Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La nostalgia dell'infinito nella luce invernale che accende le cose di splendore

La nostalgia dell'infinito nella luce invernale che accende le cose di splendore

di Francesco Lamendola - 10/01/2008

 

 

Ogni giorno, poco prima del tramonto, un miracolo si ripete sotto i nostri occhi - se solo abbiamo occhi per vedere.

Si ripete ogni giorno e ogni giorno si prolunga di qualche istante, sempre uguale eppure sempre nuovo: come un dono inesauribile che si rinnova e, rinnovandosi, si offre sovrabbondante, senza mai accennare ad esaurirsi.

Non occorre andarlo a cercare; è lui che ci segue e ci si offre, umile eppure splendido, come una donna troppo innamorata per giocare a fare la preziosa, che non teme di esser meno desiderabile agli occhi dell'amato perché, in quel cercarlo e in quell'offrirsi senza condizioni, ella è fresca e spontanea in tutto il suo essere.

È il miracolo delle giornate che si allungano, del Sole che riacquista forza e luminosità, delle superfici che, smorte ed opache, s'incendiano di luce e di vita e rinascono a una nuova esistenza, rigenerate e rinnovate dalla prova del gelo e dell'oscurità.

È il miracolo di gennaio che ritorna e, pur stringendo le cose nella morsa del freddo e della neve, elargisce il dono munifico, specialmente nei minuti che precedono il tramonto, di un presentimento luminoso di bellezza, di forza e di speranza, mentre sparge nell'aria limpida un certo non so che di teneramente primaverile, quasi un profumo indefinibile di gemme, un turgore di attesa e d'imminente rivelazione.

Ed eccola, la rivelazione, proprio qui dalla finestra presso cui stiamo scrivendo: come una dolcissima amica è venuta a posarsi sui vetri, a fare cenno, a invitare lo sguardo a distogliersi dalla pagina e a inebriarsi della sua primizia d'infinito.

Le montagne vicine, dalle ripide severe pendici e dalle cime scintillanti di neve, fanno da sfondo a questa epifania del tramonto di gennaio, che illumina le cose di un magico fulgore prima di tornare a nascondersi, pudicamente, nelle ombre ancor precoci della sera.

Ed ecco la casa di fronte: bassa, semplice, circondata da una siepe e da un piccolo cortile; una casa comunissima, come mille e mille altre. Le persiane verdi sono abbassate, l'edera incornicia la tettoia e si arrampica sulla terrazza al primo piano; le tegole del tetto, il camino, gli abeti sullo sfondo, tutto è assolutamente normale, eppure…

Eppure, ecco l'epifania della luce d'inverno. Il Sole, già vicino all'orizzonte, ha trovato un varco e colpisce in pieno la facciata della casa: con un angolo d'incidenza particolarissimo, che non si ripeterà nelle giornate ardenti dell'estate, pur così lunghe e luminose. La investe in pieno, in maniera uniforme, e la accende, sì, questa è la parola giusta, la accende letteralmente, la trasfigura, come se provenisse non dall'esterno, ma dall'interno; come se le superfici avessero preso vita, gloria e magnificenza.

Come se fossero divenute incredibilmente sontuose e volessero offrirci la gioia della loro bellezza, del loro fremito di  pienezza, del loro anelito d'infinito.

Un dono straordinario, e tuttavia umilmente quotidiano, come un cielo azzurro e vittorioso in una piccola pozzanghera  d'acqua sporca..

I muri esterni della casa di fronte sono stati ridipinti di recente, lo sappiamo, con un deciso color rosso mattone; eppure, in questi istanti, non hanno più colore; sembrano bianchi, bianchissimi; sono interamente rischiarati dalla luce. Di più: sono divenuti di luce essi stessi; sono luce che splende e, splendendo, accende in cuore uno struggente sentimento di vita e di bellezza.

Ed ecco il secondo miracolo.

