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Iraq, La “surge”: illusione e realtà

di Conn Hallinan - 10/01/2008





"Dove i morti sono fantasmi sul fragile pallottoliere utilizzato per calcolare la perdita, per valutare la tragedia"

--da Body Count del poeta Persis Karim

Di questi tempi sui media si parla del successo della "surge" Usa, che dagli inizi di gennaio 2007 ha riversato altri 30.000 soldati americani in Iraq. Ai primi di dicembre, il deputato statunitense John Murtha (Democratico eletto in Pennsylvania), critico nei confronti della guerra e stretto alleato della Presidente della Camera Nancy Pelosi, ha detto: "Penso che la surge stia funzionando".

I sondaggi indicano che le preoccupazioni per l’economia hanno preso il posto della guerra come questione principale per gli elettori, e che, anche se una maggioranza di americani vuole che i soldati se ne vadano, quelli che dicono che le cose stanno andando meglio sono balzati dal 33 % a quasi il 50 per cento.

Stanno andando meglio? Autobombe, violenza confessionale, e attacchi contro i soldati Usa sono calati, anche se il 2007 è stato l’anno più micidiale della guerra per gli americani. Ma la diminuzione della violenza ha qualcosa a che fare con la "surge"?

Come sottolinea Patrick Cockburn dell’Independent, gli americani e i media statunitensi tendono a "esagerare la misura in cui gli Usa stanno facendo politicamente il bello e il cattivo tempo, e hanno il controllo degli eventi nel Paese”.

Prendiamo gli attacchi contro gli americani, che sono diminuiti. La maggioranza di questi erano stati compiuti dalla resistenza basata sui sunniti. I sunniti, che sono cinque milioni dei 27 milioni di iracheni (ci sono 16 milioni di sciiti e 5 milioni di kurdi), dominavano il Paese sotto Saddam Hussein.

All’inizio, avevano formato una alleanza con al-Qaeda che si è rivelata un disastro. Al-Qaeda, una organizzazione sunnita estremista, ha preso di mira gli sciiti, che considera eretici. Gli attentati e le sparatorie incessanti che sono culminati nell’attentato del 2006 contro la Moschea d’oro di Samarra hanno incitato le milizie sciite, come l’Esercito del Mahdi di Muqtada al-Sadr, al contrattacco.

I sunniti all’improvviso si sono trovati a combattere una guerra su due fronti – contro gli americani e contro gli sciiti – una guerra che non potevano vincere. Presto sono stati cacciati da ampie parti di Baghdad dagli sciiti, subendo al tempo stesso perdite dalla campagna delle forze armate Usa.

Queste sconfitte li hanno costretti a ribellarsi ad al-Qaeda e a raggiungere un allentamento della tensione con gli Usa. In cambio, alle nuove milizie sunnite – come la Brigata Baghdad, i Cavalieri di Ameriya, e i Guardiani di Ghazaliya - sono stati dati veicoli, divise, giubbotti antiproiettile e 300 dollari al mese per ogni membro dagli americani. Iniziato mesi prima della "surge", il cosiddetto "Risveglio sunnita" presto ha schierato sul campo 77.000 miliziani, più dei 60.000 uomini dell’Esercito del Mahdi, e la metà dell’esercito iracheno.

Tuttavia, secondo il Sunday Times, molti di questi sunniti erano in precedenza membri di al-Qaeda, e l’attuale "tregua" con gli americani è poco più di una abile manovra tattica per guadagnare tempo. "Naturalmente la prossima guerra è con le milizie [sciite]", ha detto al Times Abu Omar, ufficiale dell’intelligence della Brigata Baghdad. "Se Dio vuole, li sconfiggeremo e ci sbarazzeremo di loro proprio come abbiamo fatto con al-Qaeda".

Il punto critico potrebbe arrivare se il governo sciita-kurdo del Primo Ministro Nuri al-Maliki rinvierà l’integrazione delle milizie sunnite nelle forze di sicurezza. "Se il governo continuerà a respingerle [le milizie sunnite]”, dice sul Sunday Times il comandante della Brigata Baghdad Abu Maroff, "sia chiaro che questa brigata alla fine si vendicherà".

Baghdad è più tranquilla perché è passata dall’essere una città di quartieri per lo più misti a una di enclavi rigidamente etniche controllate da milizie confessionali. Anche se questo nel breve termine ha abbassato il livello di violenza, non fa presagire nulla di buono per il futuro.

In breve, la "surge" ha assai poco a che fare con la diminuzione della violenza a Baghdad, e praticamente niente a che fare con la pace relativa nell’ovest dell’Iraq. Sono entrambe la quiete che fa seguito alla pulizia etnica.

Il sud dell’Iraq si è mantenuto per lo più tranquillo, ma, ancora una volta, questo non ha niente a che fare con la "surge". Gli Usa hanno poche forze nella regione, e gli inglesi sono stati cacciati da Bassora. Attualmente sono asserragliati in un aeroporto. Sotto la calma apparente, c’è tensione tra fazioni sciite rivali, in particolare l’Esercito del Mahdi di Sadr e la Brigata Badr del Consiglio Supremo islamico iracheno (SICI). Le forze di Sadr generalmente rappresentano il grosso delle masse sciite. Il SICI ha meno seguaci, ma molti più soldi dell’Esercito del Mahdi [Nel testo originale si fa riferimento, erroneamente, alla Brigata Badr NdT], e, cosa più importante, l’appoggio dell’esercito Usa.

