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Animali politici

di Lucio Garofalo - 13/01/2008

 
 

Il filosofo greco Aristotele definiva giustamente le formiche e le api “animali politici”, considerando animale politico” anche l'uomo. Al contrario, il pensatore inglese Thomas Hobbes, confrontando i comportamenti degli animali che vivono “in società” con quelli degli uomini, rafforzò la sua convinzione: l'uomo è un essere asociale.

Leggiamo cosa scrive Hobbes nel  Leviatano: “È vero che certe creature viventi, come le api e le formiche, vivono in società fra loro, e per questo sono da Aristotele annoverate fra le creature politiche, e tuttavia non hanno altra guida che quella del loro particolare giudizio o desiderio, non hanno la parola con la quale ognuna di esse possa indicare a un'altra ciò che ritiene di utilità comune per loro; di conseguenza qualcuno forse desidererà sapere perché l'umanità non possa fare allo stesso modo. Al che io rispondo:

in primo luogo gli uomini sono in continua competizione per l'onore e la dignità, cose che quelle creature non conoscono nemmeno, e di conseguenza fra loro sorgono per questa ragione invidia e odio e infine guerre: fra quelle creature invece niente di tutto questo;

in secondo luogo fra quelle creature il bene comune non differisce da quello privato, per cui essendo esse per natura spinte a cercare il loro bene privato procurano per ciò stesso il bene di tutti. Ma l'uomo la cui gioia consiste nel confrontarsi con gli altri uomini, non può apprezzare se non ciò che lo distingue dagli altri;

in terzo luogo queste creature non avendo come gli uomini l'uso della ragione non vedono e non pensano di trovare errori nell'amministrazione delle loro faccende comuni; fra gli uomini invece ce ne sono alcuni che si ritengono piú saggi, piú abili a governare le cose pubbliche, in confronto con gli altri, e allora cercano di riformare e di innovare, ora in un modo, ora in un altro, e cosí producono confusione e guerra civile;

in quarto luogo queste creature sebbene abbiano un certo uso della voce in modo da riuscire a comunicarsi reciprocamente i loro desideri e le loro affezioni, tuttavia mancano dell'arte della parola, con la quale alcuni uomini rappresentano agli altri ciò che è bene sotto l'apparenza del male e ciò che è male sotto l'apparenza del bene, e aumentano o riducono l'apparente grandezza del bene e del male, provocando scontento fra gli uomini e turbando la loro pace e la loro gioia;

in quinto luogo le creature irragionevoli non fanno distinzione fra ingiuria e danno, e di conseguenza quando stanno a loro agio non si sentono mai offese dalle creature loro compagne; invece l'uomo è piú turbolento quando sta piú a suo agio, perché è proprio allora che egli ama di fare sfoggio della sua saggezza, e di controllare le azioni di coloro che governano lo stato;

infine l'accordo che si produce fra quelle creature è naturale mentre quello degli uomini è solo per convenzione, cioè artificiale; per questo non fa meraviglia che qui si richieda qualche altra cosa, oltre al patto convenuto, per rendere l'accordo costante e duraturo, cioè un comune potere capace di tenere gli uomini in soggezione e di dirigere le loro azioni verso il bene comune.”

Per caso, non avrà ragione Don Tommasino (alias Hobbes)? E non avrà torto il vecchio filosofo stagirita, che fu maestro educatore del celebre condottiero e sovrano macedone Alessandro Magno, conquistatore dell’antico Occidente ed Oriente?

Nel famoso incipit alla Politica di Aristotele si legge che “la pòlis sta nel novero delle realtà che esistono per natura e l’uomo è per natura animale politico (zoon politikon) e  colui che non ha una pòlis, qualora ciò avvenga naturalmente e non in forza di circostanze particolari, egli è o un essere degradato oppure è un essere che sta ad un livello superiore a quello umano [...] o è un bruto o è un dio [...] e che l’uomo sia un animale politico di un livello più alto di un’ape qualsiasi o di ogni altro animale vivente in collettività, questo è evidente: di fatto la natura, a nostro avviso, non fa mai nulla invano e solo l’uomo fra tutti gli animali ha il dono della parola” (cfr. Aristotele, Politica, I, 2). Tra le formiche del formicaio, le api delle arnie e gli uomini della città intercorre la consapevolezza: se è l’istinto naturale che ci spinge a solidarizzare con altre persone, la realtà dell’uomo è una climax di raggruppamenti. Dopo la famiglia che ci accolse bambini, dopo la classe in cui diventammo adolescenti e adulti, ecco lo Stato che ci ingloba e ci fa parte di sé.

