Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Un nigrita alla corte del papa

Un nigrita alla corte del papa

di Pietro Veronese - 08/01/2008

   
Prendendo spunto dall’arrivo a Roma nel 1608 di Don Antonio Manuel ne Vunda, ambasciatore e cugino del re del Congo, Pietro Veronese ricostruisce le vicende del regno cristianizzato del Congo e dei suoi rapporti con gli europei fra XV e XVII secolo.
Formatosi probabilmente durante il XIV secolo, il regno del Congo si presentava come un reame vasto, ricco e ben strutturato quando nel 1482 vi giunse il navigatore portoghese Diogo Cão. Due anni dopo la famiglia reale si convertì al cristianesimo, instaurando salde relazioni commerciali con i portoghesi, che a loro volta portarono a una forte penetrazione culturale tramite la diffusione del cristianesimo nel paese. Ma ben presto la presenza dei portoghesi divenne una pesante tutela e il re del Congo cercò aiuto presso il papa inviandogli l’ambasceria di Don Antonio Manuel.


Molte centinaia di anni fa, l’Africa cercò la prima volta di parlare al mondo con la propria voce. Credente fra i credenti, sovrano fra i sovrani, il re del Congo mandò un ambasciatore al Papa, che da Roma regnava su tutta la cristianità. Don Antonio Manuel ne Vunda varcò gli oceani e i continenti, affrontò corti ostili, pirati e briganti, perse quasi tutto il suo seguito e i suoi beni, impiegò quattro anni per raggiungere la sua destinazione. Infine, ammalato e ridotto in povertà, rimasto con soli quattro compagni d’avventura dei ventisei coi quali era partito, febbricitante, scorse dalla lettiga su cui lo trasportavano le cupole e i campanili della Città Eterna. Roma a sua volta, per quanto universale e caput mundi, era onorata e un poco stupefatta di accogliere un messo che veniva da così lontano e lo aspettava con gran pompa. Papa Paolo V aveva dato ogni disposizione. Un corteo di guardie e diaconi, chierici e prelati doveva accompagnare il nobile “nigrita” fino al suo cospetto. Ma il viaggiatore esausto, incapace di sorreggersi con le proprie forze, entrò invece dimesso e nel silenzio fra le mura. Il Papa lo accolse a palazzo meglio che poté, lo affidò alle cure dei suoi medici nelle stanze più belle, cedendogli il letto che era stato di Roberto Bellarmino negli appartamenti splendidi che venivano detti “il Paradiso”. [...] Ma a nulla valse. Il Nigrita stava di male in peggio, «travagliato da febre continua e maligna, con male di gola, di petto, di reni et di urine», come dettagliava il cronista vaticano. Il Papa, mostrandogli un riguardo mai concesso a imperatori o principi, venne in piena notte al suo capezzale per confortarlo e benedirlo «e gli tenne un gran pezzo la mano in fronte, pregatone da lui medesimo, il quale mostrò di ricrearsi non poco della visita di Sua Santità e si sforzava di dirgli alcune cose che aveva in commissione dal suo re, ma si trovava in tanta agonia e soffocato dal catarro che non poté finire di esplicare la sua intenzione e il suo desiderio». Prima dell’alba don Manuel «rese l’anima al Signore con molta devozione ed esempio, sì che venne a morire nella giornata delli tre magi».
Era domenica 6 gennaio dell’anno Domini 1608, quattrocento anni fa giorno per giorno. Quel re mago nero di pelle come Baldassarre, che però aveva perso i suoi doni per strada, non era riuscito ad avere la propria Epifania, ma solo un corteo triste al lume delle fiaccole. La pompa magna divenne pompa funebre: le stesse guardie svizzere, gli stessi chierici e mazzieri che avrebbero dovuto guidare don Manuel al soglio pontificio lo condussero invece alla sua tomba [...]. Il Nigrita fu seppellito in Santa Maria Maggiore e solo una ventina d’anni dopo, regnante un altro Papa, ebbe infine il monumento e il busto in marmo nero di Libia che ancora oggi fa mostra di sé nel battistero della basilica.
