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La preghiera nel mondo greco e la preghiera nel mondo moderno

di Francesco Lamendola - 05/01/2008

 

 

 

Che cosa è, esattamente, la preghiera?

Secondo l'Enciclopedia cattolica (ed. 1952, vol. IX, col. 1923) la preghiera è un "linguaggio di lode, o invocazione, o domanda, rivolto dall'uomo a Dio"; e ancora "la più spontanea ed elementare manifestazione dei rapporti tra l'uomo e Dio; costituisce, come osserva A. Sabatier, «l'anima stessa della religione»."

Possiamo affermare, allora, che la preghiera è il modo con il quale, nelle religioni teiste (non nel buddhismo o nel taoismo, dunque) il fedele si rivolge alla divinità per lodarla, invocarla o impetrare una grazia. È un dialogo, un rapporto personale tra le persone finite e la Persona Infinita.

Evidentemente, il modo in cui la preghiera è intesa e vissuta, varia a seconda del tipo di rapporto che esiste, all'interno di una determinata religione e all'interno dell'anima di un determinato credente, fra l'essere umano e Dio. Il quale rapporto, a sua volta, dipenderà essenzialmente dall'idea di Dio che si manifesta in una data religione e in un dato individuo.

Ricapitolando, per comprendere cosa sia la preghiera occorre domandarsi:

1)      che tipo di dialogo esiste fra il fedele e la divinità;

2)      che tipo di rapporto il fedele concepisce fra la divinità e gli esseri umani;

3)      come una certa religione e un certo individuo concepisce la natura e l'essenza di Dio.

Ora, per rispondere al quesito se la preghiera avesse, fra gli antichi Greci, una funzione simile a quella che svolge nel mondo moderno - non solo cristiano -, bisogna delineare brevemente quale fosse l'idea della divinità che avevano i Greci. Diciamolo subito: un'idea profondamente diversa da quella dei moderni.

Per gli antichi Greci, gli dei non erano né eterni (non esistevano ab initio), né onniscienti, né onnipotenti, né esterni al mondo: differivano, dunque, dall'idea moderna di divinità in ben quattro elementi essenziali.

Perfino Zeus, il re degli dei, è impotente davanti alla morte di Sarpedone, figlio suo e di Laodamia, sotto le mura di Troia, per mano di Patroclo.  Omero narra la sua commozione in un brano potente e drammatico dell'Iliade (libro XVI,  458-460), dopo che Era ha fatto giurare al suo divino sposo che non sarebbe intervenuto per sottrarre il figlio alla morte, ormai stabilita dal Fato (traduzione di Giovanni Cerri, Milano, R.C.S. Libri & Grandi Opere, 1996):

 

"Disse così, e non disobbedì il padre degli uomini e degli dei;

ma riversò sulla terra stille di sangue

per onorare suo figlio, che Patroclo stava per uccidergli

nella fertile Troia, lontano dalla sua patria."

 

Un'idea della divinità, dunque, totalmente diversa da quella che caratterizza le religioni del Libro - ebraismo, cristianesimo e islamismo - e che noi, oggi, facciamo fatica perfino a comprendere, tanto essa è lontana dalla nostra sensibilità e dal nostro modo di pensare.

Scrive in proposito Jean-Pierre Vernant nel suo notevole studio Mito e società nell'antica Grecia, (traduzione italiana Torino, Einaudi, 1981):

 

"Per noi, la divinità è radicalmente esterna al mondo. Dio è trascendente, come dicono i teologi e i filosofi. Questa divinità trascendente ha creato il mondo e gli uomini; il suo rapporto con l'universo  è quello di un operaio con la sua opera. L'opera porta, in certo modo, l'impronta del suo creatore; ma il creatore è al di là dell'opera; si muove in un mondo diverso da quello che ha prodotto e che ha prodotto dal nulla.

"Questo dio, straniero al nostro universo, è presente dentro di noi. Dove potremmo ritrovarlo, dal momento che è esterno alla natura, se non in noi stessi? Si tratta dunque d'un dio interiore: il punto d'incontro della divinità con l'uomo si produce nell'anima di ciascuno, sotto forma di un commercio personale fra due soggetti. Questo rapporto singolare è al tempo stesso universale: il legame di ogni individuo con dio traduce il rapporto fondamentale dell'uomo col suo creatore. È a un tempo come creatura umana e come persona singolare che entro in rapporto con Dio, non in quanto Francese, o membro di una categoria professionale, di una famiglia, di un gruppo sociale particolare.

