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Oggi la paura ha assunto una forma sfuggente che nasce dall'incertezza

di Zygmunt Bauman - 05/01/2008

La paura può essere vista come un istinto che accompagna l'umanità nei secoli, o come un sentimento che muta a seconda delle epoche Oggi ha assunto una forma sfuggente che nasce dall'incertezza


Questa nostra vita si è rivelata ben diversa da quella che avevano previsto e iniziato a progettare i saggi dell´Illuminismo e i loro eredi e discepoli. Nella vita nuova che essi immaginavano e intendevano creare, si sperava che l´impresa di domare le paure e di imbrigliare i pericoli da cui esse derivano potesse realizzarsi. Nel contesto liquido-moderno, invece, la lotta contro le paure si è rivelata un compito a vita, mentre i pericoli che innescano le paure hanno finito per apparire come compagni permanenti e inseparabili della vita umana, anche quando si sospetta che nessuno di essi sia insormontabile. La nostra vita è tutt´altro che priva di paure, e il contesto liquido-moderno in cui essa va vissuta è tutt´altro che esente da pericoli e minacce. Tutta la vita è ormai diventata una lotta, lunga e probabilmente impossibile da vincere, contro l´impatto potenzialmente invalidante delle paure, e contro i pericoli, veri o presunti, che temiamo. Essa può essere vista soprattutto come ricerca e verifica continua di stratagemmi ed espedienti che ci consentano di scongiurare, anche se solo temporaneamente, l´arrivo di pericoli imminenti – o meglio ancora di mettere da parte la preoccupazione che essi suscitano sperando che si esauriscano da sé o restino dimenticati finché occorre. La nostra inventiva in tal senso non conosce limiti. Gli stratagemmi sono numerosi, e più se ne usano, tanto meno sono efficaci. Eppure, con tutto ciò che li distingue, essi hanno una regola in comune: ingannare il tempo e sconfiggerlo sul suo stesso terreno; dilazionare la frustrazione, e non più la gratificazione.
Il futuro è nebuloso? Un´altra buona ragione per non farsene ossessionare. I pericoli sono indecifrabili? Un´altra buona ragione per dimenticarsene. Tutto va bene sinora: potrebbe andar peggio. Andiamo avanti così. Non preoccupiamoci prima del tempo se dobbiamo attraversare un ponte. Forse non ci arriveremo mai, oppure crollerà prima, o sarà spostato altrove. Perché preoccuparsi ora? Meglio seguire l´antica ricetta: carpe diem. O, più semplicemente: divertitevi ora, pagate dopo. O ancora, come vuole la versione aggiornata – offertaci dalle carte di credito – di quella collaudata saggezza: «meglio un uovo oggi che una gallina domani».
Viviamo a credito: nessuna generazione passata si è indebitata, individualmente e collettivamente, in modo tanto pesante (i bilanci statali un tempo puntavano al pareggio: oggi i «migliori» sono quelli che mantengono al medesimo livello dell´anno precedente l´eccedenza delle uscite sulle entrate). Vivere a credito ha i suoi piaceri utilitaristici: perché dilazionare la gratificazione? Perché aspettare, se la gioia futura si può assaporare «qui e ora»? È vero, il futuro è fuori controllo. Ma la carta di credito, come per magia, mette quel futuro, sgradevolmente elusivo, direttamente nelle nostre mani. Possiamo consumarlo, per così dire, in anticipo – finché c´è ancora qualcosa da consumare... Questa sembra essere l´attrazione latente del vivere-a-credito, il cui vantaggio manifesto, se si presta fede alla pubblicità, è puramente utilitaristico: dare piacere. E se il futuro sarà brutto come sospettiamo, possiamo consumarlo ora, finché è ancora fresco e intatto, prima che la catastrofe colpisca, e prima che il futuro stesso abbia la possibilità di mostrarci quanto sarebbe brutta. (Questo è, a pensarci bene, ciò che facevano un tempo i cannibali: divorare i nemici appariva loro come il modo più sicuro per risolvere definitivamente le minacce di cui costoro erano latori; un nemico consumato, digerito ed escreto non faceva più paura. Ma, ahinoi, è impossibile mangiare tutti i nemici. Mentre lo facciamo essi, invece di diminuire, sembrano moltiplicarsi.)
