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Facce di caucus

di Alessio Mannino - 13/01/2008

     

 

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Hillary o Obama? Muckabee o Giuliani? Sinceramente, come dicono a Roma, non ce ne può fregare di meno. La corsa di Repubblicani e Democratici americani verso l'Election Day del nuovo Presidente degli Stati Uniti (4 novembre 2008) è una di quelle vicende che non ci appassiona neanche un po'.
Che sia democratico o repubblicano, che sia donna o nero, volto nuovo o vecchio arnese della politica, il nuovo inquilino della Casa Bianca non sarà molto diverso dal predecessore. Se non in aspetti sostanzialmente marginali: la simpatia, il fondotinta, lo stile di governo, l'approccio "unilateralista" o "multilateralista" negli affari esteri, una qualche sfumatura sociale in più o in meno, un più o meno sfacciato sostegno a questa o quella lobby (del petrolio, delle armi, delle costruzioni, eccetera).
George W. Bush è stato un'autentica sciagura per l'America e per il mondo - basta andarlo a chiedere agli orfani irakeni o a chi resiste in Afghanistan. Ma Bill Clinton non era stato da meno - basta un rapido promemoria sui bombardamenti in Sudan o sulla guerra alla Serbia. Washington è la capitale della nazione capofila del sequestro mondiale di sovranità da parte dei colossi industriali e bancari: sono questi che dettano la politica a stelle e strisce, i Presidenti ne sono solo degli esecutori.
Ecco perchè ci viene da ridere quando leggiamo sulla stampa italiana l'opera di santificazione di Barack Obama e le articolesse eccitate sulla "sfida" per la nomination a candidato dei due "partiti" Usa. Perchè è sempre la solita storia: si dipinge la realtà politica con le tinte forti di contrapposizioni che invece non esistono. Su tutte le questioni fondamentali - politica estera, tasse, stato sociale, ambiente - i singoli sfidanti e in futuro i due aspiranti Presidenti, si differenziano nell'immagine e nei dettagli. Non nella sostanza.
E' la fallace messinscena della Destra e della Sinistra, che noi abbiamo importato dall'America assieme a molte altre cose. Chissà perchè non le rubiamo le idee buone. Come i caucus, ad esempio.
Caucus è una parole di origine indiana, e indica la "riunione dei capi tribù" degli indigeni d'America. Oggi designa gli incontri degli attivisti repubblicani e democratici per assegnare un seggio locale a uno dei candidati (una sorta di sistema uninominale). Il funzionamento è molto interessante, specie nei caucus democratici dove il voto non è segreto. Nel luogo pubblico dove si svolge l'assemblea si formano tanti gruppi quanti sono i cnadidati in lizza. Gruppi, capanelli visibili. Gli indecisi stanno in mezzo. Ogni candidato si presenta (attraverso un suo delegato). Il candidato che dopo la prima fase del dibattito non arriva a raccogliere almeno il 15% dei consensi tra i presenti non ha diritto a continuare. Quindi quelli che l’hanno sostenuto fino a quel momento si spostano a sostenere altri candidati.
La maggior parte della gente, in queste consultazioni di base, si conosce. Il singolo elettore può cercare di convincere l'amico, il parente o il vicino di casa. Tutto avviene alla luce del sole, sei costretto a metterci la faccia, nel professare la tua preferenza. E lo fai davanti alla  tua comunità di appartenenza. Devi metterti in gioco, esporti.
Poi tutto questo viene disperso nel sistema dei "grandi elettori", cioè il meccanismo mediato per cui il neo-Presidente non viene eletto direttamente dai cittadini ma scelto da delegati "pari al numero complessivo dei senatori e dei rappresentanti che lo Stato ha diritto di mandare al Congresso". In pratica, si passa dalle democrazia diretta a quella più indiretta che possa esserci.
Ma che volete: gli Stati Uniti, paese di grandi contraddizioni. Peccato che noi preferiamo sempre quelle peggiori.