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Antonio Canova. Se il marmo diventa carne viva

di Redazionale - 07/01/2008



Centenari / Alla Galleria Borghese di Roma una raccolta di opere del grande scultore compresi alcuni dipinti giovanili
Un sottile ma infallibile equilibrio tra antico e moderno, verità e idea
Secondo il dettato neoclassico i ritratti non sono mai naturalistici, una copia del vero
Sono esposti disegni e bozzetti autografi provenienti da varie collezioni

Una bella donna ha a disposizione due soli modi per sfuggire all´oltraggio della decadenza fisica: morire prematuramente o confidare nel potere taumaturgico dell´arte. Ha compiuto duecento anni la Paolina Borghese di Canova, ma non li dimostra. Il tempo continua inesorabile a scorrere, ma non è più in grado di intaccare la sua fulgida bellezza eternata nel marmo, che ha ormai preso stabile dimora nel nostro immaginario collettivo: scivola inoffensivo sulle dolci rotondità e sul profilo altero della Venere imperiale, che cela sotto una maschera di nonchalance la soddisfazione per il trionfo sulle due temibili rivali, ma non abbastanza da non lasciarla trapelare dalla salda presa con cui stringe nella sinistra il pomo della vittoria e dal falso distacco di quella sua posa mollemente sdraiata, ma in realtà ben eretta sui fianchi ed elegantemente puntellata dal braccio destro e da una catasta di cuscini.
Ma i centenari vanno festeggiati comunque, e per farlo degnamente Anna Coliva e Fernando Mazzocca hanno convocato alla Galleria Borghese una raccolta di opere canoviane davvero d´eccezione, per far da corona alla Paolina e trasformare l´omaggio dovuto in una preziosa occasione di approfondimento e di rilettura critica («Canova e la Venere vincitrice», catalogo Electa, fino al 3 febbraio). Sono una dozzina almeno le statue canoviane generosamente prestate per l´anniversario dalle più varie e disperse collezioni, cui si aggiungono splendidi disegni e bozzetti autografi provenienti dalle raccolte canoviane di Possagno e Bassano, ed anche un certo numero di dipinti, tra i quali un paio di tele giovanili con cui il sommo scultore, che coltivò vita natural durante l´hobby della pittura, anticipò l´idea compositiva della Paolina, ispirandosi alla grande tradizione veneta delle Veneri sdraiate inaugurata da Giorgione e Tiziano.
Quanto alle statue, gravitano tutte intorno all´aureo periodo in cui Canova scolpì la sua Paolina Borghese in veste di Venere vincitrice (1804-1808). Ma soprattutto appartengono tutte ai due generi artistici cui essa stessa appartiene, e cioè alla categoria delle «sculture gentili e amorose», il genere in cui Canova era unanimemente considerato ineguagliabile (lo ammetteva anche il suo più ostinato detrattore, il critico tedesco Fernow, sponsor del giovane Thorvaldsen), e alla categoria del «ritratto divinizzato». Tra queste ultime, spiccano l´efebico principe Lubormiski sotto le mentite spoglie di un Amorino con tanto di arco e frecce (proveniente dal castello di Lacut in Polonia), l´Alexandrine Bleschamps, moglie di Luciano Bonaparte, in veste di Musa Tersicore (dalla Fondazione Magnani Rocca), la Leopoldina Esterházi, anch´essa atteggiata a mo´ di Musa (dal castello Esterházi ad Eisenstadt, in Austria) ed infine la Musa Polimnia che, nata come effigie divinizzata di Elisa Baciocchi Bonaparte, nella definitiva versione in marmo subì un opportuno trattamento «spersonalizzante» a seguito della caduta in disgrazia dell´effigiata.
Ligio al dettato neoclassico, che spregiava la copia servile del vero, Canova evitava quanto più possibile il ritratto di tipo naturalistico, ricorrendo al travestimento idealizzante. Non senza produrre qualche imbarazzo nei suoi pur grati e devoti committenti, come nel caso di Napoleone, che accettò malvolentieri di essere trasformato in una nuda divinità guerriera, e nella stessa Paolina, sua deliziosa e volubile sorella, che nutrì sentimenti ambivalenti nei confronti della nudità della propria effigie di Venere vincitrice, oscillando tra compiacimento e pudore.
Alla ripulsa del ritratto come banale copia del «vero» corrispondeva del resto la ripulsa nei confronti della servile copia dei capolavori antichi, ovvero del «bello». «Imitare per divenire inimitabili», aveva sentenziato Winckelmann, indiscusso profeta del Neoclassicismo, ma aveva aggiunto: attenzione! Imitare non significa copiare, bensì assorbire fino in fondo, ma poi riprodurre autonomamente la lezione che gli artisti antichi ci hanno tramandato nei loro capolavori. E Canova lo aveva preso alla lettera, disdegnando chiunque gli chiedesse una copia di un marmo antico, ma al tempo stesso cimentandosi ripetutamente in quelle che potremmo definire altrettante «sfide rispettose» nei confronti dei capolavori classici.
Come quando imitò il più osannato di tutti, l´Apollo del Belvedere, eseguendo un Perseo trionfante che ne rappresentava una sorta di «ripetizione differente», ma guardandosi bene dal nascondere il suo debito, anzi, dichiarandolo al punto da esibire nel suo studio la nuova statua con accanto il calco dell´Apollo, affinché fossero ben evidenti tanto le analogie che le differenze. In questa mostra, è presente in ben due versioni, quella originaria di Pitti e la più tarda replica di Leeds, un altro eccelso esempio di queste sfide canoviane: la Venere italica, liberamente ispirata alla celebre Venus pudica delle raccolte medicee.
Grazie a queste presenze d´eccezione, risulterà forse più agevole carpire qualche segreto in più all´eterna bellezza della Paolina. Coglierne la sapiente rielaborazione di spunti dall´antico e dalle Veneri di tradizione veneta. Constatare quanto il cedevole materasso di marmo su cui è adagiata Paolina debba al mirabolante materasso imbottito e trapunto del restauro che il giovane Bernini escogitò per l´Ermafrodito Borghese (convocato appositamente in mostra dal Louvre, dove emigrò insieme a tutti gli altri marmi antichi a seguito della sciagurata vendita da parte di Camillo Borghese, marito di Paolina, al cognato Napoleone).
Ma soprattutto sarà possibile rileggere con occhi più consapevoli il sottile ma infallibile equilibrio con cui Canova sa mantenersi in bilico tra antico e moderno, verità e idea, carnalità e astrazione, senza scivolare mai, né da una parte né dall´altra. Mettendo a contrasto la «verità» di un sofà che sembra preso di peso dall´arredo della villa con la bellezza ideale della donna che vi si è adagiata sopra. Una donna che iscrive il fascino seduttivo del suo corpo sinuoso nel geometrico dispositivo di un´astratta sequenza di schemi triangolari. Morbide curve dentro un´invisibile armatura di linee rette. Pieni cui fanno eco vuoti, entrambi calibrati al millimetro. Una donna, che è però una dea. Un marmo, che è però «vera carne».