1.1.2006. Khan Younis, a sud della striscia di Gaza. In centro. Un paio di spari. A pelle ho pensato: il consueto gratuito gesto di clamore, come ieri sera per festeggiare il Capodanno, forse perche' i fuochi d'artificio costano di piu'. Una frazione di secondo dopo ne intuisco la vicinanza e tendo istintivamente al riparo. Mi volto: un uomo in tuta mimetica con un kalashnikov puntato verso l'alto (ce l'hanno forse anche con Allah) si precipita a 5 metri da me e trascina con se' uno dei miei compagni di viaggio, caricandolo su una Mercedes che fila via a razzo.
Eravamo parte di una delegazione al seguito dell'europarlamentare Luisa Morgantini. Avevamo appena incontrato alcuni rappresentanti della coalizione democratica che si presenta alle prossime elezioni palestinesi (28 gennaio), dopo aver visitato molte altre iniziative di ricostruzione della polvere che resta del locale tessuto sociale, economico, culturale: non solo l'UNRWA (l'Agenzia delle Nazioni Unite per i Profughi, ormai stanziale da decenni), ma soprattutto molte iniziative locali, specie di carattere educativo.
Stavamo dunque uscendo dall'edificio dove si era svolto l'ultimo incontro e a pochi passi ci attendeva il pulmino. Una nostra ospite, una delle tante coraggiose donne che qui abbiamo incontrato, appena scorto il pericolo, si e' posta a fronte della vettura su cui ormai meta' del gruppo era salita, mentre altri hanno protetto coloro che ne erano ancora fuori. E' grazie a loro, ai nostri interlocutori, che soltanto uno di noi e' stato sequestrato; che gli attentatori sono stati riconosciuti ed individuati; che il caso si e' risolto in breve tempo.
Torniamo rapidamente all'edificio di prima; per sicurezza ci conducono all'ultimo piano. La mobilitazione e' immediata e generale: polizia, esercito, rappresentanti politici e della societa' civile sono li', per noi e con noi. Sono li' con noi perche' conoscono e sono eufemisticamente grati a Luisa per l'incommensurabile energia che spende ormai da vent'anni a favore della causa palestinese. Sono li' con noi perche', ripeteranno senza sosta, "si vergognano" dell'accaduto: "vergogna", parola semplice ma pregnante, perche' generalmente si vergogna un individuo, non una collettivita'. E' un'esperienza piu' unica che rara osservare il rammarico di una societa' che si sente disonorata dai suoi frutti acerbi, impossibilitata a controllarli e infine defraudata delle proprie speranze di un processo di stabilizzazione. La paura non e' un sentimento che mi appartiene; semmai ho provato preoccupazione per la sorte di Alessandro, non tanto perche' fosse plausibile un omicidio, quanto perche' l'idiota armeggiare con giocattoli veri e la recita del valoroso resistente possono concludersi in tragedie gratuite. Alessandro avrebbe parlato di se' e delle motivazioni che l'avevano spinto in questa terra. Soprattutto, tutti noi confidavamo nel fatto che Luisa e' il simbolo dell'Occidente che ascolta, che comprende, che tenacemente tenta di sbloccare una situazione ormai oltre ogni limite di sopportazione. Sarebbero dunque stati presto informati di aver catturato proprio il bersaglio sbagliato.
Nonostante cio', anzi proprio per cio', sono esplosa in un pianto di rabbia. Come reagire di fronte all'aporia che noi eravamo li' per loro, per acquisire consapevolezza e farci portavoci di problemi considerati sempre altrui perche' lontani, mentre la responsabilita' internazionale grava su di essi come un macigno? Fino a poco prima stavamo discutendo sulle vie per concretizzare ideali apparentemente troppo astratti e poi quella erala moneta con cui ci stavano ripagando? E' stato come se quella fioca luce che avremmo voluto portare e al tempo stesso accogliere in quella desolazione, si fosse definitivamente spenta.