I mezzi sono i messaggi. Le carte di credito sono anch´esse messaggi. Se i libretti di risparmio ispirano certezza nel futuro, un futuro incerto reclama a gran voce carte di credito.
I libretti di risparmio nascono da un futuro degno di fiducia e si nutrono di esso: un futuro che certo arriverà e che, una volta giunto, non sarà tanto dissimile dal presente. Un futuro che si prevede darà valore a ciò cui noi diamo valore, rispettando i risparmi passati e premiando coloro che li hanno. I libretti di risparmio prosperano anch´essi sulla speranza/aspettativa/fiducia che - grazie alla continuità tra il presente e il futuro – ciò che si fa ora, nel presente, si accaparrerà il futuro, impegnandolo prima ancora che arrivi; ciò che facciamo ora «farà la differenza», determinerà la forma del futuro.
Le carte di credito, e i debiti che esse consentono di fare facilmente, dovrebbero atterrire i più miti tra noi, e turbare persino chi è più propenso al rischio; e se ciò non accade, lo si deve alla discontinuità che ipotizziamo: al presentimento che ci dice che il futuro che arriverà (se arriverà, e se ci saremo a testimoniarne l´arrivo) sarà diverso dal presente che conosciamo, pur non avendo idea di come e quanto lo sarà. Vorrà premiare, tra qualche anno, i sacrifici fatti oggi in suo nome? Ricompenserà gli sforzi compiuti per assicurarsi la sua benevolenza? O, al contrario, trasformerà in passività le attività di oggi, e in fastidiosi fardelli i carichi pregiati? Non lo sappiamo e non possiamo saperlo, e non ha molto senso cercare di vincolare ciò che non si può conoscere.
Indugiamo nella preoccupazione per i ponti che alla fine dovremo attraversare comunque; eppure non sono così lontani da poter rinviare a cuor leggero la preoccupazione che desta l´idea di doverli attraversare... Non tutti i pericoli appaiono abbastanza remoti da poterli liquidare come bizzarre creazioni di una immaginazione febbrile, o comunque come qualcosa di irrilevante rispetto alla voce in cima alla lista delle cose da fare. Comunque per fortuna abbiamo un modo di aggirare quegli ostacoli che si sono avvicinati troppo e non si possono più ignorare: possiamo pensare (e lo pensiamo) che siano dei «rischi».
Riconosciamo allora che il prossimo passo da compiere è «rischioso» (ossia che potrebbe rivelarsi intollerabilmente costoso, riesporci ad antichi pericoli o crearne di nuovi), e del resto ciò vale tendenzialmente per qualsiasi passo. È possibile che non raggiungeremo ciò che desideriamo, e che otterremo invece qualcosa di totalmente diverso e di assolutamente sgradevole; qualcosa che preferiremmo evitare («effetti secondari» o «danni collaterali» – così chiamiamo queste spiacevoli e indesiderabili conseguenze, in quanto non intenzionali e distanti dal bersaglio della nostra azione). E riconosciamo anche che essi possono sopraggiungere «inattesi» e, nonostante tutti i calcoli che avevamo fatto, possono coglierci di sorpresa e trovarci impreparati. Pur avendo pensato, valutato e dichiarato tutto ciò, in mancanza di un´opzione migliore procediamo lo stesso come se potessimo prevedere quali conseguenze indesiderabili richiederanno la nostra attenzione e la nostra vigilanza e come se potessimo monitorare i nostri passi in tal senso. Ciò non sorprende: possiamo preoccuparci solo delle conseguenze indesiderabili che siamo in grado di prevedere, e soltanto queste possiamo cercare di evitare. E dunque quelle che noi classifichiamo nella categoria dei «rischi» sono solo le conseguenze di questo tipo, quelle «prevedibili». I rischi sono i pericoli la cui probabilità noi possiamo (o crediamo di potere) calcolare: sono pericoli calcolabili. Una volta definiti in tal modo, i rischi sono la massima approssimazione possibile alla certezza (irraggiungibile, purtroppo).
