte “revolving” (una sorta
di fido tacito, concesso in automatico ai
detentori di una carta di credito) sulla
nostra vita di italiani, ex grandi risparmiatori?
E ancora: certe cose capitano
o possono capitare anche da noi? Facile
la prima risposta: da un quarto di secolo
non esiste boom o, più semplicemente,
crescita senza il volano dei consumi
americani. Può darsi che l’atteso
decoupling stavolta si verifichi, magari
per merito di Cindia. Ma è meglio non
fidarsi. Quanto al punto due, beh, è più
che probabile che l’avvocato Stearns
troverebbe una bella clientela anche
nel bel paese. Ma di cose da fare ce ne
sono tante, anche troppe nell’America
che si sente presa in giro, anzi tradita
dai banchieri di Manhattan. E che si
farà sentire in vista di elezioni che verranno
decise, a dar retta ai sondaggi
più recenti, più dai subprime che dalla
crisi irachena. Anche perché, a lato
della crisi, sta emergendo che i banchieri,
quelli che riempiono le pagine
dei giornali finanziari con i loro bonus
a otto zeri (basti pensare ai 210 milioni
incassati da Stan O’ Neal di Morgan
Stanley), i quattrini li hanno fatti senza
andar troppo per il sottile. Prendiamo
il caso della signora Bonnie Rushing, titolare
di una carta di credito rilasciata
dalla Bank of America. La signora Rushing,
usata a mo’ d’esempio dal senatore
Carl Levin del Michigan durante
l’audizione parlamentare dei boss delle
carte di credito (tra cui la stessa
Bank of America), è sempre stata una
cliente fedele, puntuale nei pagamenti.
Con sua grande sorpresa, però, ad aprile
l’interesse sulle spese della sua credit
card è balzato dall’8 al 23 per cento.
Il motivo? Forse perché la signora aveva
aderito a due promozioni commerciali
che imponevano, per aver diritto a
uno sconto sui prezzi, di sottoscrivere
altre carte di credito. Il forse è d’obbligo
perché in banca nessuno ha voluto
offrire spiegazioni. Ed è andato peggio
con AAA, la società di gestione della
carta. “Mi hanno minacciata – ha scritto
miss Rushing, magari calcando la
mano – Quando ho chiesto che cosa dovevo
fare per chiudere il contratto hanno
cominciato a far insinuazioni sullo
stato delle mie finanze, le abitudini di
mio marito. Come avrei fatto a pagare i
conti delle altre carte e così via…”. Insomma,
dopo quell’audizione l’immagine
di Bank of America (uno dei cinque
grandi che coprono l’80 per cento del
mercato americano) è precipitata ai
minimi. “Ma io non intendo cambiare
politica – ha replicato Bruce Hammonds,
il responsabile del settore della
banca – Se rinunciassimo al sistema
del punteggio complessivo per mappare
i clienti, andremmo a picco subito.
Sarebbe come usare un metal detector
senza le batterie…”.
Sarà, ma al solito il sistema sembra
efficace per salassare i clienti più tranquilli.
Assai meno per contrastare le armate
del debito, quelle che, per dirla
con “The Motley Fool”, diffusissima rivista
online dedicata a tutto quanto fa
money, intendono sfruttare la vera miniera
dell’oro: tutti quei soldi, circa duemila
miliardi di dollari, che il sistema
delle carte di credito ha messo a disposizione
dei consumatori e che non sono
stati utilizzati. Studenti, casalinghe,
commessi di Wal Mart fatevi sotto, è l’invito
di Motley Fool, perché “l’America è
il paese della libertà, della giustizia e di
una linea di credito per tutti”, non solo
per chi si può permettere una platinum
card, tanto credito, interessi all’osso. C’è
spazio anche per i subprime, nati a
metà degli anni Novanta, ovvero i crediti
garantiti a chi non ha una storia finanziaria
alle spalle o, peggio, si porta sul
groppone fallimenti o altre disgrazie. E’
stata una rivoluzione vera, anche se non
capita: oggi una carta di credito su cinque,
più di 70 milioni in tutto, è un credito
subprime, concesso a gente con un
punteggio sotto i 500 punti. Gente che
può spendere tra i 100 e i 500 dollari al
mese con interessi, che si vanno a cumulare
al debito, nell’ordine del 30 per
cento o anche più. Altro che “credit
crunch”: “No, non stupisce che, dopo un
po’ di anni con questa musica, le famiglie
americane abbiano qualche motivo
di preoccupazione. E voglia di affilare
le armi, se non si rivelerà efficace il piano
casa che l’Amministrazione Bush ha
messo a punto per evitare gli sfratti di
massa. Anzi, in molti tribunali la guerra
dei mutui subprime è già cominciata:
dall’Alaska al New Mexico migliaia di
“sfrattati” fanno ricorso al Chapter 13
della legge fallimentare, cioè quell’articolo
che consente al debitore moroso di
restare sotto un tetto, in attesa di ridiscutere
un piano per ripianare il debito.
E i più ardimentosi, invece di difendersi,
vanno all’attacco. La prossima
eroina di Hollywood potrebbe essere
Katherine Porter, docente di Diritto all’Università
dell’Iowa. E’ stata lei a
smontare in tribunale il meccanismo di
un tipico subprime, analizzando spese
occulte, commissioni per la riscossione,
costi esosi caricati sui clienti. Il risultato?
In un caso un mutuo di 60 mila dollari
si era trasformato in un malloppo
da un milione di dollari. E in Louisiana,
proprio alla vigilia di Natale, un giudice
ha imposto a Wells Fardo di restituire
al cliente 24 mila dollari, quasi la
metà del debito denunciato. Basta così,
perché i casi sono destinati a moltiplicarsi
all’infinito. E ad assomigliare alle
sorprese negative di tanti sottoscrittori
nostrani di leasing all’apparenza generosi
o al dramma di tante piccole imprese
finite nella morsa dei derivati, costrette
a sottoscrivere contratti di “protezione
dal rischio” che si sono rivelati
trappole infernali. Quel che conta è capire
che negli Stati Uniti, anno 2008, è
in atto qualcosa di più di uno “sboom”,
tipo quello della tecnologia fine millennio.
Ma qualcosa di più, che impone
una grande azione politica, capitali (anche,
se non soprattutto quelli dei fondi
sovrani cinesi o arabi) e l’abilità dei
grandi leader, come Wall Street o Main
Street sanno trovare nei momenti più
delicati. Nell’attesa, le cattive sorprese
possono essere in agguato. Nei posti più
impensati, come Narvik, Norvegia, a
due passi dal Circolo polare artico, il
sindaco ha avuto la bella idea di investire
i risparmi del comune in un fondo di
Citigroup legato ai subprime: sono andati
in fumo 21 milioni di dollari. Mica
male per una cittadina di 18 mila abitanti.
Chissà, forse la signora Margrete
Kuvase si rivolgerà all’avvocato Stearns.
Lui saprà cosa fare. Magari chiedere
una carta di credito anche per le renne.