Le risposte che il timore della societa' civile di fronte ai gruppi armati frena ogni tentativo di opporvisivi e che la debole OLP nella striscia di Gaza non ha alcun controllo, non mi erano bastate prima e non mi bastano ora. Prendo uno dei nostri ospiti a parte e gli faccio una sfuriata. Lui mi offre comprensione ma aggiunge pure, mortificato, che quegli episodi sono all-ordine del giorno, che i media vi danno risalto soltanto quando capita agli stranieri ma che essi coinvolgono spesso anche gli abitanti. Il giorno prima, 100 poliziotti armati avevano occupato il valico di Rafah, al confine con l'Egitto, appena aperto dopo il ritiro dei coloni dalla striscia di Gaza. Due giorni prima, tre britannici erano stati analogamente sequestrati. Il motivo: una disperante situazione economica che adduce tassi di disoccupazione impensabili. Le motivazioni politiche sono secondarie in tali casi, mi assicurano.Mi calmo. Ripercorro le parole ascoltate in questi giorni, i volti incontrati, le tante iniziative di stupefacente costruttivita' e creativita' che sorgono pur in un territorio oggettivamente occupato. Ribevo le lacrime gia' scese alla vista delle palesi violazioni dei piu' elementari diritti umani gia' nella West Bank, della costante attivita' israeliana di demolizione materiale e psicologica di un popolo che considera inferiore e nemico. Penso a come mi sentirei costretta a vivere in quell'autentica prigione che e' la striscia di Gaza. E capisco. La rabbia scompare, subentra persino la pieta'. Mi guardo attorno in un appartamento che si e' trasformato in un quartier generale e che cionostante si premura di offrire cordialita', calore, ospitalita', ostentando sorrisi su volti irrigiditi dal dolore e, ancora, dalla vergogna.
Consumo l'attesa con piu' calma, anche perche', grazie all'high tech del nuovo millennio, circa 40 persone hanno telefonato ai sequestratori, mentre l-intero establichment politico locale e nazionale ha spontaneamente contattato la Morgantini. Nel giro di un paio d'ore il rilascio e' gia' stato contrattato , ne occorreranno altre due per la liberazione definitiva.
La giornata non si conclude e anzi, si fa piu' nervosa. Dopo le dichirazioni alla stampa, corriamo al checkpoint: chiuso, ovviamente. Improponibile restare a Gaza. Telefoniamo al consolato che, solo in quest'occasione, interviene. Un'altra ora e mezza e in via eccezionale gli israeliani ci apriranno le porte. Nel frattempo, restiamo in ascolto dei bombardamenti che i medesimi israeliani scaricano gratuitamente sulla zona cuscinetto ora definita di sicurezza, che di giorno mietono vittime: ieri, due contadini. Penso: speriamo non siano cosi' stupidi da colpire questo lunghissimo tunnel di quasi un chilometro (il checkpoint) che hanno voluto e costruito loro stessi. Con noi, una madre ed un bambino che soffre di cuore e una coppia di anziani, di cui l'uomo immobilizzato su una carrozzina, impossibilitato a camminare e parlare. Il checkpoint si apre ai palestinesi soltanto alle 11 e alle 16 ed in eventuali, accertati casi di emergenza. Sono le 21 circa: noi otteniamo l'autorizzazione a passare, loro no. Ci opponiamo: passiamo tutti, italiani e palestinesi, oppure nessuno. Accolgono la madre col bambino; il vecchio avrebbe dovuto avvisare che necessitava della sedia a rotelle con cui si e' presentato perche' in tal modo ne avrebbero predisposta un'altra (che in realta', poi vedremo, c'era gia' accantonata in un angolo dell'ufficio di frontiera israeliano) ad accoglierlo, senza dubbio priva di qualsiasi supponibile esplosivo. Non ha avvisato, percio' o si alza sui suoi piedi scalzi e piagati o nulla, trascorrerra' la notte all'addiaccio. Noi non ci muoviamo ancora. Passa un'altra ora, in cui i soldati israeliani possono solo vederci senza udirci tramite le videocamere e dai megafoni invitare soltanto gli italiani ad oltrepassare il cancello. Dopo tre quarti d'ora, un funzionario israeliano si avvicina. La situazione si sblocca lentamente. Percorsa l-altra meta' del tunnel, al termine del quale ci perquisiscono da cima a fondo, compreso il controllo di tutte le fotografie scattate, ci chiedono quale problema ci fosse.
Non apriamo una discussione. Scorgiamo pero' un'altra famiglia, una madre e tre figli palestinesi, coricati ai bordi della strada, pronti ad affrontare la notte con una coperta. Anch'essi giunti in ritardo per rientrare a casa dall'ospedale per bambini talassemici. Questa volta, otteniamo soltanto il permesso che attendano il giorno successivo negli uffici di confine.
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