"Infine, nella vita dell'uomo contemporaneo, la sfera religiosa è in generale abbastanza strettamente delimitata. La maggior parte delle nostre attività sociali, economiche, culturali, politiche, il nostro lavoro, il nostro tempo libero, le nostre letture, gli spettacoli, le nostre relazioni familiari, ci appaiono come esterne a ciò che è specificamente religioso, e come costitutive del dominio profano. La religiosità è dunque confinata in un settore definito dell'esistenza umana, la vita religiosa del soggetto ha un campo e degli oggetti propri.

"Quando mi rivolgo verso la religione e gli dei greci non ritrovo più i caratteri che ho isolato, semplificandoli molto. Gli dei greci non sono esterni al mondo. Sono parte integrante del cosmo. Zeus e gli abitanti dell'Olimpo non hanno creato né l'universo fisico, né gli esseri viventi, né gli uomini. Sono stati essi stessi creati da potenze primordiali che continuano a esistere come trama e sostrato dell'universo: Chaos, Gaia, Eros, Nyx, Ouranos, Okeanos. Gli dei del culto sono dunque emersi in un momento determinato del tempo; non sono esistiti sempre. Questi 'nuovi venuti', rispetto alle potenze originarie, si sono impadroniti del potere. Zeus ha potuto imporre a un tempo la sua sovranità e un ordine del mondo che non saranno mai più messi in questione, tiene lo scettro; è signore e re dell'universo; ma questo non avvenne senza difficoltà né senza lotta. Zeus sa quel che deve agli alleati che l'hanno sostenuto, quel che può temere dai nemici che ha messo in catene ma che non hanno disarmato tutti, conosce le potenze che deve accattivarsi, le prerogative che è costretto a rispettare. Omero ci mostra Zeus che indietreggia dinanzi all'antica Nyx, la Notte, preso da un timore riverenziale e religioso.

"Gli dei non sono dunque eterni, sono solo immortali; la loro immortalità li definisce in contrapposizione alla povera vita degli uomini, questi 'effimeri' che appaiono per scomparire, come ombre e fumo. (…)

"Così come non sono eterni, gli dei non sono onnipotenti né onniscienti. Una grande dea come Demetra, quando Ade le rapisce la figlia per portarla con sé nel mondo sotterraneo, erra dappertutto alla sua ricerca, implorando che le si riveli dove è scomparsa sua figlia. Alla fine è Helios, il Sole, che l'informa.(…)

"Presenti nel mondo, fin nelle sue contraddizioni e nei suoi conflitti, gli dei intervengono nelle vicende umane. Il Greco sente dentro di sé la loro presenza, sotto forma di impulsi improvvisi, di progetti e di idee che gli vengono in testa, di panico o di ardore guerriero, di uno slancio amoroso o di un sentimento di vergogna. Questa presenza degli dei in tutto l'universo, nella vita sociale e anche nella vita psicologica degli uomini, non significa l'assenza di barriere fra le divinità e le creature mortali; anzi, queste barriere sono, in certo senso, insormontabili. Gli dei fanno parte dello stesso universo degli uomini, ma di un universo gerarchizzato, di un mondo a piani e in cui non si può passare da un piano a un altro. In questo senso la società che formano le potenze dell'al di là prolunga l'organizzazione gerarchica della società umana quale appare in Omero. Gli dei sono rispetto agli uomini così vicini e così separati come il re rispetto ai sudditi. .."

 

Ma, la preghiera?

Anche qui ci troviamo di fronte a una forma di comunicazione personale che differisce profondamente da quella del credente moderno; né potrebbe essere diversamente. Se gli dei, per gli antichi Greci, non sono eterni, né onnipotenti, né onniscienti, né esterni al mondo, allora muta anche l'orizzonte entro il quale gli esseri umani rendono loro lode, li invocano, li interpellano per domanda loro qualcosa, sia pure solo di conoscere il proprio futuro.

Chiedere loro di mutare il corso del Fato, ad esempio, sarebbe follia: abbiamo già visto che ciò non ha potuto fare Zeus neppure per salvare suo figlio. O forse l'avrebbe potuto, ma non ha voluto: Era, infatti, gli aveva ricordato che, se egli avesse fatto un'eccezione per salvare Sarpedone, molti altri dei sarebbero venuti a pregarlo di fare altrettanto per i mortali a loro cari. Sia come sia, perfino Zeus deve piegare il capo e sottomettersi ai disegni del Fato - che è, almeno nell'Iliade, la vera divinità suprema: ma una divinità cieca e senz'anima.

