Patrimonio, di Philip Roth Guardare l’altro che invecchia, e muore, è un modo straordinariamente efficace per capire qualcosa della propria vita, e poter a propria volta invecchiare più serenamente. Quando poi l’altro è tuo padre, quest’esperienza diventa, soprattutto per un maschio, un sacco di altre cose. La riscoperta della tua identità, di quale sia il mondo e la tradizione cui appartieni, del tuo modo di essere uomo, di trattare le donne, di essere coraggioso, o pauroso, insomma di chi tu sia. Una cosa che diventa sempre più chiara man mano che ti rispecchi nell’altro, il padre, ti confronti con lui. Per cui alla fine, quando l’altro se ne va, averlo accompagnato nella malattia e nella morte sigilla definitivamente, senza più turbamenti e contestazioni, la sua identità di padre, e la tua, di figlio, pronto a seguirlo lungo lo stesso sentiero, che è poi quello della vita e della sua fine.
Tutto questo è narrato in ogni pagina di Patrimonio. Una storia vera (finalmente tradotto da Einaudi), da un Philip Roth diverso, ironico e disincantato, ma anche tenero e affettuoso, e, soprattutto, perfino stupito, ed anche un po’ tremante, dietro a tutta la sua dimostrazione di buon senso e praticità.
Roth è, naturalmente, molto minimalista su tutta la faccenda della malattia e la morte, di cui tuttavia parla, rompendo un tabù che nel 1991, quando scrisse il libro, era ancora fortissimo, anche in America. Non per niente avverte da subito: «ciò che provano i cimiteri, almeno alle persone come me, non è che i morti sono presenti, ma che se sono andati. Loro se ne sono andati, e noi ancora no». Nessun sentimentalismo dunque, nessuna aspettativa “per il dopo”, da buon ebreo neppure credente.
Tanto pragmatismo, però, non fa che rendere più efficace il confronto, col padre e con la morte che arriva. Questo guardare le cose per quelle che sono, questo presentare gli oggetti, le piaghe, le parole così come appaiono, nel loro umanissimo limite, senza nessuna ideologia (neppure psicologica per fortuna), e nessuna parola santa (salvo l’intercalare “che Dio lo benedica”, indirizzato generosamente dal padre ottantaseienne verso personaggi di ogni tipo e qualità, rievocati nell’incessante raccontarsi tra i due Roth), scava e approfondisce ogni cosa, ritrovandone, sotto l’apparente miseria, il valore e il significato, affettivo e simbolico. Come la tazza da barbiere, con le iniziali del nonno, Sender Roth, che aveva studiato da rabbino nella Galizia polacca, ma in America, per mantenere la famiglia lavorò in un cappellificio per tutta la vita.
Philip, bambino, si rassicurava pensando che in «quella famiglia dove non c’era mai un centesimo di troppo, ogni settimana se ne mettevano dieci da parte perché lui potesse andare dal barbiere a farsi radere il mento per il sabbath». Quando poi il padre gli comunica che, seguendo la sua richiesta ha lasciato tutto a suo fratello maggiore, e nulla a lui, chiede con forza la tazza da barba del nonno. Rendendosi conto che la rinuncia all’eredità era stata un’idea da intellettuale, astratta, che l’eredità fa comunque parte della tua storia, del tuo essere figlio, e che va presa.
Sono storie di questo genere che le persone in analisi ti raccontano, quando li accompagni a fare i conti col padre che morirà, e dunque con la loro identità, la loro storia e il loro futuro, sgombrando il terreno da ogni ciarpame ideologico, e da ogni sentimentalismo eccessivo. Come sempre, la dimensione del “dopo”, del trascendente, emerge tanto più forte, quanto meno se ne parla.
C’è più religiosità nella tazza da barba di Sender Roth, che tassava la famiglia per potersi rasare il mento per il sabbath, che in uno spenzolarsi imprudente, o scaramantico, su cosa ti aspetta dopo. Così come è profondamente religioso l’interrogarsi su come vestire il padre, dopo la morte. L’impresario chiede quale vestito da mettergli. «Un vestito?» pensa Philip. «Non deve mica andare in ufficio». E propende, incerto, per un sudario «anche se mio padre non era ortodosso, e i suoi figli non sono affatto religiosi… Ma poiché nessuno ebbe il coraggio di dire: seppellitelo nudo, per rivestire il cadavere usammo il sudario dei nostri avi». Di cui, peraltro, l’incontentabile e autoritario Hermann Roth non fu, evidentemente, affatto contento.
Infatti, «cinque o sei settimane dopo, verso le quattro del mattino, avvolto in un bianco sudario venne a rimproverarmi. Disse: “Avrei dovuto indossare un vestito. Hai fatto la cosa sbagliata”. Il sogno mi diceva che… almeno nei miei sogni sarei vissuto in eterno come il suo figlio piccolo, con la coscienza di un figlio piccolo, proprio come lui sarebbe rimasto vivo non soltanto come mio padre, ma come il padre, per giudicarmi qualunque cosa io faccia».

 

da Il Giornale