Dobbiamo tuttavia notare che «calcolabilità» non significa prevedibilità: ciò che si calcola è solo la probabilità che le cose vadano male e che sopraggiunga il disastro. Il calcolo delle probabilità dice qualcosa di affidabile sulla distribuzione degli effetti di un gran numero di azioni simili, ma è quasi inutile come mezzo di previsione quando lo si impiega (alquanto impropriamente) per orientarsi in una specifica impresa. La probabilità, anche quella calcolata nel modo più rigoroso, non offre la certezza che i pericoli saranno, o non saranno, evitati in questo o quel particolare caso, qui e ora, o lì e allora. Ma il fatto stesso che abbiamo stimato le probabilità (e dunque, implicitamente, abbiamo evitato decisioni affrettate e non possiamo essere accusati di temerarietà) ci può infondere il coraggio di decidere se il gioco vale o non vale la candela, e offrire una certa dose di rassicurazione, pur se priva di garanzia. Prendendo in considerazione le probabilità facciamo qualcosa di ragionevole, e forse persino di utile; ora «abbiamo ragione» di considerare le probabilità negative troppo alte per giustificare la misura rischiosa, o troppo basse per dissuaderci dal correre il rischio.
Di solito, tuttavia, spostare l´attenzione dai pericoli ai rischi si rivela come un altro stratagemma; un tentativo di eludere il problema, più che un salvacondotto efficace. Come ha notato Milan Kundera in I testamenti traditi , il contesto della nostra vita è avvolto dalla nebbia, e non dal buio totale in cui non vedremmo niente e saremmo incapaci di muoverci: «nella nebbia si è liberi, ma è la libertà di chi si trova nella nebbia»; possiamo vedere a una decina di metri di distanza, possiamo ammirare i begli alberi sulla strada lungo cui camminiamo, vedere i passanti e reagire alle loro mosse, evitare di urtare qualcuno, accorgerci in tempo di un masso o di una buca sulla nostra strada, ma difficilmente possiamo vedere l´incrocio un po´ più avanti, o l´auto che si trova ancora a un centinaio di metri ma che si sta avvicinando a tutta velocità. Possiamo dire che, coerente con la «vita nella nebbia», la nostra «certezza» orienta e focalizza le nostre precauzioni sui pericoli visibili, noti e vicini, che è possibile prevedere e la cui probabilità può essere calcolata, mentre i pericoli decisamente più tremendi e spaventosi sono proprio quelli impossibili o drammaticamente difficili da prevedere: i pericoli non previsti, e con ogni probabilità imprevedibili.
Tutti presi dal calcolo dei rischi, tendiamo a trascurare questo problema più serio, e a evitare che le catastrofi che non potremmo impedire minino la sicurezza in noi stessi. Concentrandoci sui casi in cui possiamo fare qualcosa, non ci resta tempo per metterci a riflettere sui casi in cui ci è impossibile fare alcunché. Ciò ci aiuta a tutelare il nostro equilibrio mentale. Tiene a distanza gli incubi e ci permette di dormire la notte. Ma non ci rende necessariamente più sicuri. Del resto, questo approccio non rende i pericoli meno realistici. La nostra congettura/intuizione/diffidenza/previsione/ convinzione/certezza che le cose stiano così può schiacciare un pisolino, ma puntualmente si risveglierà. Di tanto in tanto, anzi sempre più spesso, i pericoli tornano a ricordarci fino a che punto essi rimangano realistici nonostante tutte le misure precauzionali prese. In modo ricorrente e abbastanza regolare essi vengono riesumati dalla fossa poco profonda in cui erano sepolti, a pochi centimetri dalla superficie della nostra coscienza, e brutalmente esposti sotto i riflettori della nostra attenzione; le catastrofi si susseguono, offrendoci premurosamente numerose occasioni per ricordarcene. (...)