Scrive Attilio Loveri nella  Enciclopedia Classica della Società Editrice Internazionale di Torino (citato in: Angelo Cardinale, I Greci e noi, Napoli, Editrice Ferraro, 1995, pp. 544-546):

 

"Non è possibile ricostruire un corpus delle formule usate dai Greci nelle loro preghiere (εύχαί) abituale e ancor meno conosciamo quelle che i sacerdoti ripetevano nelle cerimonie e che tenevano gelosamente segrete. Possediamo però un gran numero di testimonianze letterarie, che ci permettono di delineare sia lo schema, che il carattere della preghiera nel mondo greco da Omero in poi.

"Vediamo la preghiera di Crise ad Apollo nel primo libro dell'Iliade, vv. 37-42: «Ascoltami, o dio dall'arco d'argento, tu che proteggi Crisa e Cilla cara agli dei, e potente regni su Tenedo, Sminteo, se mai adornai di ghirlande il tuo tempio leggiadro, e se mai per te bruciai pingui cosce di tori e di capre, adempi questo mio voto: scontino i greci le mie lacrime con le tue frecce». Qui troviamo nella forma più completa tutto gli elementi della preghiera omerica: menzione del diritto a chiedere, invocazione del dio, richiesta. (…)

"Per le preghiere e gli inni esoterici siamo poco informati. Probabilmente si invitavano i presenti e la natura stessa a tacere nel momento dell'epifania del dio e si ordinava ai non iniziati di allontanarsi, mentre l' έπίκλήσιν  si dilungava ampiamente nell'enumerazione degli attributi del dio invocato, sì da assumere l'aspetto di una litania in onore di una divinità. (…)

"Venendo ora a parlare della preghiera nel suo uso e nel suo significato più comune, dobbiamo osservare che essa, dai tempi omerici fino al più avanzato ellenismo, fu generalmente ispirata ad un principio materiale di scambio con la divinità, nel quale l'uomo offriva e vantava il peso dei doni e dei suoi meriti e dio concedeva il favore delle grazie relative e proporzionate. Naturalmente le coscienze più profonde della Grecia, moralisti e filosofi, avvertirono il senso, o meglio, l'esigenza spirituale della preghiera, ma il loro insegnamento e il loro esempio rimase forse circoscritto alla cerchia dei σοφοί  e non ottenne certamente molto successo fra i comuni cittadini, se perfino nel secondo secolo d.C. la satira di Luciano colpisce il principio materiale della preghiera che gli uomini del suo tempo innalzavano a Zeus chiedendogli di diventare re, di far crescere bene le cipolle, di far morire il padre o la moglie ricca per impadronirsi dell'eredità, mentre «dei naviganti chi pregava Bona, chi Noto; gli agricoltori cercavano la pioggia, le lavandaie il sole», e il povero Zeus si trovava nel più grande imbarazzo, ascoltando la promessa dello stesso sacrificio da parte di due persone che domandavano cose contrastanti tra loro.