Il platano nudo, il platano spoglio che si affaccia alla finestra proietta, nel Sole, la sua sagoma su quella superficie splendente dei muri chiari e lisci: la sua sagoma scura, quasi nera, dai contorni netti, con la biforcazione dei lunghi rami che si levano in alto, come per pregare.

Il platano è lì, dalla bianca corteccia, davanti a noi, vicinissimo, che muove piano nel vento le ultime foglie dell'autunno, così vicino che potremmo quasi toccarlo allungando il braccio; e un altro platano, fatto di ombra scura, ma dalla forma e dalle dimensioni perfettamente uguali, si proietta e si allunga sulla facciata della casa, oltre la strada: e la sua ombra scura fa spiccare ancor di più la luce dei muri, creando un contrasto affascinante, inesprimibile a parole.

È come se la notte carezzasse il giorno, o come se una fontana zampillasse chioccolando nella sabbia del deserto: due estremi che si toccano, stupefatti e innamorati; e, toccandosi, si esaltano a vicenda, ingigantendo e sfiorando il mistero dell'Assoluto.

Come in un giardino Zen, ove gli elementi più semplici - la ghiaia rastrellata in onde curve, qualche sasso arrotondato, e null'altro - creano la sensazione dell'infinito, il magico incontro e l'abbraccio reciproco dello yin e dello yang.

La superficie luminosa dei muri e l'ombra allungata e forcuta che si stampa e si adagia su di essa divengano un tutto unico e armonioso, quasi un ideogramma allusivo scritto, su una pagina di pura luce, in una lingua misteriosa e, tuttavia, non interamente sconosciuta.

Momenti solenni, momento magici: assistere a un tale spettacolo di splendore è come essere introdotti a un rito sacro e segreto; è come essere chiamati a partecipare a tutto l'incanto e a tutta l'armonia del mondo.

Il tempo è sospeso; il ritmo della vita ordinaria è sospeso; ogni cosa abituale, già nota, già sperimentata, è abolita di colpo. Tutto è come sempre e niente è più come prima; le cose, le cose umili e quotidiane, si sono adornate di una vesta smagliante che le rende diverse, nuove e sorprendenti.

È come tornare ai cieli sconfinati dell'infanzia.

Il bambino piccolo vede le cose con occhi ben diversi da quelli, distratti e offuscati, dell'adulto. Le vede in tutto il loro splendore abbagliante, in tutta la loro forza prorompente, perché le vede per la prima volta e il suo sguardo incantato riflette tutta la freschezza aurorale di un mondo nuovo, che gli si spalanca davanti e gli offre i suoi tesori.

Ecco perché al bambino le cose parlano: parlano una lingua semplicissima, eppure all'adulto quasi incomprensibile, perché l'adulto l'ha dimenticata; anzi, nemmeno ricorda di averla mai saputa, di averla mai adoperata.

 

Torniamo ai muri luminosi della casa incendiata dal Sole basso dell'inverno.

Una nuvola, evidentemente, è passata davanti al Sole perché, di colpo, la magia si conclude, la luce scompare e le superfici tornano smorte e opache, come lo erano prima.

Anche l'ombra del platano, l'ombra meravigliosa e disegnata con estrema nettezza, che sembrava una cosa viva nel suo perfetto aderire alle vive superfici dei muri, è scomparsa di colpo; mentre il platano è ancora lì, tutto solo, nell'aria fredda del pomeriggio.

Ma tutto questo dura poco.

Ecco, di colpo, la luce che ritorna: e i muri son di nuovo vivi e luminosi; e l'ombra del platano è di nuovo viva e allungata come il corpo di una vergine; di nuovo i vetri, incendiandosi, ardono di uno splendore corrusco, simili a dei fuochi di felicità.

E gli alberi dietro i tetti, che spettacolo di una fastosità indicibile, senza pari!

L'abete che si trova al centro, più di tutti, ci incanta con la sua enorme figura patriarcale, con la sua possanza elegante; sintesi perfetta di forza e leggiadria.

