Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Esiste nel mondo qualcosa di infinito? Tra filosofia e paradossi matematici

Esiste nel mondo qualcosa di infinito? Tra filosofia e paradossi matematici

di Francesco Lamendola - 06/01/2008

 

 

Quello dell'infinito è uno dei più antichi problemi della matematica, e ha dato parecchi filo da torcere già agli antichi Greci.

Secondo Bertrand Russell (Introduzione alla filosofia matematica, traduzione italiana Roma, Newton & Compton Editori, 1997, p.131):

 

"L'assioma dell'infinito è un postulato che si può enunciare in questo modo:

"Se n è un numero cardinale qualsiasi, esiste almeno una classe di individui che hanno n termini. Se è vero, ne consegue, naturalmente, che esistono molte classi di individui che hanno n termini, e che il numero totale di individui al mondo non è un numero induttivo."

 

Per Russell, l'espressione "numero induttivo" è più o meno un sinonimo di quella "numeri naturali"; dunque potremmo tradurre l'ultimo enunciato con il seguente: il numero totale di individui al mondo non è un numero naturale.

Un discorso analogo si può fare anche per gli insiemi (sia logici che matematici).

Infatti, noi sappiamo che l'insieme N dei numeri naturali, ossia N = {1, 2, 3, 4, 5, …}, è un insieme infinito.

Possiamo formulare così l'appropriata definizione: «un insieme si dice infinito quando contiene infiniti elementi; ovvero quando sia composto da un numero di elementi al quale noi possiamo sempre aggiungere una unità».

È evidente che, per quanto grande sia il numero che noi possiamo pensare, a quel numero possiamo sempre aggiungere una unità: e quell'avverbio, "sempre", ci porta dritti dritti verso il concetto di infinito.

Senonché, il concetto di infinito matematico venne messo a dura prova, forse verso il 500 a. C., dalla scoperta delle cosiddette linee incommensurabili.

Inizialmente, i matematici pitagorici avevano concepito la linea come una successione finita doi punti di dimensioni finite. Tale concezione, chiamiamola così, granulare della linea presentava il vantaggio di consentire uno stretto collegamento fra geometria ed aritmetica. In pratica, per conoscere la misura della lunghezza di una determinata linea è sufficiente contare i punti che la costituiscono. Se raddoppiamo la lunghezza della linea, basterà raddoppiare il numero dei punti; se la triplichiamo, basterà triplicarlo; e così via.

Alla base di questa concezione vi è l'idea del punto come elemento matematico corrispondente all'unità e perciò, in qualche modo, esteso e occupante una data posizione nello spazio (cfr. il nostro precedente lavoro Il punto è per Euclide qualcosa di esteso o di inesteso?).

Aristotele, nella sua Metafisica (libro I, capitolo V) scrive:

 

"Altri pitagorici affermarono che i principi sono dieci, divisi in serie di contrari:

1) limite - illimite,

2) dispari - pari,

3) uno - molteplice,

4) destro - sinistro,

5) maschio - femmina,

6) fermo- mosso,

7) retto - curvo,

8) luce - tenebra,

9) buono - cattivo.

10) quadrato - rettangolo."

 

Ora, vogliamo soffermare la nostra attenzione sulla seconda e sull'ultima coppia di termini: di natura aritmetica i primi, di natura geometrica i secondi.

Che cosa avranno voluto intendere, i Pitagorici (giusta la notizia riferita da Aristotele), contrapponendo il quadrato al rettangolo, così come avevano contrapposto il dispari e il pari? Si noti, per inciso, l'ordine della coppia: prima il dispari, poi il pari (al contrario di quello che a noi moderni verrebbe spontaneo fare): perché l'uno precede il due - lo zero non essendo ancora stato inventato - e, quindi, l'unità precede, in ordine logico, il numero che viene dopo l'unità, ossia il primo dei numeri pari (divisibili esattamente per due).

Evidentemente, i Pitagorici contrapponevano il quadrato al rettangolo (così come il dispari e il pari) perché, se noi immaginiamo il punto come unità estesa e la linea come una linea granulare (formata da una successione di punti estesi), basterà aggiungere un singolo punto a ciascuno dei due lati opposti di un qualsiasi quadrato per trasformarlo, ipso facto, in un rettangolo; ossia per passare, in un colpo solo, da un ordine di figure a un altro ordine di figure. Proprio come, aggiungendo un numero all'unità, si passa ipso facto dall'ordine dei numeri dispari all'ordine dei numeri pari (divisibili esattamente per due).

