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Quell'insostenibile "appeal" degli eroi del male. Parla la criminologa Simonetta Costanzo

di Antonella Ambrosini - 12/01/2008

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L’ultimo è Azouz, conteso per essere adottato.

 
Da Maso a Erika, al tunisino arrestato per spaccio di droga, l’attrazione fatale per il “mostro” non si arresta. Siamo arrivati all’assurdo di famiglie in fila per accogliere l’uomo in casa agli arresti domiciliari.

Una famiglia “adottiva” è pronta per Azouz Marzouk, arrestato con l’accusa di spaccio di droga, il tunisino che perse la moglie, il figlio e la suocera nella strage di Erba ma trasformò la tragedia nello strumento per diventare una star dello spettacolo. Appena ha chiesto di poter avere gli arresti domiciliari, sbalorditiva è stata la reazione di tante persone che si sono messe in fila per accoglierlo. Il suo avvocato, Roberto Troenscovino, ha ricevuto centinaia di lettere, 150 famiglie vorrebbero accoglierlo a braccia aperte. L’attrazione fatale per tutto ciò che ha a che fare con il crimine è fenomeno antico. Gli assassini ricevono tante lettere d’amore: Erika (che ha fatto fuori madre e fratello) è sommersa di lettere di ammiratori, Amanda (che forse ha contribuito all’uccisione di Meredith) è invasa da proposte di matrimonio. Pietro Maso che nel ’91 uccise padre e madre ha un fans club a lui intitolato. Il mostro attrae morbosamente, il male ha un appeal irresistibile. Ne parliamo con una criminologa, la professoressa Simonetta Costanzo, docente all’Università di Cosenza, che da anni analizza il fenomeno.

I personaggi “maledetti” oggi non hanno più l’accattivante fascino di un James Dean o di un Marlon Brando, bensì i volti di Azouz, dei protagonisti di Garlasco, del pluriomicida Amethovic, tutti accomunati da qualcosa di negativo. È normale?

No. È un fenomeno psicopatologico di tipo narcisistico, collegato alla mancanza di relazioni autentiche. Oggi si fatica, i giovani soprattutto, ad avere rapporti empatici con altri individui, cioè c’è poco spazio e tempo per vivere le emozioni vere, per entrare in sintonia con gli altri. Il rapporto virtuale, invece, con le immagini televisive e di Internet è più facile e immediato. Per cui, quei personaggi diventano oggetto di ammirazione perché simboli di un mondo dov’è possibile emergere grazie ai media, che in qualche modo producono e stimolano questa convinzione.

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Non pensa che le trasmissioni di approfondimento rispondano a una morbosità diffusa? Tutti ricordiamo la fiction-reality di Matrix sulla strage di Erba, in molti erano attaccati al televisore. Solo per la voglia di verità?

Certamente no. C’è qualcosa di molto più sottile e profondo che si cela all’interno della nostra società. Molti sfogano il proprio senso di aggressività. Alcune persone identificano gli assassini con la loro ombra, il loro lato oscuro, perché nel processo virtuale tutto è possibile, tutto è più facile, anche sentirsi eroi del male.

Allora perché non appassionarsi anche ai modelli positivi di notorietà? Siamo pieni di persone famose nelle professioni che non sono necessariamente accusate di omicidio o spaccio…

Perché uccidere è più facile che studiare e impegnarsi nel tempo in un cammino positivo. “Se voglio diventare famoso in breve tempo devo commettere qualcosa di eclatante, di efferato”, sembra essere la convinzione diffusa. Non a caso sono i giovani i più attratti dal male perché sono convinti che la società non metta loro a disposizione molte possibilità di scelta per lavorare e avere successo.

Siamo di fronte alla banalizzazione della vita e della morte?

Direi che siamo di fronte alla cancellazione della morte. Oggi la morte è allontanata ed esorcizzata in tutti i modi, non è più “ritualizzata” come un tempo. Quindi uccidere non è più percepito cine un delitto a cui segue un castigo. Il tutto avvalorato dal nostro sistema giudiziario che rafforza l’idea che uscire di prigione o avere gli arresti domiciliari sia facile e che sia possibile riproporsi a livello sociale in mille modi.

Come avviene la trasformazione di un assassino in un idolo a cui scrivere lettere d’amore?

È un processo perverso che si determina quando l’amore si trasforma in odio verso il mondo in cui si vive, percepito come ostile alle proprie aspettative. Quindi, di nuovo, l’odio si ritrasforma in amore. Ma è un amore “al contrario”, indirizzato all’eroe negativo. Questo rovesciamento, per esempio, è esplicito in quelle famiglie che fanno a gara per adottare Azouz, situazione che trovo gravissima.

I media gonfiano il caso, ma ad alimentarlo sono altri. Ci sono nuovi manager del male che spuntano sulla scena del delitto per farsi dettare le memorie dell’assassino o per scritturarlo per una nuova griffe…

La società è malata, non c’è dubbio, io sono pessimista. Un processo non si interrompe, semmai si cronacizza. L’unica via di uscita risiede nell’utilizzo di pedagogisti nelle scuole e nelle famiglie che rieduchino ai rapporti interpersonali.

 


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