"Per quel che riguarda la prassi esteriore, si può dire che i greci non incominciavano nulla senza aver prima chiesto la benevolenza degli dei e in particolare iniziavano e terminavano la giornata come il buon cristiano. L'orante, compiendo un atto religioso, portava spesso la corona sul capo o la ghirlanda al collo, e in mano teneva dei 'rami supplici' (…)., generalmente d'olivo o d'alloro, sempre verdi in ogni stagione e simboli l'uno di pace, l'altro di felice successo. Piccole bende di lana spesso erano avvolte intorno a questi rami, senza però essere annodate, e con questi rami si toccavano le mani o le ginocchia del dio o del mortale che si supplicava, oppure si protendevano verso la presunta sede della divinità. Quando si supplicava un mortale, si abbracciavano e si baciavano le sue ginocchia, oppure gli si abbracciavano le ginocchia e si baciavano le mani, come fa il vecchio Priamo con Achille, chiedendogli il corpo di Ettore. Naturalmente i luoghi consacrati erano i più adatti per la preghiera. Si pregava quindi nel tempio, in cui si entrava con occhi bassi e con aria di raccoglimento, come si conveniva alla santità del luogo presso gli altari e i simulacri degli dei e, specie quando si pregava un ospite, anche seduti sulle ceneri del focolare, come fa Estia, come fa Ulisse supplice nella reggia di Alcinoo. Perché la preghiera fosse più efficace ed accetta, i Greci assumevano anche gli atteggiamenti esteriori più adatti ad accompagnare la richiesta ed a convincere il dio della bontà e della legittimità dei loro sentimenti. L'orante stava perciò in piedi, talvolta in ginocchio, e finanche prostrato a terra; alzava le mani al cielo, se si rivolgeva agli dei celesti, verso il mare, se pregava gli dei marini, verso la terra, se invocava gli dei infernali, di cui richiamava l'attenzione anche battendo il suolo con i piedi e con le mani. Recitava le sue preghiere mentalmente, bisbigliando, oppure ad alta voce, come voleva Pitagora, perché non si chiedesse in tal modo alcuna cosa, di cui ci si dovesse vergognare. All'inizio e alla fine della preghiera, come segno di venerazione e di riverenza, baciava il dorso della propria mano, rivolgendolo e alzandolo in direzione del dio, perché il bacio arrivasse fino a lui…"

 

È certo, dunque, che nella preghiera dei Greci non v'era né quella tenera confidenza, che è propria delle religioni del Libro e soprattutto del cristianesimo, quell'abbandono e quella fiducia filiale; né quel senso superiore di giustizia, per cui nessun credente oserebbe pregare la divinità, ad esempio, per conseguire il male di un altro essere umano, addirittura di un congiunto. Questa, casomai, è una operazione che si effettua nella magia nera; ma, in tal caso, non ci si rivolge alle divinità vere e proprie, bensì alle potenze demoniache.

Inoltre, a nessun Greco sarebbe venuto in mente che la forza della propria fede avrebbe conferito alla sua preghiera una tale efficacia, da poter spostare le montagne; idea, questa, con la quale le parole di Gesù ci hanno familiarizzati, anche se - in pratica - crediamo siano ben pochi i credenti moderni che prendono alla lettera quella espressione. Al Greco, infatti, mancando l'idea della onnipotenza divina, mancava totalmente il concetto della efficacia radicale della preghiera; la quale, casomai, gli appariva legata alla quantità dei sacrifici di animali o, eventualmente, anche di esseri umani (di cui v'è ancora traccia nell'Iliade, canto XXI, v.. 27 sgg., e perfino in una scena corrispondente dell'Eneide di Virgilio).

Concludendo.

Il rapporto che il credente moderno instaura con il suo dio, mediante la preghiera, è più spirituale, più fiducioso, più devoto e anche più rispettoso di quello di un antico Greco.

È radicalmente mutata l'idea della divinità e del rapporto fra essa e gli esseri viventi. Questi ultimi sono stati da lei creati con un atto di Amore incommensurabile; ed essi, pertanto, sono divenuti i  legittimi eredi del suo regno celeste.

Una tale idea manca del tutto nella cultura dell'antica Grecia. Tranne i pochi esseri umani che raggiungevano la divinizzazione per i loro meriti speciali (come nel caso di Eracle), la differenza qualitativa esistente fra la natura degli umani e quella dei celesti non poteva consentire una riduzione, neanche minima, della distanza che vi era fra loro: né in vita né dopo la morte.

Gli esseri umani, le loro generazioni cadono come le foglie al vento, dice Glauco a Diomede con profonda malinconia. Essi sono destinati a sparire nel nulla; gli dei, invece, a vivere per sempre nei loro regni beati.

La preghiera degli umani, pertanto, non avrebbe mai potuto spingersi a chiedere, dopo la morte,  una vita beata presso gli dei; ma, al massimo, nei Campi Elisi, e ciò solo in un'epoca più tarda di quella dell'Iliade. Di fatto, ancora nell'Odissea la concezione dell'Ade è straordinariamente primitiva e crepuscolare; su di essa spicca la drammatica imprecazione dell'anima di Achille ad Ulisse (canto XI, 488-491; traduzione di Mario Giammarco, Roma, Newton & Compton Editori, 1997):

 

"Non addolcirmi davvero la morte, illustre Odisseo;

vorrei, pur di star sulla terra, essere servo di un altro,

d'un povero che larghi mezzi di vita non abbia,

piuttosto che regnare su tutti i morti consunti."