Semplice ed elegante.

Scrive Attilio Frajese in Introduzione elementare alla matematica moderna (Firenze, Le Monnier Editore, 1972, vol. 1, p. 64):

 

"Ma questa concezione non poté essere mantenuta quando si giunse a trovare la prima coppia di linee incommensurabili: il lato e la diagonale di qualunque quadrato (ed è questa una mirabile scoperta: una delle più grandi scoperte dell'umanità, che segna l'inizio della vera matematica).

"Si tratta di questo: non esiste un segmentino di retta, per quanto piccolo si scelga, che sia contenuto esattamente un numero intero di volte tanto nel lato quanto nella diagonale di qualunque quadrato:  cioè lato e diagonale del quadrato non possono essere ambedue esattamente misurati insieme da una misura, vale a dire non sono commensurabili, ma sono incommensurabili.

"Si tratta di un fatto che non può essere stabilito con alcun mezzo sensibile o sperimentale: ad esso si giunge soltanto in forza di un ragionamento, sicché potrebbe per esso parlarsi di una grande vittoria della ragione sui sensi."

 

Platone, nel Menone, tratta appunto della scoperta della incommensurabilità  del lato e della diagonale del quadrato: ne abbiamo già parlato diffusamente nel saggio Conoscere è ricordare. Struttura e temi del Menone platonico. Allo stesso modo, abbiamo già trattato del pensiero di uno dei matematici moderni che più si sono affaticati intorno al problema dell'infinito: l'austriaco  Bernhard Bolzano, che fu anche illustre pensatore, nell'articolo Bernhard Bolzano e la rinascita della logica formale come dottrina della scienza.

Ad ogni modo, la scoperta dell'incommensurabilità del lato di un quadrato e della sua diagonale era destinata a rivoluzionare tutto il pensiero geometrico, a partire dal concetto di punto: che, evidentemente, non poteva più essere concepito come punto-monade occupante una porzione di spazio, ma solo e unicamente come punto ideale, avente bensì una posizione, ma assolutamente privo di estensione e, quindi, di dimensioni.

Scrive ancora Frajese (op. cit., vol. 1, p. 68):

 

"Mirabile scoperta, s'è detto. E mirabili ne furono le conseguenze, legate alla scoperta così strettamente da costituire, potrebbe dirsi, un tutto unico.

"Si tratta del fatto che quella struttura granulare della linea, di cui abbiamo già discorso, cioè quella struttura di una linea considerata come somma di un certo numero di punti estesi, assimilabili a granellini, dovette essere abbandonata, dopo quella scoperta, dalla scuola pitagorica. Per vederne le ragioni, pensiamo per un momento al lato e alla diagonale di un quadrato come composti da tanti punti-granellini. Tale punto-granellino (che sarebbe poi il famoso punto-unità dei Pitagorici) verrebbe contenuto esattamente un certo numero di volte nel lato nel lato e un certo altro numero di volte nella diagonale: lato e diagonale sarebbero dunque commensurabili: la loro comune misura sarebbe proprio quel punto-granello. Possiamo dire anzi di più: che nella concezione geometrica di un punto avente dimensioni, cioè di un punto piccolo sì, ma di dimensioni finite, non potrebbero in alcun modo esistere linee incommensurabili. Ciò perché, male che andasse, due linee qualunque avrebbero sempre come misura comune un minuscolo segmentino, cioè il punto, che sarebbe ottenuto esattamente tanto nell'una quanto nell'altra.

"Un solo rimedio è possibile, di fronte alla sconcertante scoperta di linee incommensurabili: l'annichilimento del punto, che viene ridotto ad una entità evanescente, cioè senza dimensioni: privo di lunghezza, privo di larghezza, privo di altezza. Si tratta cioè del famoso punto geometrico, che siamo avvezzi a considerare fin dai primi anni di scuola.

"Sicché una linea, per quanto breve, non contiene già cento, o mille, o diecimila punti, ma ne contiene infiniti. Questo fatto si esprime con una semplice proposizione, che si riassume come postulato sulla struttura della linea geometrica: Tra due punti qualunque di una linea può sempre inserirsi (almeno) un punto intermedio."

