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Arriva la pagella!

di Stefano Montanari - 06/01/2008

     
   
 

 Ormai ci abbiamo fatto l’abitudine: qualche ente, qualche giornale, qualcuno, insomma, compila una classifica in cui noi, noi Italia, intendo, siamo coinvolti e succede un piccolo finimondo. A volte la gara è sulla libertà di stampa, a volte sulla corruzione, altre volte si tratta del rispetto dell’ambiente, o può essere il funzionamento della giustizia, oppure è in ballo l’affidabilità dello stato inteso dal punto di vista aziendale, e così via. Ora, per motivi che non mi sono chiari, balza tardivamente alla ribalta una graduatoria compilata due mesi fa da un supplemento del Times (Times Higher Education Supplement) in cui, in base ad alcuni parametri di valutazione, si mettono in fila le università di tutto il mondo. Nessuna sorpresa se gli atenei nostrani non figurano ai primi posti. Del resto, noi, lassù, in vetta, ci siamo solo quando la gara verte su qualcosa di non propriamente onorevole. La corruzione, ad esempio. Insomma, la prima università italiana risulta essere Bologna, ad uno striminzito 173° posto. Non gran che, ma il resto è proprio notte. Altri enti avevano stilato graduatorie già in passato e noi ne siamo sempre usciti, con coerente regolarità, con le ossa rotte. Però stavolta, forse sulle tracce degl’ingenui, e, a dire il vero, un po’ fastidiosi, piagnucolii del nostro Presidente della Repubblica quando il New York Times azzardò qualche incontestabile verità su di noi, qualcuno è insorto. I media hanno intervistato qualche

professore e qualche rettore e questi si sono presi la briga di una difesa d’ufficio. Io non sono mai stato tenero con l’accademia italiana, ma, lo confesso, stavolta ero a disagio. Era imbarazzante sentire queste povere anime, tromboni sì, ma pur sempre esseri umani, arrampicarsi su specchi che non consentivano presa, pigolare senza un solo fatto su cui reggersi, difendere un sistema indifendibile da verità percepite come offese. “I parametri se li sono scelti loro!” era l’argomento preferito. Sì, è vero. Però sarebbe interessante sentire quali parametri sarebbero stati graditi ai Nostri. La ricerca? Qualcuno abbia il coraggio di mostrare senza ipocrisie come funziona la ricerca da noi. Soldi, pochissimi, e quando i soldi sono pochi non servono. O, meglio, servono, e solo nella migliore delle circostanze, a mantenere con stipendi da elemosina gruppi di nullafacenti che non producono assolutamente nulla. La qualità dell’insegnamento? Mi chiedo che cosa diavolo potranno mai insegnare professori che non conoscono i fondamenti stessi della scienza e che sono perfettamente all’oscuro della materia di cui dovrebbero essere i sacerdoti. Chi ha presenziato a qualche dibattito sull’ambiente sa di che cosa sto parlando. Il modo con cui vengono assegnate cattedre e distribuiti altri incarichi, rettorati non esclusi? All’università italiana il merito è, a dir poco, malvisto perché chi vale costituirebbe un termine di confronto con chi a confronti il sistema vuole non si sottoponga. Dunque… Se qualcuno ha voglia di piangere (o di ridere: dipende dal personale senso dell’umorismo) vada ad assistere a qualche seduta orale d'esame di concorso. Sono pubbliche e si può andare anche se non si è graditi. In genere, senza scomodarsi, gli esiti sono ampiamente noti con grande anticipo: basta conoscere alberi genealogici, pettegolezzi d’alcova o interessi d’affari di chi maneggia il business e si può evitare di uscire di casa. L’assistenza culturale agli studenti? Non è raro che lo studente sia solo un fastidio che serve a giustificare l’esistenza dell’apparato. E poi, può accadere anche che gli studenti ne sappiano più dei loro insegnanti capitati lì per una serie di circostanze che nulla hanno a che vedere con la loro dignità culturale. Levatura morale? Beh, a quanto detto si può aggiungere la patogenicità peggiore del sistema: i ragazzi non rischiano di uscire dal girone dell’università soltanto ignorantissimi (basta leggere certe tesi di laurea sull’ambiente per rendersene tragicamente conto), ma resi incapaci di apprendere e corrotti nell’anima. Chi ha voglia di fare una piccola inchiesta con tanto di ministatistica finale tra gli studenti a proposito della loro disponibilità a far carriera nella maniera lercia con cui spesso la carriera viene fatta, avrà la triste sorpresa di vedere quanto vecchi siano tanti di questi giovani e come malati dentro siano. Andando a dare un’occhiata alla graduatoria che tanto ha piccato gl'interessati, si può notare come tra le prime dieci in assoluto ci sia, prima in campo scientifico, l’Univerità di Cambridge (con cui è stato condotto il progetto europeo Nanopathology, quella ricerca sbeffeggiata dalla nostra accademia) e ci sia l’ETH di Zurigo (al cui congresso sulla combustione, i cui risultati restano ignoti agl’italici “scienziati”, noi presentammo i nostri dati sulla patogenicità delle polveri, e per questo si scomodò pure una troupe della TV svizzera, e che, attraverso un suo professore, fece partire l’informazione sul “problema” del nostro microscopio). Di qui potrebbe venire la considerazione che l’università italiana ha perso l’ennesimo treno. Uno più, uno meno… Fatte salve le debite eccezioni, lodevoli a maggior ragione perché espresse a volte eroicamente in un ambiente del genere, l’università italiana è oggettivamente fallimentare a somiglianza di quasi tutte le istituzioni di cui sopportiamo il peso, dalla sanità, splendida solo sulla carta, alla scuola preuniversitaria sempre più avvilente, alla giustizia dai tempi geologici, al sistema di trasporti, al sistema pensionistico, al sistema di controllo sull’ambiente, all’organizzazione demenziale dello stato zavorrato da creazioni cialtronesche come le province o le circoscrizioni o le comunità montane e da un esercito pletorico di stipendiati non inutili ma dannosi, e chi più ne ha, più ne metta. Ma, restando all’università, sia chiaro che è da lì che ci si aspetta esca la classe dirigente del paese, e se ci tapperemo gli orecchi, come è uso pediatrico fare da noi, davanti alle critiche altrui, se non ci confronteremo allo specchio con noi stessi facendo una sana autocritica e se non la pianteremo con questi furbetti cinti d'alloro di plastica lì solo con la mira di fare i loro squallidi affari, non avremo futuro. In un mondo crudelmente competitivo come quello in cui viviamo e, ancor di più, vivremo, i gamberi perderanno sempre la corsa con i cavalli. Anche se questi sono dei ronzini.

 P.S. Arriva oggi, 6 gennaio, un commento in cui mi si chiede d'inviare il post ai giornali locali. Sarebbe fatica sprecata. I giornali locali, ad immagine e somiglianza di quelli nazionali, mi trovano fastidioso (ancor di più da quando pretendo di rivedere prima della pubblicazione le ormai rare interviste che concedo a scanso di fesserie) e preferiscono ospitare argomenti meno impegnativi. Dopotutto, l'università non è un bell'argomento a Modena. Se l'Italia occupa un posto di retroguardia nella citata classifica della libertà d'informazione, una ragione c'è.