L’Archivio segreto vaticano custodisce la lettera che Alvaro II, re del Congo, aveva affidato a suo cugino Manuel e che insieme a lui era fortunosamente scampata a quattro anni di traversie. Ecco che cosa vi si legge: «Volsi ancora mandare a Vostra Santità un altro ambasciatore (oltre a quello inviato alla corte di Spagna, ndr), il quale è Don Antonio Emanuele, nobile della Corte mia, [...] al quale Vostra Santità darà intera fede, et credito in tutto quello, che con lei tratterà, [...] et supplico Vostra Santità quanto posso, et con molta humilità li conceda quanto egli supplica...». A noi piace pensare che il Nigrita, com’è sempre il caso per simili ambascerie, portasse con sé, oltre alle credenziali scritte, un messaggio più riservato e segreto, più importante, che per il fatto stesso di essere affidato alla memoria e all’eloquio di un legato, non potesse cadere in mani, o sotto occhi, inopportuni. Quel messaggio che sul letto di morte il nobile bakongo «non poté finire di esplicare».
C’era dunque da tempo presso la foce del fiume Congo - quel maestoso corso d’acqua che il primo navigatore portoghese giunto fin lì, Diogo Cão, nel 1482 aveva chiamato con intimorito rispetto Rio Poderoso - un grande regno. Le sue origini si perdono nella smarrita tradizione orale africana; le prime cronache europee che la raccolgono sono confuse e contraddittorie. Ma si presume esistesse da un secolo almeno quando, sbarcati dalle loro navi, gli emissari di Diogo Cão si spinsero con doni nell’entroterra e furono condotti alla sua capitale, Mbanza Congo, e al cospetto del re.
Quel regno poco aveva a che fare con l’attuale Stato africano dello stesso nome; il suo territorio, comunque molto vasto, corrispondeva piuttosto alla porzione settentrionale dell’odierna Angola. Di certo era un reame ben organizzato, dalla complessa struttura sociale e amministrativa, capace di sfruttare le ricchezze del sottosuolo (l’argento, il rame, il ferro), dotato di cospicua forza guerriera, con una propria moneta (certe conchiglie marine o «lumachelle», come le chiameranno i cronisti romani, nzimbu in lingua locale, della cui raccolta il sovrano deteneva il monopolio), un’amministrazione della giustizia, un culto. L’arrivo dei portoghesi, le loro grandi navi dalle candide vele, gli abiti, le armi, i manufatti impressionarono profondamente la corte a Mbanza Congo. Quando due anni dopo Diogo Cão ritornò, con nuovi presenti del suo re e riportando, completamente frastornati dagli splendori di Lisbona, i cortigiani bakongo che accettando il suo invito si erano imbarcati con lui (e con loro missionari, carpentieri e muratori chiamati a predicare il Vangelo e ad abbellire la capitale del regno), il sovrano affascinato e sopraffatto si convertì alla fede cattolica con tutta la sua famiglia. E insieme a lui l’intero regno.
Cominciò così, sulle due sponde del grande fiume Congo, un secolo cristiano. I monarchi vennero battezzati con i nomi dei portoghesi: Giovanni, Alfonso, Pedro, Diogo, Bernardo, Enrico, Alvaro I, Alvaro II. Mbanza Congo fu rinominata San Salvador e da molto lontano, lungo il grande fiume, si poteva sentire il suono delle sue campane. [...] Nella loro ingenuità i Mani Congo - come venivano detti nella loro lingua i sovrani - s’illudevano di poter instaurare un rapporto alla pari con i nuovi amici venuti dall’oceano. Alfonso I aveva addirittura stabilito un tasso di cambio tra le sue conchiglie e le monete portoghesi: dieci nzimbu per un rei, un kofo (cioè trenta chili di "lumachelle") per cinquanta cruzados.
Molto presto però, già all’inizio del Cinquecento, le cose presero un’altra piega. I portoghesi non s’erano spinti a sud lungo le coste dell’Africa [...] per amore della santa Croce o per cambiare in conchiglie le loro monete d’oro. Cercavano una via per le Indie e le loro ricchezze che fosse più sicura di quella terrestre. Del Congo volevano l’avorio e i metalli. E schiavi. Molti schiavi, sempre più schiavi, per le necessità della loro marineria, delle piantagioni di terraferma, dei ricchi e degli aristocratici nel territorio metropolitano nonché del porto fortificato che andavano attrezzando a Luanda, poco più a sud del regno del Mani Alfonso.
