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La vera avventura è conquistare l’inutile

di Stenio Solinas - 16/01/2008

L’ultimo avventuriero del cinema è quest’orso dinoccolato eppure impacciato che mi sta seduto di fronte e che si chiama Werner Herzog. Ha 65 anni, una faccia da clown triste, mani grandi da boscaiolo più che da intellettuale. Bruce Chatwin, che negli anni Ottanta ebbe occasione di lavorare con lui, lo definì «un compendio di contraddizioni. Tremendamente coriaceo, ma vulnerabile, affettuoso e distaccato, austero e sensuale, piuttosto insofferente delle tensioni della vita quotidiana, ma quanto mai efficiente nelle situazioni d’emergenza».
Per definire la malinconia, i tedeschi usano, fra le altre, una parola composta che ha a che fare con il sangue, blut, e con la pesantezza, schwer, e Der Schwerblutig Herzog, il malinconico Herzog, come lo ribattezzarono i critici ai tempi di Stroszeck, di Kaspar Hauser e di Nosferatu, in quell’accoppiata ci sta tutto, un eccesso vitalistico e una nostalgia di annientamento, la dimensione del sogno costretta a misurarsi con la prosaicità dell’esistenza. Klaus Kinski, il suo alter ego pazzo dello schermo, disse una volta che «sarebbe una follia dirigere la vita. È per questo che Werner Herzog è un genio». Quanto a lui, più semplicemente, più tremendamente, ti dice che «uscire da ciò che siamo fisicamente mi ha sempre entusiasmato e affascinato, anche in senso figurato. Quanto alla definizione di avventuriero, mi ci riconosco, ma con grande cautela, perché l’avventura non esiste più, è finita da quando lo scoprire prese il posto del cercare... Certo, rimane a livello psicologico, come tensione interiore, oppure nel campo scientifico, un terreno eroico quest’ultimo».
Adesso il Museo Nazionale del Cinema di Torino dedica a Herzog una rassegna («Segni di vita», sino al 10 febbraio) che è insieme un compendio e un omaggio. Curata da Alessandro Barbera, Stefano Boni e Grazia Paganelli, allinea negli spazi della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo un’imponente mostra fotografica, mentre nelle sale del Cinema Massimo verranno proiettati i cinquantuno lavori, fra cortometraggi, documentari, fiction , di una carriera ormai quarantennale: dai dodici minuti di Herakles (1962) sul mondo dei culturisti, all’Antartide di Incontri alla fine del mondo, dello scorso anno, passando per Cuore di vetro, Fitzcarraldo, Apocalisse nel deserto. Ancora, al Piccolo Regio è previsto il cine-concerto Requiem for a Dying Planet con le musiche di Ernst Reijseger dalle colonne sonore di Il diamante bianco e L’ignoto spazio profondo e, come contributo scritto, una monografia di Grazia Paganelli (Herzog, il Castoro editore), la più completa finora uscita e che si avvale anche di una lunga intervista ricca di considerazioni personali.
Che cosa fa di Herzog un regista unico, diverso cioè da qualsiasi altro, non il più bravo, categoria in sé già derisoria, o il più colto, categoria in sé già ridicola, ma quello per il quale non trovi né apparentamenti né filiazioni, ma solo il crescere e/o l’esaurirsi nelle proprie ossessioni? La definizione da cui siamo partiti, «ultimo avventuriero del cinema» ci aiuta a districarci in un campo dove il business e il commerciale hanno una loro, come dire, legittimità artistica, dove l’artista solitario è un controsenso e l’arte per l’arte una parolaccia. Herzog vi si aggira nel nome di una «insensatezza» apparente, la stessa per la quale, a trent’anni, d’inverno, andò a piedi da Monaco a Parigi nell’«assoluta fiducia» che così facendo la sua amica Lotte Eisner, nume tutelare della cinematografia tedesca, allora gravemente malata, sarebbe rimasta in vita. «Dissi no, non può essere, non in questo momento, il cinema tedesco proprio ora non può fare a meno di lei, non dobbiamo permettere che muoia». Insensatezza, dunque, «se tale è, e il calice vuotato sino alla feccia», in mezzo a strade, boschi e paesi spazzati dalla neve e dal gelo. Sentieri di ghiaccio si intitola il resoconto di quel viaggio-pellegrinaggio. La Eisner non morì, ma questa è un’altra storia.