Dopo un grosso conflitto a fuoco in agosto fra l’Esercito del Mahdi e la Brigata Badr a Karbala, Sadr e il leader del SICI, Abdul Aziz al-Hakim, hanno firmato un cessate il fuoco. Per Sadr, la tregua ha più a che fare con l’evitare una battaglia con il SICI nel momento in cui quest’ultimo può chiedere agli Usa di intervenire con dei rinforzi, che con una qualsiasi improvvisa conversione alla "surge". Parlando in una moschea, il 7 dicembre, al Sadr ha detto agli americani: “Andatevene dalla nostra terra. Non abbiamo bisogno di voi o dei vostri eserciti, gli eserciti delle tenebre; né dei vostri aerei, carri armati, delle vostre politiche, della vostra ingerenza, della vostra democrazia, della vostra finta libertà".

Le recenti autobombe ad Amara, capitale di una provincia del sud, non sono state opera di al-Qaeda - che non ha alcuna presenza nel sud in maggioranza sciita - ma un segnale di tensione crescente fra gruppi sciiti rivali. At stake La posta in gioco è il controllo regionale sui proventi petroliferi dell’Iraq, e il controllo dell’unico porto del Paese, Bassora.

Con il recente attacco oltre confine da parte della Turchia, unito alle crescenti tensioni interne nella regione, la pace nel nord ha tutta la stabilità di un deposito di polveri da sparo. Dall’invasione, il nord Iraq è stato un luogo di calma relativa perché è controllato dalla potente milizia kurda, i Peshmerga. Ma la violenza è in aumento, in parte perché gli insorti cacciati da Baghdad si sono spostati a nord. Ad esempio, gli attacchi a Mosul in novembre sono balzati da 80 a 106 la settimana.

La questione più esplosiva nel nord è l’autonomia kurda e un futuro referendum che deciderà chi avrà il controllo di Kirkuk, città ricca di petrolio, e della città strategica di Mosul [In realtà il referendum non riguarda la città di Mosul, ma alcune zone della provincia di Ninive, di cui Mosul è la capitale NdT]. Una regione autonoma kurda è qualcosa che vede contrari la maggior parte degli arabi iracheni – e tutti i vicini dell’Iraq. Turchi, siriani, e iraniani temono che un "Kurdistan" autonomo inciti movimenti simili per l’autonomia nei loro Paesi. E il governo di Baghdad teme di perdere i proventi dei giacimenti petroliferi che si trovano nel nord.

"Adesso stiamo finanziando tutte le principali parti belligeranti irachene, sunniti, sciiti, e kurdi", dice l’ex funzionario della CIA e della National Security Agency Bruce Reidel. "Sono felici di prendere le nostre armi e i nostri soldi, ma non hanno necessariamente abbracciato la nostra stessa strategia".

Anche se gli Usa dovranno iniziare a ridurre le truppe nel giugno prossimo, l’Amministrazione Bush dice che intende rimanere in Iraq. Il mese scorso, Bush e al-Maliki hanno firmato un accordo che, secondo il Financial Times, "apre la strada a una possibile presenza Usa a lungo termine in Iraq".

Certamente l’Ambasciata Usa a Baghdad si sta costruendo con in mente un’idea del genere. Quando sarà finita, il progetto da 736 milloni di dollari coprirà una superficie di 42 ettari, con 21 edifici rinforzati contro le bombe e i colpi di mortaio. Gestire l’enorme complesso costerà 1,2 miliardi di dollari l’anno.

Secondo un sondaggio di ABC/BBC/NHK, fatta eccezione per il nord kurdo, gli iracheni non solo sono contrari alla presenza Usa, [mai] il 57 per cento appoggia gli attacchi contro le forze della coalizione. Persino il governo Maliki deve muoversi con cautela in questo campo. Parlando alla stampa la settimana scorsa, il consigliere per la sicurezza nazionale iracheno, Mowaffaq al-Rubai’e, ha detto: "Forze o basi permanenti in Iraq per una qualunque forza straniera sono una linea rossa che non può essere accettata da nessun iracheno nazionalista".

Il successo della "surge" è un’illusione. "In Iraq nulla è risolto", dice Cockburn. "Il potere è totalmente frammentato. Gli americani scopriranno, come gli inglesi hanno imparato a loro spese a Bassora, di avere pochi alleati permanenti in Iraq. [Il Paese] è diventato una terra di signori della guerra nel quale fragili cessate il fuoco potrebbero durare mesi e potrebbero ugualmente rompersi domani".


Conn Hallinan è un opinionista di Foreign Policy In Focus (www.fpif.org)

Foreign Policy in Focus

(Traduzione di Ornella Sangiovanni)