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Nuovo ordine mondiale: scenari di crisi

di Raffaele Ragni - 07/01/2008

 

Nuovo ordine mondiale: scenari di crisi

Tra un anno e l’altro, i massmedia sono soliti diffondere i principali dati sull’andamento dell’economia. La prima impressione è che abbiamo sempre gli stessi problemi e nessuno sembra capace di risolverli. Ma un esame più attento rivela che, tra le tante disfunzioni del sistema, alcune persistono perché sono funzionali ai suoi equilibri (es. precariato, disoccupazione, guerre, migrazioni), altre perchè sono prodotte proprio dagli operatori che le dovrebbero gestire (es. crac finanziari, debito pubblico, inflazione). Se poi consideriamo gli scenari di crisi che potrebbero avere carattere destabilizzante, notiamo che preoccupa molto il degrado ambientale, mentre scarsa attenzione viene riservata ad un fenomeno di contrazione ciclica, come il calo degli investimenti, affrontato da grandi economisti del passato con preoccupazione e sorprendente attualità.
Adam Smith, fondatore della moderna economia politica, afferma che l’origine della ricchezza è nel processo di accumulazione, che è alimentato dalla ricerca del profitto da parte degli imprenditori. Joseph Schumpeter, studioso dello sviluppo capitalista, sostiene che il benessere di una collettività dipende dall’audace iniziativa degli imprenditori che investono nell’innovare prodotti e processi. Se tutto ciò è vero, cosa accade quando gli imprenditori decidono di non investire o investire di meno? E per quale ragione ciò dovrebbe accadere? Una cosa è certa: il capitalista smette di investire, non soltanto perchè ha guadagnato poco, ma soprattutto perchè prevede di non guadagnare abbastanza o addirittura di rimetterci soldi. Come spiega Karl Marx, ampliando alcune intuizioni di David Ricardo e John Stuart Mill, il calo degli investimenti è il risultato della caduta tendenziale del saggio di profitto, effettivamente avvenuta o soltanto prevista.
Ogni progetto d’investimento comporta l’impiego di moneta per l’acquisizione di terreni, impianti, brevetti, licenze. Una volta realizzato, l’investimento consente all’impresa nascente di iniziare l’attività, e all’impresa già operante di innovare le tecnologie e l’organizzazione per ampliare, diversificare o differenziare la produzione. In particolare, ampliare significa produrre le stesse merci in quantità superiore, diversificare significa aggiungere nuovi prodotti con usi e mercati diversi, differenziare significa produrre beni e servizi essenzialmente identici utilizzando il marketing per creare differenze reali o fittizie nell’immaginario dei consumatori allo scopo di fidelizzare o conquistare determinati mercati.
Il pensiero economico classifica gli investimenti in base all’area funzionale di destinazione, all’obiettivo che perseguono, al grado di rischio, alla tempistica dei flussi monetari. Sono investimenti di espansione quelli che fanno aumentare il fatturato annuo dell’azienda, ad esempio attraverso il lancio di un nuovo prodotto o con il raddoppio di una linea. Sono investimenti di razionalizzazione quelli che, anche se non comportano un aumento del fatturato, consentono una riduzione dei costi, come nel caso di nuovi impianti che permettono di risparmiare sulla manodopera. Sono investimenti di sostituzione quelli che impediscono l’incremento dei costi di manutenzione ed eventuali perdite di produzione, ad esempio sostituendo una macchina fisicamente logora. Sono infine investimenti a redditività indiretta quelli che producono benefici stimabili in termini d’immagine e legalità, come nel caso dell’adeguamento a normative ambientali o accordi sindacali.