Le occasioni di aver paura sono una delle poche cose che non scarseggiano in questi nostri tempi tristemente poveri di certezze, garanzie e sicurezze. Le paure sono tante e varie. Ognuno ha le sue, che lo ossessionano, diverse a seconda della collocazione sociale, del genere, dell´età e della parte del pianeta in cui è nato e ha scelto di (o è stato costretto a) vivere. Il guaio è che tali paure non sono tutte uguali fra loro. Dato che arrivano una alla volta, in successione ininterrotta ma casuale, esse sfidano i nostri (eventuali) sforzi di collegarle tra loro e ricondurle alle loro radici comuni. Ci spaventano di più perché risultano difficili da abbracciare nella loro totalità, ma ancor più per il senso di impotenza che suscitano in noi. Non riuscendo a comprenderne le origini e la logica (ammesso che ci sia), ci troviamo al buio e incapaci di prendere provvedimenti – e, a maggior ragione, di prevenire o contrastare i pericoli che esse ci segnalano. Siamo semplicemente privi di strumenti e capacità a tal fine. I rischi che temiamo trascendono la nostra capacità di agire; finora non siamo nemmeno riusciti a definire chiaramente come dovrebbero essere gli strumenti e le capacità adeguate – e dunque siamo ben lontani dal poter iniziare a progettarli e realizzarli. Ci troviamo in una situazione non molto diversa da quella di un bambino disorientato; per riprendere l´allegoria utilizzata tre secoli fa da Georg Christoph Lichtenberg, se un bambino urta contro un tavolo, dà la colpa a quest´ultimo, mentre per casi simili noi abbiamo coniato la parola «destino» contro cui lanciare accuse.
Il senso di impotenza che costituisce l´effetto più tremendo della paura nasce tuttavia non dai pericoli (veri o presunti) in quanto tali, ma dall´ampio quanto scarsamente attrezzato spazio che si spalanca tra i pericoli da cui promanano le paure e le nostre reazioni possibili e/o ritenute realistiche. Ma che le nostre paure «non siano tutte uguali tra loro» è vero anche in un altro senso: per quanto le paure che tormentano i più possano essere straordinariamente simili tra loro, si presume che ciascuno di noi vi si opporrà individualmente, con le proprie sole risorse, quasi sempre drammaticamente inadeguate. Non si vede quasi mai chiaramente in che modo le nostre possibilità di difesa possano guadagnarci dal mettere insieme le risorse di tutti e cercare modi per dare a tutti coloro che ne soffrono le stesse opportunità di sicurezza dalla paura. A peggiorare ulteriormente le cose, anche se e quando i benefici di una lotta comune vengano perorati in modo convincente, rimane aperta la questione di come fare per tenere uniti tutti i combattenti isolati. Le condizioni della società individualizzata sono inadatte all´azione solidale, e rendono difficile vedere una foresta invece che i singoli alberi. Inoltre le antiche foreste – paesaggio un tempo familiare e facile da riconoscere – sono state decimate, ed è improbabile che ne vengano piantate di nuove, dato che la coltivazione tende a essere demandata ai singoli contadini. La società individualizzata è contraddistinta da una dispersione dei legami sociali, che sono il fondamento dell´azione solidale. Essa si distingue anche per la sua resistenza a una solidarietà che potrebbe rendere tali legami durevoli e affidabili.

Traduzione di Marco Cupellaro © 2006, Zygmunt Bauman