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L'orologio tibetano: come un insegnante spirituale venne a conoscenza della tecnologia in Occidente

di redazionale - 13/01/2008

Fonte: indranet

 

 

 

Pensavo che gli occidentali possedessero un’etiquette e una saggezza molto sottili. Sapevano come costruire aeroplani, macchine complesse e tutte le altre meraviglie della tecnologia. Di fronte a una tale saggezza nel campo degli oggetti, pensavo che i loro creatori possedessero altrettanta disciplina personale.

Quando avevo quattordici anni, mi venne regalato il primo orologio. Veniva dall’Inghilterra e non riuscii a resistere alla tentazione di aprirlo, per vedere come funzionava. Lo scomposi completamente. Cercai di rimetterlo insieme, ma non funzionava più. Poi mi venne regalato un orologio che batteva le ore. Era il dono di un altro insegnante tibetano, un altro rinpoche, che tra l’altro era il fratello di uno dei miei molti insegnanti in Tibet: Sua Santità Dilgo Khyentse Rinpoche. Ogni cosa funzionava a perfezione dentro questo orologio, quindi decisi di aprirlo e scomporlo.

Volevo paragonarne le parti con quelle che avevo già smantellato dal mio orologio da polso. Sistemai le componenti di entrambi gli orologi fianco a fianco e cercai di capire come funzionassero queste macchine, come erano messe insieme. Quando scomposi il secondo orologio, potei vedere gli errori che avevo fatto con il primo, e riuscii a ricomporre l’orologio. In realtà, riuscii a rimettere insieme entrambi gli orologi, li pulii e funzionavano meglio di prima.

Ero molto orgoglioso di quello che avevo fatto. Pensavo che in Occidente ci fossero grande disciplina, minuta precisione, profonda accuratezza e immensa pazienza, generate dal numero infinito di piccole viti che andavano ruotate. Credevo che qualcuno avesse creato ogni piccola componente con le sue mani. Naturalmente, all’epoca non sapevo che esistevano le fabbriche. Ero molto impressionato e provavo un grandissimo rispetto.

Poi, venendo in Occidente, incontrai i produttori degli orologi, piccoli e grandi, e quelli di altre macchine che fanno cose sensazionali, come gli aeroplani e le automobili. Capii che in Occidente non c’era molta saggezza, ma c’era molto sapere. Chogyam Trungpa. Great Eastern Sun. Shambhala. Boston. 1999

Questo diverso atteggiamento verso la tecnologia mi porta a chiedere cosa cerchiamo negli strumenti. Essi sono solo un modo per “fare le cose” ed estendere le nostre capacità, o possono essere strumenti per lo sviluppo delle nostre doti umane? Attraverso gli strumenti dobbiamo arrivare a un risultato il più velocemente possibile, senza la nostra attenzione consapevole, o possiamo usarli come mezzi per la formazione dell’anima?

I bambini usano gli strumenti in modo giocoso, senza bisogno di arrivare da nessuna parte. Spesso distruggono ciò che hanno appena creato, e quello è il momento più divertente. In Tibet esiste la tradizione della creazione del Mandala che, una volta completato (talvolta dopo settimane o mesi), viene distrutto.

Prendiamo, a esempio, un semplicissimo strumento come un coltellino che si può usare per intagliare il legno. Potremmo cominciare progettando un disegno, poi ne programmiamo la realizzazione e magari siamo impazienti di vedere il lavoro terminato. Potremmo imprecare se non otteniamo la forma desiderata, o essere orgogliosi quando il “lavoro” è finito.

Oppure potremmo cominciare senza progetti, sentire il contatto con il legno e lo strumento, lasciare che il disegno fluisca secondo il momento, permettere i nostri “errori” e integrarli in un disegno diverso, scoprendo consapevolmente nuove doti nelle nostre mani, osservando da dove viene l’inclinazione a fare una certa cosa e prendendo nota di tutti i diversi stati d’animo che affiorano durante l’intagliatura: le nostre gioie, frustrazioni, silenzi. In tal modo possiamo sviluppare la nostra attenzione, pazienza, consapevolezza e capacità di lasciare andare i progetti e accettare il flusso sempre mutevole della vita.

Nella nostra cultura, la tecnologia è concepita per dare più potere, per aumentare le capacità. L’enfasi è su ciò che possiamo fare con determinati strumenti, non sul come lo facciamo, né sul come un determinato strumento si connette al nostro sé interiore o alla comunità delle persone.