Una cosa era dunque l’aulico carteggio che i Mani Congo intrattenevano con i loro «fratelli cristianissimi» re del Portogallo (e poi di Spagna, quando le due corone iberiche vennero unificate), scambiando convenevoli, promesse e rassicurazioni; un’altra i rapporti spesso brutali - quando non di rapina - con i governatori locali, i capitani d’armi e di bastimenti, gli avventurieri di passaggio e qualche volta perfino con i missionari, che i successivi sovrani impararono presto a suddividere in devoti servitori di Cristo e in perfidi intriganti. A successive riprese i re del Congo resistettero alle richieste di rivelare l’ubicazione delle loro miniere; di cedere il controllo sull’isoletta che costituiva la maggior fonte di nzimbu; e alle domande incalzanti di nuove, sempre nuove partite di schiavi. Non che la corte di San Salvador ignorasse quella forma di servitù, ma essa era codificata dal costume e dalla tradizione, rispettava ruoli, usanze, gerarchie. Per gli schiavisti europei, invece, un negro era un negro, poco importava se fosse nobile o villano, già asservito oppure libero. Fin da subito la tratta ebbe effetti devastanti sul tessuto sociale e sui rapporti tra persone, etnie, villaggi.
I portoghesi non erano l’unico cruccio del fragile regno africano. Non mancavano i complotti contro il sovrano, i feudatari riottosi, le scorribande dei popoli confinanti o addirittura le incursioni nemiche fino al cuore di San Salvador. Il rapporto con gli europei era perciò da una parte sofferto, dall’altra invocato: qualche buon colpo d’archibugio salvò in più d’una circostanza il trono dei Mani Congo; l’amicizia dei re lusitani conferiva rispetto, prestigio, potenza. Con l’andare dei decenni il disagio crebbe però fino a diventare la nota dominante; le epistole regie indirizzate a Lisbona e poi a Madrid contenevano sempre più lamentele, rimostranze, rivendicazioni, proteste. Fino all’idea liberatrice, maturata nell’ultimo quarto del Sedicesimo secolo, di stabilire un rapporto diretto con il capo di tutti i monarchi cattolici, il rappresentante di Gesù in Terra, insomma il re dei re: il Papa di Roma.
L’intento di Alvaro II era semplice: emanciparsi dalla sempre più invadente tutela portoghese rivolgendosi al vero depositario del messaggio evangelico; raddrizzare i torti, ottenere giustizia da colui che incarnava il Verbo cristiano, la legge della verità e dell’amore fra gli uomini. Già suo padre Alvaro I ci aveva provato, inviando al Pontefice un portoghese di buoni sentimenti, un vero amico dei bakongo che da molti anni viveva alla sua corte, Duarte Lopez. Costui, affrontando un viaggio non meno travagliato di quello che sarebbe toccato un ventennio dopo a don Manuel, nell’estate del 1588 era giunto davvero fino al soglio pontificio e aveva avuto udienza da Sisto V. Ma solo per sentirsi dire dalla viva voce del Papa: «Appartenendo il regno di Congo al re di Spagna è a lui che deve rimettersi il negozio».
Molto cambia in pochi anni. Nuovi pontefici romani, più fiduciosi nel proprio potere, più desiderosi di affermare il primato della Chiesa, più aperti alle meraviglie del mondo lontano che proprio allora si incominciano a conoscere, destano nuove speranze a San Salvador. Paolo V Borghese invia lettere paterne, calorose, estremamente incoraggianti. Alvaro II decide di mandare fino a lui un figlio della sua terra, sangue del suo sangue, suo cugino primo, il trentatreenne Antonio Manuel ne Vunda, «di aspetto negro, ma di costumi nobili e gravi», preciserà il cronista vaticano. Questa volta la missione non dovrà fallire.
Sappiamo invece come andò a finire. Mentre l’ambasciatore moribondo, puntellandosi coi gomiti sui cuscini, cerca disperatamente di articolare il suo messaggio, Paolo V, tenendogli la mano sulla fronte, lo rassicura: «Con molta gravità et humiltà gli disse, che non si inquietasse, che come fosse risanato vi saria stato tempo di negotiare». Il tempo non ci fu. E il messaggio si è perso per sempre.