Cominciato con un trionfo, il 2005 di George Bush si chiude in una situazione che se non è disastrata poco ci manca. L'inizio era stato fulminante. Il responso elettorale delle macchine elettroniche era stato così nettamente in suo favore, a novembre, che nessuno aveva trovato il coraggio (o la forza) di investigare a fondo sui circa quattromila «episodi strani» avvenuti nei seggi elettorali di tutto il Paese. Così lui si era felicemente reinsediato alla Casa Bianca, aveva pubblicamente ringraziato l'«architetto» della sua vittoria Karl Rove ed aveva perfino invitato i democratici sconfitti a «collaborare», non tanto come un politico che vuole unire quanto come un sovrano che vuole essere magnanimo. Del resto poteva permetterselo. Non solo era stato rieletto, stavolta «legittimamente»: aveva anche visto consolidarsi il potere repubblicano al Congresso con 65 senatori contro 45 e 231 deputati contro 202. Posso fare quello che voglio, deve essersi detto allora, e chissà che non sia stato proprio quel senso di onnipotenza a fargli compiere i tanti passi falsi che hanno finito per fare di quello appena concluso il suo anno nero. Nulla indica il suo «complesso del sovrano» più delle due sconfitte più cocenti: la privatizzazione delle pensioni e la nomina a giudice della Corte Suprema di Harriet Miers.
Nel primo caso è partito in quarta, indicando la riforma pensionistica come una cosa per cui sarebbe «passato alla storia», senza consulare nessuno e senza fare dei conti seri, accontentandosi del parere di quei pochi che hanno «accesso» alla sua persona e che sanno benissimo ciò che devono e non devono dire se vogliono conservare quel privilegio. Nel secondo caso ha preteso di inviare al massimo organo della magistratura americana, quello che vigila sulla costituzionalità delle leggi e dei comportamenti dell'autorità politica, una signora il cui unico merito era di essere stata il suo avvocato personale, di avere guidato la lotteria nazionale del Texas e di esserle tanto devota da ripetere continuamente in giro di non conoscere nessuna persona «più intelligente di George Bush». Un vero cavallo di Caligola. Tutte e due le cose sono finite miseramente, ma invece di chiedersi che cosa non aveva funzionato lui ha preferito far finta di nulla, dando disposizioni di parlarne il meno possibile.
Nel periodo racchiuso fra quei due episodi i rovesci di Bush non hanno fatto che accumularsi uno sull'altro. La guerra in Iraq, entrata nel suo terzo anno, è sistematicamente aumentata di intensità, ha cominciato a incidere duramente anche sulle perdite americane, il che rendeva sempre più difficile contare sulla disinformazione per vantare i «successi» che nessuno vedeva ma che in verità pochi, almeno fino alla metà dell'anno, osavano denunciare per quel che erano: balle. Fino all'estate, infatti, la maggior parte dei media americani erano ancora molto timorosi di «danneggiare le truppe». Tutti ormai sapevano che per invadere l'Iraq era stato montato un castello di menzogne, nessuno ignorava il «problema torture», la storia delle «rendition» (i detenuti trasferiti dove li si poteva torturare senza tante storie) era già uscita fuori, ma pochi davano a tutto ciò il risalto che richiedeva. In compenso - forse per salvarsi la coscienza - durante l'estate i media avevano dedicato molta attenzione al «fenomeno Cindy», cioè la «mamma del soldato morto» Cindy Sheehan che per porre a Bush una domanda semplice e terribile - «perché il mio Casey è morto a 23 anni?» - era andata a «importunarlo» al suo ranch in Texas, lì lo aveva «assediato» costringendolo a ricorrere a «strategie» un po' buffe un po' miserabili per evitare di incontrarla e rovinandogli le vacanze.
Il momento di svolta avviene proprio alla fine di quell'estate scomoda, con l'uragano Katrina. Mentre New Orleans affonda, Bush continua la sua vancanza nel ranch. I suoi uomini lo avvertono che l'evento è di enorme gravità, ma lui contnua a non capire. Alla fine Andrew Card, il suo genuflesso capo dello staff, decide almeno per un momento di riassumere la posizione eretta: si fa montare un dvd con tutti i reportage televisivi da New Orleans, lo mostra al suo capo e lui finalmente si scuote. Ma è troppo tardi. L'indignazione popolare è enorme. L'inettitudine della Fema, l'ente federale che serve proprio a far fronte ai disastri e che è stato praticamente assente, la fa montare ancora di più e la scoperta che Bush aveva messo a capo di quell'ente un signore che aveva raccolto molti fondi elettorali ma la cui esperienza si limitava alle corse di cavalli la fa esplodere. La «popolarità» di Bush crolla nei sondaggi e i suoi tentativi di «recuperare» non servono a nulla.
Le sette-otto visite che compie a New Orleans in pochi giorni servono a intralciare il lavoro dei soccorritori ma non a fargli ottenere il «perdono»; Jackson Square traformata in uno studio televisivo per fargli pronunciare un discorso solenne in cui promette «una ricostruzione che il mondo non ha mai visto» non convince nessuno (e il fatto che da allora non sia accaduto nulla dimostra che non c'era da fidarsi).
Qualcosa, dunque, si rompe. I media si svegliano dal sonno della «rispettosità» e tornano a fare il loro mestiere, anche perché a quel punto la perduta credibilità di Bush travalica Katrina e abbraccia tutto il resto, a cominciare ovviamente dalla guerra in Iraq, diventata tanto impopolare che neanche il «giro di discorsi» di due settimane che Bush intraprende di caserma in caserma (lui fra i soldati si sente più sicuro) lo risolleva.
È in questo terreno fertile che arrivano le due «botte» di fine anno: la storia delle prigioni segrete in Europa e quella delle intercettazioni telefoniche, elettroniche e illegali sui cittadini americani. In ambedue i casi, si scopre poi, Bush ha cercato di impedire al Washington Post e al New York Times di pubblicarle, in pratica confermandole. La seconda, oltre tutto, per la sua palese incostituzionalità riporta nel lessico politico americano il termine magico (oltre che minaccioso): impeachment. Se ne parlerà nel prossimo anno, assieme ad altri problemini legali destinati venire al pettine, primo fra tutti quello del famoso «Cia-gate», la cui prossima vittima potrebbe essere nientemeno che l'«architetto» Karl Rove.
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