Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / I Lakota vogliono la libertà

I Lakota vogliono la libertà

di Francesco Bevilacqua - 07/01/2008

E’ notizia di pochi giorni fa la dichiarazione - tanto eclatante quanto preoccupante per il governo americano – dei rappresentanti delle Cinque Nazioni Lakota (abitate dal gruppo noto ai più come Sioux, dal nomignolo assegnato loro dai coloni francesi) che hanno reso nota l’intenzione di dichiarare unilateralmente l’indipendenza dal governo degli Stati Uniti, procedendo già ad attuare le operazioni formali per sancire l’emancipazione, quali la creazione di passaporti e documenti propri, la sottrazione agli obblighi tributari e, forse la più importante, l’allacciamento di relazioni formali ed autonome con governi stranieri quali Bolivia, Sud Africa e Venezuela.

 

Le motivazioni che hanno portato a questa decisione sono riconducibili al raggiungimento dell’apice di un percorso di oppressione e svilimento culturale, politico e fisico scientificamente attuato dal governo americano a partire dai primi anni del secolo scorso; unitamente a ciò, probabilmente, la scintilla che ha innescato l’incendio è stata la maturazione politica dei capi tribù Lakota e il raggiungimento di una sostanziale unità interna (non bisogna dimenticare che all’interno delle riserve è molto difficile la convivenza fra i coloro che sono rimasti radicati alle proprie tradizioni e quelli se ne sono invece allontanati, perseguendo la strada della mercificazione della cultura nativa o quella dello stile di vita da emarginati sociali che caratterizza molti indiani d’oggi).

 

Dal punto di vista politico la rivendicazione principale è quella della rescissione di tutti i trattati stipulati nella seconda metà del XIX secolo (soprattutto del più importante di tutti, quello di Fort Laremie del 1868), accompagnata dall’accusa della sistematica violazione di tali trattati. Fra l’altro è emblematico rilevare la contraddizione giuridica all’interno della quale si sono sviluppati i rapporti fra nativi e governo federale: dagli inizi del ‘900 infatti tutti gli abitanti delle riserve hanno assunto lo status di cittadini americani; peccato che la costituzione affidi ai trattati il compito di disciplinare i rapporti nel solo ambito internazionale, rendendoli di fatto inadatti all’uso che, conformemente alla pratica del colonialismo interno teorizzata da Roosvelt, ne veniva fatto e che persiste tutt’ora.

Ripercorrendo brevemente la storia della “colonizzazione” dell’entroterra americano è inoltre impossibile non rilevare le palesi contraddizioni che l’hanno caratterizzata: la formula introduttiva del trattato di Fort Laremie stabiliva infatti che “da questo giorno in poi ogni atto di guerra cesserà per sempre. Il governo degli Stati Uniti desidera la pace e si impegna con il suo onore per mantenerla. Gli indiani desiderano la pace e si impegnano con il loro onore per mantenerla”; di soli sei anni successiva è però la battaglia delle Black Hills, zona ampiamente tutelata dal trattato in quanto territorio sacro per i Lakota che però si trovava nel bel mezzo dei territori oggetto degli interessi dei cercatori d’oro provenienti dall’est; nel 1890 si compì poi una delle più vili e sanguinose carneficine ai danni dei nativi, che fino a pochi anni fa era considerata una battaglia, nonostante gli indiani – disarmati – avessero subito più di duecento perdite mentre l’esercito regolare neanche una: il massacro di Wounded Knee.

Meno cruente ma altrettanto dannose sono state inoltre le pratiche attuate in tempi più recenti ai danni delle tribù sopravvissute alla colonizzazione, dalla lottizzazione e vendita di ampie porzioni di territori indiani nel corso degli anni ’30 ai “progetti educativi” federali studiati per i nativi e basati sulle cosiddette scuole residenziali.

 

Ma che valore può avere questa dichiarazione e quali prospettive la caratterizzano?

Dal punto di vista politico la comunità dei nativi ha un peso specifico molto basso (l’unica arma che possono brandire è l’esenzione dalle leggi federali sul gioco d’azzardo che consentono la gestione dei casinò, ma è allo studio un progetto di legge che annullerebbe tale prerogativa); numericamente la comunità nazionale conta circa 1.500.000 di persone, distribuite in 280 tribù e quasi 600 sotto-gruppi; è ovvio che una tale divisione territoriale – a cui si unisce la differenza di approccio sociale e culturale citata prima – non aiuta di certo. Gli stati maggiormente abitati inoltre (North e South Dakota, Oklahoma) sono roccaforti repubblicane in cui le poche migliaia di voti che le comunità native potrebbero spostare non fanno certamente la differenza.

Questa dichiarazione appare quindi come un Davide che sfida Golia a colpi di fionda e, politicamente, un suo esito positivo è quantomeno utopistico.

 

Un’analisi che non si concentri sulle sole implicazioni politiche ed elettorali è però più ottimistica. E’ certamente positiva questa voglia di autodeterminazione, soprattutto se vista da un punto di vista geopolitico, che va al di là dei confini nazionali: sarebbe senza dubbio un buon segno la costruzione di una rete di solidarietà internazionale, che non includa necessariamente solo governi di stati riconosciuti, capace di sostenere e legittimare a livello ideologico e culturale (e magari, in un secondo tempo, anche politico…) la lotta dei nativi.

In un contesto nazionale è semplicemente esemplare il carattere indomito della comunità indiana che, dopo secoli di sistematici tentativi di sradicamento, svilimento culturale ed eliminazione fisica ha ancora la forza non solo di resistere ma addirittura di contrattaccare il governo americano sul suo stesso campo.

 

Tuttavia anche queste considerazioni suscitate dall’analisi della situazione - ad una prima occhiata certamente interessante - vanno elaborate con attenzione: Winona Laduke, portavoce dei Lakota, tempo fa ha espresso al Congresso le sue preoccupazioni principali, caratterizzate non già dalla repressione sistematica subita quanto piuttosto dall’incolmabile distanza di piani culturali e spirituali con lo stile di vita e di pensiero occidentale che rischia seriamente – lo sta già facendo – di condizionare e modificare la stessa mentalità nativa, che da secoli si basa su archetipali manifestazioni e cerimonie sacrali che scandiscono un ritmo di vita perfettamente armonizzato con quello naturale, che oggi viene inesorabilmente spazzato via dal progresso e dalla civilizzazione. Conformemente a ciò, anche le pratiche che regolano – o regolavano – le relazioni umane e “politiche” sono totalmente antitetiche rispetto alla degradante politica occidentale e una trasmigrazione dall’una all’altra, anche se nell’immediato potrebbe avere effetti positivi, non rappresenterebbe altro che un ulteriore passo in direzione dell’assimilazione culturale ad un modello che non appartiene alla cultura indiana e mai potrà appartenervi e che quindi comporterà, inevitabilmente, la sua scomparsa.