Mentre Platone riconduceva la necessità di un governo unico all’esigenza di osservare e rispettare le leggi (attribuendo in tal guisa un valore coercitivo allo Stato), Aristotele ribadisce invece che l’esistenza di una strutturazione della città è un fatto istintivo, non subordinato a nessuna ragione di ordine pratico.

E’ la natura stessa che ci spinge ad essere cittadini: quindi, comportiamoci come tali.

Secondo il modello aristotelico, dunque, l'uomo è un animale politico che, al pari di altri animali politici (quali le api o le formiche) costruisce polis, strutture sociali, città.

Il modello aristotelico è gradualistico: l'uomo è un animale politico perché  edifica strutture materiali e sociali ben determinate e le sviluppa gradualmente, dalla più piccola che è la casa alla più grande, cioè la città-stato; inoltre, esso è un modello naturalistico perché, sostengono i suoi fautori, è nella natura dell'uomo essere un animale politico, cioè un costruttore di polis. Mutamenti qualitativi nella struttura non sono ammessi, così come non rientrano nel modello le rivoluzioni, i cambiamenti repentini, radicali e imprevedibili; la naturalità dell'azione politica umana impedisce artificiali trasformazioni nell'ordine costituito, che si presenta perciò stabile e immutabile: persino le disuguaglianze più marcate e le più evidenti ingiustizie non possono essere messe in discussione perchè rientrano nell'ordine naturale delle cose.

Un altro modello di azione politica, che possiamo definire "machiavellico", parte da una concezione pregiudizialmente negativa della natura umana (alla stregua di Hobbes): gli esseri umani non sono per natura buoni, bensì inclini all'inganno ed alla sopraffazione; l'individuo ideale osserva le leggi, ma quello reale obbedisce solo alla forza. Le situazioni di conflitto nel modello machiavellico costituiscono la condizione normale della vita sociale; in esse, la soluzione legislativa è l'eccezione, come del resto lo è l'idea stessa di cooperazione. La regola è la forza: sarebbe preferibile obbedire alle leggi ma, data la natura umana, è più conveniente ricorrere alle armi, e quindi combattere con la forza piuttosto che col diritto. Tale concezione politica è dunque strettamente imparentata sia con Hobbes, sia con il filosofo greco Platone.

Al contrario, al pari di Aristotele, Karl Marx appartiene alla famiglia filosofica dei "naturalisti politici", cioè di coloro che sostengono essere "naturale" l'attività politica dell'uomo; l'idea di una storia naturale permane in Marx, come già in Hegel e in Aristotele, ma cambia l'oggetto: se per Aristotele il processo aveva per oggetto il passaggio graduale dalla famiglia allo stato, attraverso le fasi intermedie del villaggio e della città, per Marx il processo storico riguarda la trasformazione delle forme di produzione economica, dal sistema feudale a quello capitalistico, e da questo a quello comunista. Come per Aristotele la famiglia è il nucleo microscopico di organizzazione sociale, così per Marx la merce è la cellula della forma economica, il suo elemento microscopico, laddove la cosiddetta "formazione economico-sociale" (composta dalla struttura economica più la sovrastruttura di idee e cultura) rappresenta invece l'elemento macroscopico, il punto terminale dell'organizzazione collettiva.

Dunque, Marx come Aristotele? Fino a un certo punto. Ciò che differenzia Marx da Aristotele è la perdita sostanziale dei concetti di "gradualità" e “naturalità”: la storia può procedere anche a salti, il passaggio da un tipo all'altro di formazione economico-sociale avviene non per gradi, lentamente e senza traumi, bensì violentemente e criticamente. Tutto viene messo in discussione. Ed è l'elemento critico che interessa maggiormente: "critica" della formazione economico-sociale precedente, "crisi" (spesso fulminante) della stessa.

