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La promessa dell'assassino

di Claudio Asciuti - 15/01/2008

 

La promessa dell'assassino


La promessa dell’assassino (Eastern Promises, 2007) segue l’attuale filosofia lavorativa del regista canadese David Cronenberg, attivo sulla scena dagli anni Settanta, che dopo ottimi risultati nell’horror, fantascienza e cyberpunk si è votato al noir; genere che sta diventando la nuova frontiera di un cinema interessato ai cambiamenti della nostra civiltà, che ne discute il malessere. Ma già nel precedente History of Violence (2005), con cui La promessa dell’assassino sembra voler formare un dittico, il genere diventa motivo per una riflessione che affronta anche i “vecchi” temi del regista: la violenza, la perdita dell’identità e la sua sostituzione, la struttura famigliare e quella sociale (e la loro destrutturazione), il corpo e le sue mutazioni, la sessualità. In un certo senso, anzi, la storia (scritta da Steven Knight, già sceneggiatore di Piccoli affari sporchi di Frears) è simmetrica e complementare; là avevamo un “uomo tranquillo” che dopo un simbolico rito di passaggio si è fermato in una cittadina della provincia americana per nascondere il suo passato di assassino, che presto riaffiorerà inquinando anche i suoi familiari; ora abbiamo un poliziotto infiltrato nella mala russa, il cui passato condiziona il suo lavoro, e che dopo una cerimonia simbolica acquisisce una nuova identità di capo, ma continua a lavorare per la legge.
Siamo a Londra, filmata con colori lividi e una mano che la rende irriconoscibile dall’immagine che tutti conosciamo, e l’infermiera Anna Khitrova (una bravissima Naomi Watts) cerca di risalire all’identità di una anonima connazionale, morta nel suo ospedale di parto, così da poter affidare la bambina alla famiglia d’origine. La sua unica traccia è un diario scritto in russo, lingua che lei non conosce, e il biglietto di un ristorante. Dopo aver trattato inutilmente con lo zio Stephan (il regista Jerzy Skolimowski), ex agente ausiliario del KGB, Anna rivolge al proprietario del ristorante, il gentile e manierato Semyon (il sempre ottimo Armin Mueller-Stahl), insospettato capo dei Vory V Zakone, i “Ladri nella legge”, una fratellanza criminale retta da un rigido codice d’onore. Questo è l’intreccio principale, che si viene ad incastrare con il secondario: il figlio di Semyon, Kirill (Vincent Cassel, perfettamente a suo agio nella parte) ha ordinato l’esecuzione di un mafioso ceceno, e assieme all’amico, autista e guardaspalle Nikolai Luzhin (Viggo Mortensen, eccezionale, pensoso e impenetrabile) ne ha gettato il corpo nel Tamigi. La mafia cecena vuole la sua testa, e così la situazione si evolve in un gioco di personaggi che sembra uscito da una tragedia greca o shakeaspeariana, in cui amicizia maschile, omosessualità latente, senso dell’onore e del dovere, si intrecciano in modo splendido, con continui colpi di scena: Anna scopre attraverso le traduzioni di Stepan, alla fine coinvolto nell’indagine, che la bambina è il frutto di una violenza carnale operata da Semyon, su una ragazzina destinata alla prostituzione; a Nikolai viene ordinato di uccidere Stepan, a un’improvvisamente umano Kirill la sorellastra, e infine lo stesso Nikolai viene destinato alla morte in cambio della vita di Kirill. In questo groviglio di dilemmi, il punto di svolta avviene nella scoperta dell’identità di Nikolai, che salva Stepan, la bambina e riesce a incastrare Semyon; ma senza tradirsi, anzi, stringendo un’alleanza alla pari con il suo amico.
Cronemberg, dicevamo, riprende i suoi temi prediletti, e fra i tanti i corpi. Corpi tatuati (bellissimo quello di Mortensen, inciso di tatuaggi che lo qualificano come un appartenente alla mala, che lui stesso ha scoperto, studiato e proposto al regista), corpi che nascono e muoiono, che sanguinano, corpi straziati che mutano o vengono mutilati, o che presi in bellissimi dettagli e primi piano mostrano nei segni del viso e della carne identità che scompaiono e tracce di passati che affiorano; ma in tutto il film non vi è alcun cedimento a una violenza fine a sé stessa, come neppure ai buoni sentimenti che imperversano per tutta la cinematografia mondiale Le due scene finali, che vedono Anna, la madre Helen (Sinéad Cusack) e lo zio Stepan con la bambina adottata, felicemente ricomposte come famiglia, e nel ristorante di Semyon, Nikolai seduto ad un tavolo che riflette, rappresentano tutta l’ambiguità del testo: una riconciliazione da un lato, un’ascesa non voluta nel regno del crimine dall’altra.
La narrazione insomma procede nello stile cronemberghiano, un’ellisse narrativa dopo l’altra, una scena sequenziale all’altra, uno spazio che non si lega al mondo circostante ma che pare ritrarsi da esso, in cui l’occhio del regista è fisso solo sui drammi che sta riprendendo e le occasionali incursioni nel tessuto sociale circostante (l’esecuzione del giovane killer fra la tifoseria che si reca a vedere il Chelsea) restano altrettanti segni di un paesaggio che è volutamente lasciato al di fuori.
Due brani da antologia: l’iniziazione di Nikolai agli altri gradi della mafia russa, dove vediamo il suo corpo magro e muscoloso, pieno di tatuaggi che ne raccontano la (falsa) storia di delinquente, sotto gli occhi degli alti papaveri; e la sua aggressione in una sauna ad opera dei killer ceceni a colpi di roncoletta, a cui nudo, sfugge, con i nuovi tatuaggi ben freschi sulla pelle (un realismo che sembra quasi d’altri tempi!) che indicano il suo status ma lo hanno trasformato in bersaglio.
Un’aggressione violentissima, filmata senza le odierne e insopportabili accelerazioni di immagini e mosse di kung fu, una specie di duello fra un fantasma bianco e due corpi vestiti di nero che lasciano tracce sanguinose che nulla hanno del volgarissimo splatter, ma segnano lo spazio prima del sacrificio umano, poi del rito di passaggio, infine di un metamorfico rituale di morte e resurrezione.