 

Notiamo, tra parentesi, che la concezione del punto come inesteso e privo di lunghezza porta con sé quella di linea come priva di larghezza e anche quella di superficie priva di spessore (sia la linea che la superficie sono formate da una quantità infinita di punti, ciascuno dei quali privo, tuttavia, di estensione).

Ed eccoci tornati al concetto di numeri infiniti e di insiemi infiniti, dal quale eravamo partiti.

Un primo paradosso risulta dal fatto che, su ciascuna di due linee di diversa lunghezza, troviamo una quantità infinita di punti; mentre il pensiero intuitivo parrebbe suggerirci che nella linea più lunga dovrebbe  essere contenuta una quantità maggiore di punti.

Eppure, è cosa semplicissima "visualizzare" il concetto di punto inesteso, con il semplice aiuto di un foglio di carta, una matita e un righello.

Se tracciamo, ad esempio, su un foglio il segmento AB, dobbiamo pensarlo come costituito da infiniti punti; se poi lo suddividiamo, nel punto C, in due metà uguali, AC e CB, anche ciascuno di questi due nuovi segmenti dobbiamo pensarlo come costituito da infiniti punti; e altrettanto se dividiamo a metà ciascuno dei due segmenti, in altri due segmenti, ottenendo così i quattro segmenti AD, DC, CE ed  EB: anche ora ciascuno dei quattro segmenti conterrà un numero infinito di punti.

Insomma, un segmento di retta contiene altrettanti punti quanti ne contiene la sua metà, o la decima o centesima o millesima parte: sempre infiniti.

Conclusione: quando si parla di infinito, dobbiamo trascendere le categorie sensoriali e fare appello unicamente all'intelligibile.

Seconda conseguenza: le figure geometriche "pure" sono enti assolutamente ideali, ed è solo per esigenze pratiche che le rappresentiamo materialmente come se godessero, invece, di proprietà sensibili.

E questo è il primo paradosso.

Il secondo paradosso è che noi non siamo in grado di affermare con sicurezza se esista un qualsiasi insieme infinito nel mondo, nonostante che filosofi e matematici del valore di Bolzano, Cantor e   Frege si siano prodigati per tentare di verificarlo.

Scrive ancora Bertrand Russell (op. cit., pp. 86-88):

 

"Non si può dire che sia sicuro che esista in realtà un qualsiasi insieme infinito nel mondo. L'ipotesi che esista è quello che noi chiamiamo l'assioma dell'infinito.

"Sebbene esistano vari modi con i quali si potrebbe sperare di dimostrare questo assioma, c'è ragione di pensare che siano tutti errati, e che non vi siano ragioni logiche conclusive per ritenerlo vero.

"Nello stesso tempo, non esistono ragioni logiche 'contro' gli insiemi infiniti, e siamo pertanto logicamente autorizzati a esaminare l'ipotesi che esistano tali insiemi.

"la forma pratica di questa ipotesi, ai nostri fini presenti, è la affermazione che se n è un numero induttivo qualsiasi, n non è uguale a n + 1. Se vogliamo identificare questa ipotesi con quella che afferma l'esistenza di insiemi infiniti sorgono differenti sottili difficoltà (…).

"Per il momento, ci limiteremo ad assumere che, se n è un numero induttivo, n non è uguale ad n + 1.

"Questo è implicito nella assunzione di Peano che due numeri induttivi non hanno lo stesso successore; infatti, se n = n + 1, allora n - 1 ed n hanno lo stesso successore, cioè n. In questo modo, non supponiamo nulla che non sia implicito nelle proposizioni primitive di Peano.

"Consideriamo ora l'insieme dei numeri induttivi stessi. È una classe perfettamente ben definita. In primo luogo, un numero cardinale è un insieme di classi tutte simili l'una all'altra e che non sono simili a nessun'altra differente da loro.

"Definiamo allora come 'numeri induttivi' quei numeri cardinali che appartengono alla posterità di 0 rispetto alla relazione di n a n +1, cioè quei numeri che godono tutte le proprietà di 0 e dei successori dei possessori di quelle proprietà, indicando come 'successore' di n il numero n + 1.

"Così la classe dei numeri induttivi è perfettamente definita.