Ogni compito ripetitivo tende a divenire inconscio dopo un certo periodo, e la nostra attenzione non è più presente. La mente desidera ardentemente novità e si annoia facilmente. Percepisco che nel desiderio di automazione non c’è solo la spinta dell’ego a divenire più potente aumentando le nostre capacità: c’è anche il bisogno di recuperare consapevolezza verso un lavoro che, dopo molte ripetizioni, è divenuto stantio. Quanto progettiamo l’automatizzazione di un lavoro, dobbiamo studiarne dettagliatamente il processo ed essere consapevoli delle relazioni tra le parti; vediamo quell’attività con occhi nuovi. Tuttavia, una volta automatizzato il lavoro, la nostra attenzione e presenza svaniscono: il compito è assegnato alla macchina e noi siamo “liberi” dalla ripetizione.

Quando non diamo alle nostre attività il valore di strumenti di crescita, né proviamo alcuna gioia nelle nostre azioni, sorge il bisogno di automatizzare tutto ciò che può essere automatizzato, incluse le attività connesse allo sviluppo dell’anima. Il punto non è quanto un’attività è noiosa o utile, ma come può plasmare la nostra anima. Nei monasteri Zen anche i compiti più ripetitivi, come la mondatura del riso, venivano usati come una via verso la consapevolezza.

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Il tiro con l'arco, lo zen e i computer http://www.indranet.org/zen-archery-and-computers/

L’utilizzo degli strumenti e della tecnologia è probabilmente il comportamento più originale che separa gli esseri umani dagli animali. Gli esseri umani possiedono autoconsapevolezza, ovverosia coscienza che ha coscienza di se stessa: siamo consapevoli di essere coscienti.

Essere consapevoli di essere coscienti ci consente di proiettare la stessa coscienza all’esterno dei nostri corpi nella creazione di strumenti che estendono le possibilità del corpo-mente. Nel corso della storia l’uso degli strumenti si è diversificato ed è cresciuto esponenzialmente, con la tecnologia dei computer che rappresenta attualmente lo strumento più elaborato per l’estensione della mente.

La nostra mente non ha preso un abbaglio nel proiettare (inconsciamente) la nostra coscienza al di fuori dei nostri corpi e nel voler rendere la materia cosciente tramite lo sviluppo della tecnologia: l’abbaglio è nel non riconoscere che l’universo è di per sè cosciente. L’universo come entità cosciente pervasiva è una condizione descritta dai mistici di ogni tradizione. Questa coscienza è stata chiamata coscienza cosmica, universo conscio, mente universale ed è descritto da Walt Whitman come “luce ineffabile, luce non comune, luce oltre qualsiasi segno, descrizione e linguaggi”, mentre Erwin Laszlo parla dell’universo cosciente in questi termini:

Per me è ovvio che la coscienza non è solamente un epifenomeno, non è un sottoprodotto del cervello; è qualcosa che pervade l’intero universo […] La coscienza non viene prodotta semplicemente da un insieme complesso di neuroni. E’ presente nel corpo come unità e in tutta quanta l’esistenza.

Poichè non vediamo la nostra coscienza individuale e la coscienza infinita che pervade il tutto come parte di un unico oceano, pensiamo di essere limitati nelle nostre possibilità. Di conseguenza necssitiamo di costruire degli strumenti esterni per il nostro “sviluppo”. Siamo infiniti ma non lo sappiamo.

Comunque, l’uso degli strumenti è stato sostenuto anche nei percorsi spirituali come lo Zen. Uno dei classici libri sullo Zen illustra il percorso della realizzazione dell’anima attraverso la padronanza di uno strumento esterno, nel caso un’arco e una freccia. Herrigel narra in Lo Zen e il tiro con l’arco che l’arciere cessa di essere cosciente di se stesso come colui che vuole centrare il bersaglio che fronteggia. Herrigel afferma inoltre che questo stato di non-coscienza viene realizzato solo quando si svuota e si libera da se stesso e diventa una cosa sola con il perfezionarsi delle sue capacità tecniche, anche se vi è un altro livello che non potrà essere ottenuto da nessun progresso nello studio dell’arte.