I suoi palchi maestosi che si allargano in ogni direzione; più corti verso la cima, dove si alzano e si protendono verso il cielo, lasciando penzolare i rametti secondari, carichi di verdi aghi: è un colpo d'occhio ineguagliabile, uno spettacolo regale.

Quell'abete, illuminato dal Sole basso di gennaio, è adesso veramente il maestoso sovrano di una corte di giganti arborei, le cui cime svettano in alto, a venti metri dal suolo, nella gloria del giorno che ancora non vuol finire.

Questo giorno che ha strappato alle tenebre qualche istante in più di luce; e domani ne strapperà qualche altro; e così avanti, ogni nuovo giorno vincerà la notte con qualche altro attimo di Sole, di vita, di bellezza: fino alla primavera.

 

Questo, forse, è il senso riposto della vita.

Non l'attesa di una felicità futura, ma la consapevolezza della presente; non l'attesa della pienezza, ma il desto godimento delle cose in ogni loro sfumatura: anche ai loro timidi inizi, anche negli aspetti più "normali".

Perché, a guardare il mondo con gi occhi incantati di un bambino, ci si accorge che niente è normale, scontato, dovuto; che tutto è miracolo, rivelazione, grazia.

Che tutto è vita, bellezza, preghiera, lode e ringraziamento.

E che noi esseri umani siamo, forse, le uniche creature al mondo che si dimenticano di pregare, di lodare, di ringraziare.

Cerchiamo negli oggetti artificiali la bellezza, negli articoli costosi; oppure la vediamo solo quando essa è particolarmente appariscente, magari un po' volgare. Poveri ciechi, che brancolano al buio e credono di vedere più di tutti gli altri.

E poveri infelici, che inseguono lontani miraggi di gioia, di serenità, di pace lungo sentieri che li  allontanano sempre più da tali cose; e ignorano o disprezzano la verità che è lì, accanto a loro; anzi, ancora più vicina: proprio dentro di loro. Perché la bellezza delle cose che si accendono di luce tutto intorno, altro non è che la nostalgia dell'infinito che si accende nella parte più riposta, più segreta e più vera di noi stessi.

E la nostalgia è l'indizio del presentimento; del presentimento non di questa o quella cosa, non di questo o quel bene, ma della cosa in sé e del bene in sé. Altro essa non è che il presentimento, quasi doloroso tanto - a volte - ci punge il cuore, dell'Essere.

Tutte le cose anelano all'Essere; tutte le cose tendono all'Essere; tutte le cose lodano, pregano e ringraziano l'Essere.

L'universo intero è una preghiera di lode e di ringraziamento, come lo è l'incanto della luce di gennaio che accende di splendore le superfici delle cose.

Anche le tenebre della lunga notte, a loro modo, pregano, lodano e ringraziano; perché, se così non fosse, neanche la luce potrebbe pregare, lodare e ringraziare. Senza le tenebre la luce sarebbe, e basta. Invece essa loda e ringrazia perché, quando è giunto il momento, le viene conferito il potere di vincere il freddo e l'oscurità.

L'uomo soltanto è libero di scegliere se pregare oppure no, se lodare e ringraziare oppure no. L'uomo soltanto può scegliere di esserci, e basta.

Quando ciò avviene, ecco che il suo cielo si offusca e ogni cosa rientra nell'opacità e nel grigiore; e, allo stesso modo, si spegne anche la sua potente luce interiore.

Precipita nel buio, nel freddo, nell'inconsapevolezza.

Perché essere consapevoli significa saper vedere il mondo, in ogni istante,  come se fosse appena uscito dalle mani del Creatore, riscaldandoci ai suoi raggi, lodando con gratitudine la sua magnificenza. 

E, intanto,  saper coltivare la salda speranza della rivelazione finale, che abbatterà l'ultimo muro divisorio e che ci introdurrà, in un mare di luce, nella dimora eterna dell'Essere.