Scrivere - mi è più evidente adesso, mentre riprendo questa rubrica dopo l’interruzione di fine anno - è questione delicata. Tu scrivi, le persone leggono, vivono le tue emozioni, le tue simpatie, la tua aggressività, seguono i tuoi ragionamenti: nuove risorse per loro, ma anche potenziali nuove gabbie, e possibili occasioni di nuove sordità (se si convincono, e poi incontrano cose diverse, anche autentiche, magari le ascoltano meno).
Anni fa seppi che avevano trovato il mio “Parsifal” nello zaino di un ragazzo annegato, non si sa se per incidente o volontariamente. Qualche mese fa il figlio di un mio attento lettore si è ucciso: sembra perché da qualche tempo gli impedivano di vedere il padre. Ma è comunque una tragedia che, quanto meno, non ho potuto impedire.
Questa sproporzione tra la forza (delle idee, delle convinzioni, ma a volte anche dei toni che usiamo, o della sordità con cui non ci apriamo) e la fragilità di chi le legge, le ascolta, o non viene ascoltato (che poi, naturalmente, non è diversa dalla nostra fragilità), mi spinge a parlare, in questo inizio di anno, della delicatezza dell’umano.
A Capodanno un figlio uccide la madre, una scrittrice, un’intellettuale, nel mezzo - pare di capire - di un delirio paranoide, in atto già da qualche giorno. La madre scrittrice e il padre professionista non si erano accorti, nei loro civili e separati percorsi, che qualcosa, in quel figlio, si era rotto, e che qualcos’altro, forse irreparabile, si stava preparando. Come per quell’altro ragazzo, anche quello di genitori colti, separati, che qualche mese fa si è buttato dalla finestra.
Certo, è difficile capire, ma non credo per ragioni tecniche. Non perché il delirio sia una categoria clinica, che solo chi l’ha studiata può riconoscere. Il punto vero è quello del dolore dell’altro e del nostro ascoltarlo, del nostro assumerne la responsabilità. Perché altrimenti, se non lo facciamo, l’altro si spezza, si rompe. E magari, in una crisi incontenibile, ci spezza. Perché l’altro, come noi del resto, è fragile, è delicato. Il suo equilibrio dipende da tante cose, che hanno nomi clinici e complicati. Ma alla fine una sola è quella decisiva: l’amore. Se non ce n’è abbastanza, o l’altro non lo percepisce, qualcosa, dentro, si spezza.
Il fatto è che il dolore dell’altro, come del resto il nostro, noi lo ascoltiamo sempre meno. Anche perché questo ascolto non ci viene presentato come così importante: l’accento del sistema di comunicazioni è sempre sulla forza, il successo, la realizzazione, l’assertività.
Tutto giusto, ma il balbettio, la parola smozzicata, la frase cominciata e non finita, chi li ascolta più? Chi si chiede cosa significano? Al marcire inesorabile del Re pescatore, degli infiniti Re pescatori che ci circondano (e noi stessi siamo), chi ci bada, nel delirio delle vacanze smaglianti, delle donne bellissime, degli uomini quasi onnipotenti di cui il sistema di comunicazioni ci riferisce eccitato ogni mossa, ogni sguardo volitivo? Quanto tempo deve passare, quante tragedie devono accadere attorno a noi, perché l’ottuso Parsifal dentro di noi finalmente si svegli e osi porre all’altro accanto a sé (che poi è anche se stesso) la domanda decisiva, la parola davvero risanante: «Dimmi, cosa ti strugge»?

da “Tempi”