"Per la definizione generale di numero cardinale che abbiamo dato, il numero dei termini nella classe dei numeri induttivi deve essere definito come «tutte quelle classi che sono simili alla classe dei numeri induttivi»; questo insieme di classi, cioè, è il numero dei numeri induttivi, secondo la nostra definizione.

"Ora è facile vedere che questo numero non è uno dei numeri induttivi. Se n fosse un numero induttivo qualsiasi, il numero dei numeri da 0 a n (entrambi inclusi) sarebbe n + 1, e pertanto il numero totale dei numeri induttivi sarebbe maggiore di n, qualsiasi fosse n.

"se ordiniamo i numeri induttivi in una serie per ordine di grandezza, questa serie non ha un termine ultimo; ma se n è un numero induttivo ,ogni serie il cui campo abbia n termini, possiede un termine ultimo, il che si dimostra facilmente.

"Queste differenze potrebbero essere moltiplicate ad libitum. Quindi il numero dei numeri induttivi è un tipo nuovo di numero, differente da tutti gli altri, e che non possiede tutte le proprietà induttive.

"Può accadere che 0 abbia una certa proprietà, e che se n la possiede, la possiede anche n + 1; purtuttavia può succedere che questo numero non possegga questa proprietà di per sé. Le difficoltà che così a lungo hanno ostacolato la teoria dei numeri infiniti sono largamente dovute al fatto che alcune, almeno, delle proprietà induttive sono state erratamente considerate tali da dover appartenere a tutti i numeri: si pensava quindi che non potessero essere negate sena contraddizione.

"Il primo passo verso la comprensione della natura dei numeri infiniti consiste nel comprendere pienamente la erroneità di questo punto di vista. La differenza più notevole e appariscente tra un  numero induttivo e questo nuovo tipo di numero consiste nel fatto che questo nuovo numero rimane immutato sommandogli o sottraendogli 1, raddoppiandolo o dimezzandolo o sottoponendolo a ogni altra operazione che si suppone renda necessariamente un numero qualsiasi maggiore o minore."

 

Appunto: come nel caso del segmento (o dell'insieme) che, dimezzato o raddoppiato, contiene sempre, in ciascuna sua nuova parte, un ugual numero di punti, cioè infiniti.

Pertanto, alla domanda che ci eravamo posta: «se esista, al mondo, qualche cosa di infinito», dobbiamo rispondere che certamente esiste in senso logico-matematico; ma che, in senso fisico e materiale, non posiamo affermarlo né negarlo.

D'altra parte, entrare (o tentar di entrare) nella logica dell'infinito significa scardinare, in buona parte, i nostri abituali paesaggi concettuali. Significa entrare in un mondo dove la parte non è minore del tutto, dove la somma non è maggiore degli addendi; dove, inoltre, i giorni non sono minori dei mesi né gli anni sono maggiori delle ore. Infatti, noi possiamo tranquillamente (cioè, sena contraddizione logica) trasferire tutto quanto abbiamo detto circa il punto geometrico, dal campo dello spazio a quello del tempo; e concepire il tempo medesimo come una somma infinita di punti. Ma è chiaro che, se il punto-istante è un ente inesteso, pur essendo alla base dell'ordine cronologico degli eventi, un minuto contiene tanti istanti, cioè infiniti, quanto un secolo o un millennio; e così via.

Si dirà che, in questo modo, si ricade nei paradossi di Zenone, secondo il  quale né la freccia potrà mai colpire il suo bersaglio, né il veloce Achille superare in corsa la tartaruga: paradossi, appunto, basati sulla concezione ideale, e non sensoriale, del tempo. Eppure, i più recenti esiti sperimentali della fisica quantistica sembrano condurre appunto in direzione di tali paradossi: basti pensare al principio di indeterminazione di Werner Heisenberg.

Ha scritto in proposito Colin Wilson, nel suo libro Dei dell'altro universo  (titolo originale Alien Down, 1988; traduzione italiana Casale Monferrato, Piemme, 1999, pp. 58-360):

 

"Esiste un esperimento particolarmente sconcertante, che sottolinea i paradossi da Alice nel paese delle Meraviglie della fisica quantistica. Se proietto un fascio di luce attraverso una fessura, con uno schermo posto dall'altra parte, esso formerà una sottile linea luminosa su quest'ultimo, corrispondente all'apertura attraverso cui è passato; se pratico un'altra fessura vicino e parallela alla prima, i bordi delle due linee luminose si sovrapporranno sullo schermo. Appariranno tuttavia alcune linee nere nella parte sovrapposta, dovute a interferenza: la cresta di un'onda cancella il solco dell'altra.