Nelle descrizioni di Herrigel ci sono dei passaggi che riferiscono sia le differenze che le similitudini tra l’attitudine nell’uso della tecnologia da parte della società dell’informazione e quella della via dello Zen, quando l’arciere cessa di essere cosciente di se stesso ed entra in uno stato di non-coscienza, svuotato e liberato da se stesso.

L’uso prolungato del computer tende a portare le persone in uno stato alterato in cui l’utente tende a perdere il senso del tempo e il contatto col suo corpo. L’uso prolungato in un certo senso lo porta ad abbandonare se stesso, distaccando la sua consapevolezza da qualsiasi cosa che non sia lo schermo del computer.

Ma vi sono delle differenze fondamentali tra il perdere se stessi nel computer e lasciare andare se stessi mentre si padroneggia uno strumento in un percorso sacro. Attraverso il computer abbandoniamo noi stessi prematuramente, perdiamo solo la nostra attenzione e la connessione con i nostri corpi e con la profondità della nostra psiche. A differenza del tiro con l’arco Zen, attraverso il computer non passiamo attraverso la lunga pratica del volgere la nostra attenzione consapevole al nostro interno, che ci consente di lasciare il nostro ego e di raggiungere il nostro centro, più in profondità dell’ego.

Il bersaglio esterno è solamente una metafora per quello interno. L’arco e la freccia sono strumenti che hanno il ruolo di ponti verso i nostri sè interiori, non tanto importanti come obiettivi tecnici esterni. Sia l’arco che il computer sono strumenti per l’espansione della nostra consapevolezza. Ma quando raggiungiamo il centro interiore attraverso lo Zen non ci identifichiamo nello strumento, nè nell’obiettivo e neppure nel nostro ego. Con lo Zen diventiamo completamente vuoti, mentre col computer la nostra mente diviene completamente occupata dalle informazioni.

Nonostante questo anche gli strumenti e i media tradizionali possono essere impiegati per la comprensione della nostra anima. La fotografia, i romanzi e la poesia hanno visto un’evoluzione dall’esterno all’interno, come ci ha rivelato McLuhan:

Forse il settore più radicalmente rivoluzionario della fotografia fu quello delle arti tradizionali. Il pittore non poteva più dipingere un mondo tanto fotografato. Passò allora, con l’espressionismo e l’arte astratta, a rivelare il processo interno della creatività. Similmente il romanziere non poteva più descrivere oggetti o avvenimenti ad usi di lettori che già sapevano ciò che stava accadendo dalla foto, dai giornali, dai film e dalla radio. Poeta e romanziere presero a occuparsi di quei gesti interiori dello spirito mediante i quali arriviamo a capire le cose e a plasmare noi stessi e il nostro mondo. L’arte insomma passò dalla creazione del mondo esterno a quella del mondo interiore. Marshall McLuhan. Gli strumenti del comunicare. Mondadori. Milano. 1990

I computer sono, nonostante il rapido evolversi della tecnologia, tutt’ora ai primordi; ad oggi sono perlopiù strumenti di produttività; non è ancora avvenuto il cambiamento nella direzione di elaboratori della consapevolezza. Se la pittura è diventata uno strumento per l’esplorazione dell’anima in quanto la fotografia aveva conquistato il suo territorio tradizionale, e i romanzi si sono rivolti “ai gesti interiori dello spirito mediante i quali arriviamo a capire le cose e a plasmare noi stessi e il nostro mondo” per la presenza di altri media, qual è il ruolo del computer e quali sono gli altri media implicati? E in quale direzione può andare il computer quando il suo ruolo verrà rilevato da altri media?

Questa nuova competizione tra media non ha precedenti nella storia. Il confronto è ora tra la il “medium” rappresentato dalla mente e il computer. Il ruolo della mente come strumento di pensiero, di organizzazione, di previsione e di calcolo sta essendo rilevato dai computer. Necessitiamo di usare la nostra consapevolezza in modi più profondi, per esaminare i processi interni della nostra mente e focalizzarsi sui meccanismi invece che sui contenuti della mente, in un procedimento di meta-conoscenza, decostruendo i nostri condizionamenti e conoscendo gli strumenti della mente dall’interno.

Questo è l’obiettivo di ogni “strumento” di meditazione per portare alla transizione dall’intelletto alla saggezza, dalla mente alla non-mente, dall’ego all’illuminazione.

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