L’imprenditore valuta la convenienza di un progetto confrontando il capitale investito con il flusso di guadagni netti che, anno per anno, presume di poter ottenere, e considerando anche l’eventualità che un aumento di fatturato possa comportare un incremento nel costo dei fattori produttivi. Il confronto avviene tra due grandezze: il saggio di rendimento, che è il reddito derivante dall’investimento espresso in percentuale sul capitale investito, e il saggio d’interesse, che esprime il costo della moneta presa a prestito dalle banche o raccolta con l’emissione di valori mobiliari, se l’azienda è quotata in Borsa o al Mercato Ristretto.
Anche se l’iniziativa è finanziata con l’utilizzo di capitali propri, cioè con il reinvestimento dei profitti, l’imprenditore deve comunque prendere in esame un saggio di interesse, che esprime il guadagno che otterrebbe se, invece di impiegare liquidità nell’ampliare l’impresa, decidesse di mantenere il denaro fermo sul conto corrente bancario o di investirlo in Borsa. Pertanto, il costo del denaro influenza sempre gli investimenti: se è elevato li scoraggia, se contenuto li favorisce.
Un’altra variabile in grado di condizionare le decisioni degli imprenditori è rappresentata dalle aspettative circa l’andamento del mercato e i prezzi dei fattori produttivi. Un mutamento dell’orizzonte politico può essere valutato positivamente e indurre all’euforia, cosi come un’analisi della congiuntura redatta da un autorevole centro studi può indurre alla prudenza e rallentare il ritmo degli affari. In genere, l’ottimismo incoraggia nuove iniziative, mentre il pessimismo le frena. Se le previsioni sono sfavorevoli, gli investimenti tendono a diminuire, per quanto possa scendere il costo del denaro.
Spesso il clima, favorevole o sfavorevole alla crescita degli investimenti, si forma in seguito alla diffusione di rilevazioni statistiche redatte in base a questionari distribuiti alle aziende. Per quanto possa apparire paradossale, se la maggioranza degli intervistati ritiene che il futuro sarà difficile, la pubblicazione di questi risultati porta alla loro conferma: gli imprenditori si persuadono ancor di più che le loro previsioni sono esatte e accantonano ogni progetto in attesa di tempi migliori.
Individuati i fattori che incidono sugli investimenti, cioè il costo del denaro e le aspettative del mondo imprenditoriale, per capirne gli effetti macroeconomici bisogna considerare la duplice natura del fenomeno. Nel breve termine è una decisione di spesa, e come tale incide sulla domanda globale, nel lungo termine è un incremento di capacità produttiva, e come tale richiede nuovi mercati di sbocco. Durante il periodo di gestazione, che intercorre tra l’acquisto di macchinari e il loro funzionamento a pieno regime, il reddito cresce e stimola ulteriori investimenti creando un circolo virtuoso. Ma se il mercato non è tale da assorbire l’intera capacità produttiva, è difficile che gli imprenditori continuino ad investire. Si crea così un circolo vizioso: minori iniziative significano minore domanda, quindi una quota più ampia di capacità produttiva inutilizzata, fenomeno che genera aspettative ancora più pessimistiche e determina un ulteriore calo degli investimenti. Questa discontinuità nel processo di sviluppo, indotta dalla dinamica degli investimenti, è all’origine delle fluttuazioni congiunturali. Marx parla in proposito di anarchia del mercato. A suo giudizio, il carattere non pianificato della produzione capitalista impedisce alle singole imprese di conoscere in anticipo, se non approssimativamente, le dimensioni del mercato, per cui l’offerta tende ad adeguarsi alla domanda solo per aggiustamenti successivi alle decisioni d’investimento. Può quindi accadere che un settore produca un volume di merci eccessivo rispetto alla capacità di assorbimento del mercato, e sia costretto a contrarre la produzione senza che vi sia una simultanea espansione in altri comparti. Così la crisi si generalizza secondo un meccanismo di reazione a catena.