È la stessa «insensatezza» che fa da motivo conduttore di quel capolavoro che si intitola Fitzcarraldo, due anni e mezzo di lavorazione nella giungla amazzonica, otto miliardi di lire spesi di tasca propria, Palma d’Oro per la regia al Festival di Cannes. Brian Sweney Fitzgerald, per i peruviani Fitzcarraldo , sa bene di apparire agli occhi dei piantatori di caucciù che lo contornano - banda di lestofanti arricchiti, volgari e tronfi - «l’eroe dell’inutile» come ironicamente e brutalmente uno di essi, Don Araujo, lo definisce. Ma sa altrettanto bene che di fronte al suo sogno, alle sue chimere, Don Araujo «è completamente morto, non vive già più... La realtà del suo mondo è solo una caricatura delle Grandi opere». L’avventura di Fitzcarraldo non è nella grandiosità dei progetti: la ferrovia transamazzonica, lo «spostare una montagna» per «collegare» due fiumi, il fondare una città nel bel mezzo della foresta inesplorata o il costruire un grande teatro in un agglomerato urbano tutto sporcizie e miserie. È nell’avventura in sé, nell’unica possibilità concessa all’individuo per misurare se stesso. L’avventuriero Fitzcarraldo, per la gente comune è un visionario. In realtà il suo sogno è l’unica vera dimensione del reale possibile. «La nostra vita quotidiana - dice Herzog-Fitzcarraldo - costituisce un’illusione, dietro la quale si cela la realtà dei sogni».
Non è un caso che il diario di quell’esperienza, uscito solo un quarto di secolo dopo, si intitoli La conquista dell’inutile, e non è un caso che sempre e comunque, da Aguirre furore di Dio a Lezioni delle tenebre, il paesaggio sia l’altra faccia dell’insensatezza ovvero dell’inutilità. Non è uno sfondo, un decoro più o meno hollywoodiano, è qualcosa di interiore, ha a che fare con la psicologia più che con la geografia. «Un pittore che amo molto - mi dice Herzog - è Caspar David Friedrich, il che non vuol dire una passione per la pittura romantica in generale, che invece mi è estranea. I miei gusti vanno più all’alto medioevo, o a Rembrandt... Ma rispetto a Friedrich, identica è l’idea di un paesaggio dell’anima, una sorta di condizione umana, di stato febbrile, di deliro e il tentativo di rappresentare tutto questo per immagini, per analogie naturali». È, se si vuole, un modo premoderno di concepire questo rapporto e Herzog, pur essendo un cineasta modernissimo e un appassionato della scienza e delle sue conquiste, è di fatto un premoderno come sensibilità, ovvero uno che non ha delegato alla tecnica il compito di guidarlo nel suo rapporto con ciò che ci circonda. «C’è stato un progressivo allontanamento, un continuo attentare alla dignità e inviolabilità della natura, delle sue montagne, dei suoi mari. Un paesaggio si può arrivare a conoscerlo solo a piedi. Un uomo che arriva a piedi non è un bruto. Andare a piedi, questa è la virtù. Io non temo la modernità, fa parte della nostra vita, ma mi spaventa questo abbandonare un terreno comune...».
«Ogni avventuriero nasce da un mitomane» diceva Malraux. Herzog non fa eccezione. La veridicità dei suoi film, ovvero per lo spettatore il poter credere ai propri occhi, è l’altra faccia di un’ossessione che si nutre di un senso religioso profondo, il peccato originale come punto iniziale di una caduta che sempre ci accompagna, di una necessità di purezza e di spiritualità, di una volontà di mettersi sempre e comunque alla prova. «Il lavoro che faccio attiene all’immaginario e perciò un po’ di follia c’è sempre. Detto questo, sono sano di mente, non riesco a definirmi un artista, credo che ciò che scrivo sopravviverà al ricordo dei miei film, e del resto vado al cinema pochissimo, dieci volte l’anno. Che altro? Ah sì, sono anche un bravo cuoco...». Le sue bestie nere sono la psicanalisi e le ideologie. «Uno dei problemi del XX secolo è pensare che la psicanalisi sia una scienza: è una stupidaggine più pericolosa della stessa stupidità. A me piace che il mio inconscio mi rimanga sconosciuto... Quanto alle ideologie, per liberarmene una volta ho detto che girare un film è più una questione di atletica che di estetica... Non è così, certo, sennò Del Piero sarebbe il più grande regista vivente, però qualcosa di vero, riguardo agli spazi, al loro uso, c’è».
Il vero nome di Werner Herzog è Werner H. Stipetic. L’infanzia e l’adolescenza le passò in un villaggio sperduto delle Alpi bavaresi: non c’era telefono, né televisione, una macchina faceva sensazione. «Non sapevo che cosa fosse un’arancia o una banana, parlavo a fatica, non parlavo tedesco. Da grande, quando ho visto Padre padrone dei fratelli Taviani mi sono commosso: quel pastore ero io». Der Schwerblutig Herzog, il malinconico Herzog.