A questo punto, dopo l’indigesta abbuffata a base di pessimismo machiavellico-hobbesiano, credo che sia opportuno e necessario rigenerarsi moralmente ponendosi un altro interrogativo “invitante”, ossia L’uomo è un animale comunitario? Tale invito muove dalla considerazione – avanzata fin dalle origini da molti pensatori liberali atipici come Tocqueville – che il funzionamento di istituzioni liberal-democratiche dovesse poggiare sulla presenza di elementi pre-politici, etici, emozionali e identitari. Ovvero che in definitiva la polis precede la politica, il sentimento di appartenenza e di identificazione con una comunità precede l’accettazione di un determinato ordinamento politico-istituzionale. Insomma, dalla percezione dell’insufficienza pratica e teorica del paradigma contrattualista (di stampo hobbesiano) – nelle sue innumerevoli versioni – e dei suoi presupposti individualistici. Da ciò discende il richiamo ad una fratellanza universale e comunitaria intesa a trascendere e travalicare l’attuale situazione di atomizzazione sociale.

Senza scomodare Caino e Abele, o l’antico adagio “parenti serpenti”, la dimensione della fratellanza e la rivalutazione del concetto e del rapporto di fraternità appaiono ad alcuni come un tentativo debole e incompleto di reintegrare la dimensione comunitaria nel mainstream della modernità. Marcello Veneziani ha sintetizzato efficacemente questa posizione: «In realtà un comunitarismo fondato sull’idea di fratellanza sarebbe due volte dimezzato: in primis, perché le società fraterne sono società senza padri (e dunque senza tradizione, senza il legame verticale con i padri e con i figli); e poi perché la fratellanza rivoluzionaria ha vocazione universale e dunque da un profilo comunitario la sua estensione indifferenziata produce la sua estinzione». Non c’è dubbio che la diffidenza nei confronti della fraternità della tradizione comunitaria “di destra”, alla quale Veneziani fa riferimento, sia pure in modo innovativo, con garbo e moderazione, derivi in larga misura proprio dalla sua origine rivoluzionaria. In sostanza quello che viene rimproverato alla fraternità è di non essere sufficientemente organica e di essere tendenzialmente universalista. La comunità, al contrario, si definisce per la sua natura ascrittiva, localistica e particolaristica (Pasolini docet). Non si sceglie per contratto di appartenere ad una comunità, ci si nasce, e una comunità è tale perché si distingue, anche se non necessariamente si contrappone ad altre comunità.

Anzitutto, è vero che il rapporto di fraternità o di fratellanza enfatizza la dimensione sincronica, orizzontale ed egualitaria della relazione rispetto alla dimensione verticale, diacronica e in fondo gerarchica implicita nel rapporto fra padre (o, perché no?, madre) e figlio. L’assenza, o l’indebolirsi, di questa dimensione storica e temporale, di questa solidarietà fra le generazioni nelle società democratiche o in via di democratizzazione, è stata rilevata e denunciata dai alcuni dei maestri del liberalismo conservatore tra la fine del Sette e l’inizio dell’Ottocento.

La perdita delle memoria si accompagna dunque nelle società democratiche e individualiste ad una perdita di progettualità, di futuro. Un tema, questo del legame, del patto fra generazioni, a lungo rimosso, ma tornato di grande attualità sotto forma, ad esempio, delle preoccupazioni per gli squilibri demografici e previdenziali o, cosa ancora più importante, per il degrado ambientale planetario. Ma il rapporto di fraternità presuppone comunque una legame intergenerazionale, una paternità e una maternità. A differenza dell’amicizia o dell’amore, la fraternità non è elettiva. Possiamo scegliere i nostri amici o i nostri amori, non i nostri fratelli. La fraternità rimanda comunque ad un rapporto di discendenza – biologica, culturale, religiosa o di altro tipo –, ad un essere “gettati nel mondo” in un tempo, in un luogo, in una cultura che non scegliamo noi ma con la quale dobbiamo fare i conti.

Sottolineare la dimensione fraterna della trasmissione della tradizione significa sottolineare l’aspetto plurale, aperto e dinamico, di questa trasmissione. I fratelli si dividono l’eredità paterna (e materna) e possono interpretarla in modo profondamente diverso senza per questo tradirla. Leggere la trasmissione della tradizione attraverso la fraternità ci può quindi portare a darne un’interpretazione meno rigidamente patrilineare, primogeniturale e in fondo paternalista e maschilista, implicita in una lettura della tradizione come trasmissione “di padre in figlio”.

A questo punto si potrebbe concludere con un po’ di sano umorismo, citando una pungente battuta di Alfredo Chiappori, grande autore di satira politica, il quale affermava (in senso ovviamente ironico) che “l'uomo è per natura un animale politico... tanto è vero che spesso l'uomo politico è una bestia”. Che altro c’è da aggiungere?