Che cos' è il liberalismo? Non è facile rispondere. In molti si sono cimentati, e da buon ultimo Domenico Losurdo, storico della filosofia, autore profilico, del quale va ricordato un importante e originale studio su Nietzsche (Bollati Boringhieri 2004, 2° edizione).
Anche questa volta Losurdo ha scritto un libro non comune: una "controstoria del liberalismo" che va dalle origini seicentesche alla prima guerra mondiale. Si tratta - e in ciò è l'originalità dell'approccio, ma anche il suo preciso limite - di un storia del liberalismo basata, a giudizio dell'autore, sul contraddittorio rapporto tra la teoria e la pratica liberali.
Come si può, si chiede Losurdo, riferendosi al colonialismo americano e all'imperialismo inglese (le due potenze "liberali per eccellenza) conciliare libertà e schiavitù? Lo si può, ma solo a prezzo, ecco la sua tesi, di privilegiare due spazi politici: quello sacro, riservato alla comunità dei liberi ( i "signori", i "bianchi" gli unici in grado di capire, gestire ed apprezzare la "libertà" in tutte le sue forme); e quello profano, riservato alla comunità dei "non liberi (i "servi", gli schiavi "neri", i "pellerossa", i messicani, i popoli coloniali, incapaci "razzialmente" di autogovernarsi). In certo senso, anche se l'autore non lo ammette direttamente, le guerre "liberali" americane di oggi, non sarebbero altro che una rivendicazione di quello "spazio sacro" che riunisce e santifica i popoli liberali dell'Occidente, gli unici, appunto, in grado di apprezzare, e mettere a frutto la "libertà liberale".
L'intero libro è costruito sulla ricerca, come dire, delle "pezze d'appoggio" storiografiche per comprovare questa tesi. E Losurdo, è così bravo ed erudito, che riesce a individuare in ogni autore liberale, grosso modo, da Locke a Hayek il passo o la citazione "giusta".
Ma purtroppo, da questo tour de force erudito, emerge anche quello che è il limite del libro . Infatti l'accento, troppo stretto, posto sul rapporto teoria-pratica, se per un verso gratifica il lettore di "palato grosso", quello che ama sentire parlar male del liberalismo, per l'altro scontenta il lettore più attento, quello che, anche se non apprezza il liberalismo, ama le ricostruzioni teoriche e storiche accurate.
Il limite evidente del testo è appunto di non delimitare prima teoricamente e storicamente il liberalismo, tracciandone un ritratto fedele e completo, ma di usare, "parti" della sua teoria e storia (che possono essere benissimo contestate, basta sfogliare qualsiasi altra storia del liberalismo a partire da quella classica e insuperata di Guido De Ruggiero...), collegandole a una "certa"pratica liberale che "deve" comprovare la tesi che si vuole dimostrare . Ignorando però (e non importa se consapevolmente o meno), che spesso storicamente le idee non trovano gli uomini "giusti" sulle quali camminare, o ne trovano solo pochi... Una constatazione che lo storico deve sempre fare, se non vuole ricadere nella partigianeria.
Un solo esempio, conclusivo: che senso avrebbe scrivere una storia del marxismo, (cosa che tra l'altro è già stata fatta da Leszek Kolakowski) estrapolando passi da Marx, Engels, Lenin e altri autori minori per spiegare gli orrori di Stalin e la costitutiva pericolosità dell'ideologia marxista? Nessuno. E lo stesso dovrebbe valere per il liberalismo, come per altre ideologie. O no?