Le premesse marxiane sono giuste, perchè effettivamente gli imprenditori non possono prevedere con esattezza le dimensioni e l’andamento della domanda futura, neanche avvalendosi di analisi settoriali o indagini di mercato, che servono soltanto da guida agli investimenti. Ma le conclusioni sembrano sbagliate, perchè l’anarchia del mercato non conduce necessariamente al crollo del sistema, sebbene la crisi possa coinvolgere diversi settori. Di fronte alle improvvise o prevedibili oscillazioni della domanda, imprenditori e manager assumono atteggiamenti non soltanto reattivi, ma anche proattivi, mediante strategie di marketing che mirano a condizionare, oltre che a monitorare, l’andamento del mercato.
In tal modo, creando bisogni sempre nuovi e stimolando il consumismo, viene scongiurata l’eventualità di una caduta tendenziale del saggio di profitto e di una crisi generalizzata imputabili alla carenza di domanda. Cambiano le mode e le abitudini, emergono nuovi bisogni, lo sviluppo delle tecnologie produttive e distributive accresce le opportunità di investimento, e così, alla contrazione di alcuni mercati, corrisponde sempre l’allargamento di altri o l’apertura di nuovi. Il sistema economico si adatta, attraverso aggiustamenti spontanei, alla nuova configurazione dei rapporti tra sfere, mercati e operatori. Le crisi hanno breve durata e scarsa intensità. Il meccanismo di reazione a catena innescato da una situazione di sovrapproduzione o sottoconsumo, che caratterizza i principali scenari di crisi descritti nella storia del pensiero economico, ha efficacia circoscritta e non produce effetti destabilizzanti.
L’induzione ai consumi non impedisce però che un calo dei profitti possa derivare, non dalla carenza di domanda, ma dall’incremento dei costi, che può essere causato non solo da fenomeni congiunturali - come l’aumento del costo del lavoro o delle materie prime - ma principalmente dal processo di continua innovazione imposto dal conflitto competitivo e dalla globalizzazione dei mercati. Si verificherebbe così un circolo vizioso, diverso da quello descritto da Marx, secondo cui gli investimenti nel marketing e nella ricerca, resi indispensabili dalla necessità di prevenire un calo dei profitti per carenza di domanda, rischiano di determinare un calo dei profitti per incremento dei costi, nella misura in cui gli investimenti sostenuti non producano l’attesa espansione delle vendite.
Per scongiurare questa eventualità, imprenditori e manager dispongono di numerose metodologie gestionali, di pianificazione e controllo, basate sull’analisi degli indici di bilancio e dei flussi finanziari. Il return on equity (ROE) descrive sinteticamente i risultati della gestione aziendale. Il return on investment (ROI) riassume la redditività del capitale investito. Il return on sales (ROS) esprime la capacità di profitto ottenibile nel ciclo di lavorazione, che va dall’acquisto delle materie prime alla vendita del prodotto finito. Questi ed altri indicatori reciprocamente correlati, misurando la redditività di un investimento e valutando l’efficacia dell’attività direzionale, consentono d’intervenire tempestivamente per risolvere le disfunzioni organizzative, ottimizzare l’allocazione delle risorse e seguire l’evoluzione del mercato.
L’efficacia degli strumenti di controllo econometrico non serve tuttavia a scongiurare l’eventualità di un crollo del sistema. Diversi fenomeni sociali possono avere carattere destabilizzante - precariato, immigrazione, inquinamento, finanziarizzazione del capitale - se aumentano in maniera superiore alla capacità di assorbimento del sistema. L’economia ritrova sempre un equilibrio, anche a costi socialmente inaccettabili. In ogni sua disfunzione possiamo individuare una forma di ingiustizia o il preludio di una catastrofe, ma affinché la crisi assuma carattere rivoluzionario, occorre una strategia politica. Si possono gestire i problemi senza risolverli, impegnarsi a trovare subito soluzioni condivise, o semplicemente aspettare che la crisi si aggravi, purché la veglia serva a produrre, non belle gesta e fatue ribellioni, ma un lucido programma di governo per la rinascita nazionale.