"Supponiamo che solo un fotone per volta passi attraverso le due fessure (ridotte ora a fori di spillo) e che, anziché uno schermo, ci sia una lastra fotografica: dopo un lungo periodo vi aspettereste che apparissero due infinitesimali punti luminosi, ma senza alcuna interferenza, perché un fotone non può interferire con se stesso. Eppure, in quest'esperimento appaiono ugualmente linee dovute a interferenza,

"Ma c'è qualcosa di ancora più strano. Se un contatore di particelle viene collocato sui due fori di spillo, per scoprire attraverso quale buco passa ciascun fotone, l'effetto interferenza cessa immediatamente, come se il fatto di osservarli influenzasse il comportamento dei fotoni. Come mai? Il fotone si scinde in due? O l'onda si divide e passa  attraverso entrambi i fori di spillo? Se è così, perché colpisce lo schermo in un punto ben preciso? E perché se non è osservata si comporta come un'onda, e se osservata come una particella?

Negli anni Cinquanta, Hugh Everett, allievo del fisico John Wheeler, propose una stupefacente interpretazione. Il fatto che il fotone diventi solido solo quando viene 'osservato' suggerisce che, quando non è osservato, assume ancora la forma di 'onda di probabilità' di Bohr, e può perciò attraversare entrambi i fori di spillo contemporaneamente. E le due 'onde di probabilità' interferiscono reciprocamente. È come se il gatto di Schrödinger esistesse contemporaneamente in due universi, morto in uno e vivo nell'altro. Una volta aperta la scatola, le due probabilità si coagulano nel nostro universo materiale, e possiamo trovare il gatto sia morto che vivo.

"Ma perché due universi? Quando un fotone 'fa una scelta' tra onda e particella, in realtà, secondo Everett, non fa una vera scelta: sta infatti scegliendo in entrambi gli universi paralleli. E dato che un'onda elettronica diventa corpuscolare ogni volta che colpisce una lastra fotografica o un altro elettrone, ciò implica ogni volta un nuovo universo parallelo. Migliaia, milioni, miliardi di universi paralleli. Quest'idea pare uno scherzo. Eppure molti scienziati la prendono sul serio. Ad esempio, un giovane esponente del mondo della fisica quantistica, David Deutsch, nel suo The Fabric of Reality, dedica un capitolo alla spiegazione dell'esperimento della doppia distorsione e parla di fotoni solidi e di fotoni 'ombra': i primi esistenti nel nostro universo, i secondi in universi paralleli.

"Aristotele aveva elaborato il concetto di 'potentia', una sorta di dimensione intermedia tra possibilità e realtà. Pare che gli elettroni si trovino perfettamente a loro agio in questa bizzarra dimensione.

"Lo scopo di questa digressione sugli enigmi e i paradossi della fisica quantistica mira a sottolineare una questione molto importante e cioè che, ci piaccia o no, dobbiamo imparare a guardare alla realtà in modo radicalmente diverso. Come il nostro senso estetico, o quello dell'umorismo, come le nostre preferenze sessuali, la realtà consiste essenzialmente nel modo in cui uno la considera. Potremmo dire, come già altri prima di noi, che il mondo esiste in quanto qualcuno ha coscienza di esso. Il fisico John Wheeler si è spinto ancor più lontano, dilatando il concetto di 'principio antropico' e suggerendo che noi stessi creiamo il mondo con l'atto di percepirlo."

 

Dovremmo, dunque, imparare a guardare alla realtà in modo radicalmente diverso.

I saggi indù e buddhisti e alcuni santi e mistici cristiani lo hanno già fatto, da centinaia o migliaia di anni; i fisici incominciano a farlo solo ora.

Ma è proprio nel cuore del pensiero matematico, contrariamente a quello che la Vulgata scientista oggi di gran moda vorrebbe farci credere, che si possono trovare alcuni strumenti di pensiero fondamentali per accostarsi alla realtà con questo sguardo nuovo, con questa inedita consapevolezza.

Come se scoprissimo il cielo, per la prima volta, alto sopra di noi: magnifico, sorprendente, indescrivibile.