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Perché la strategia Usa riguardo all'Iran sta andando in frantumi

di Marc Lynch - 16/01/2008

Gli Stati del Golfo non vogliono più isolare l'Iran.



'Dovunque ci si giri, la politica dell'Iran è quella di fomentare l'instabilità e il caos", era stata l'ammonizione del Segretario alla Difesa, Robert Gates, ai VIP del Golfo in Bahrain il mese scorso. Ma in realtà, dovunque ci si giri, dal Qatar all'Arabia Saudita all'Egitto, adesso si vedono i leader iraniani che infrangono tabù di vecchia data incontrando cordialmente i loro omologhi arabi.

Il Golfo si è allontanato dalle argomentazioni americane a favore dell'isolamento dell'Iran. Chi prende le decisioni politiche in America deve fare lo stesso.

Gli Stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) si stanno adattando al peso crescente dell'Iran nella politica regionale. Restano parti essenziali dell'architettura di sicurezza dell'America nella regione, ospitando enormi basi militari Usa e fornendo sostegno finanziario all'economia americana in cambio di protezione. Tuttavia, come sostiene l'analista saudita Khalid al-Dakhil, non si accontentano più di stare seduti passivamente sotto l'ombrello di sicurezza statunitense, e vogliono evitare di essere pedine nella lotta per il potere fra Usa e Iran. Pieni di soldi, non sono interessati a una guerra che manderebbe a monte gli affari.

Ecco perché il tentativo americano di puntellare il contenimento contro l'Iran sembra sempre più la battaglia di ieri. Il 3 dicembre, il Presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad ha parlato al GCC a Doha, in Qatar. Era la prima volta che un leader iraniano si rivolgeva all'alleanza, che era stata formata nel 1981 contro la sfida iraniana.

Alcune settimane dopo, il re saudita Abdullah ha invitato Ahmadinejad in Arabia Saudita – la terza visita del presidente in un anno – per l'hajj, ovvero il pellegrinaggio musulmano alla Mecca. Il re ha usato l'occasione per tenere colloqui cordiali.

L'Iran sta cercando di comunicare persino con l'Egitto. Ali Larijani, capo del Consiglio per la sicurezza nazionale iraniano, è stato di recente in visita al Cairo per i colloqui più ad alto livello in 27 anni. In seguito, il capo della Lega Araba, Amr Moussa, ha dichiarato in modo schietto che non aveva senso che gli arabi trattassero l'Iran come un nemico.

Così, gli arabi del Golfo hanno palesemente cestinato il pilastro centrale della strategia americana sul Medio Oriente dell'ultimo anno. Sauditi ed egiziani erano stati il motore primario della concitazione anti-iraniana e anti-sciita. Quando invitano Ahmadinejad e Larijani nelle loro capitali, i discorsi dell'America di isolare l'Iran suonano obsoleti.

Oggi si sente parlare poco della "mezzaluna sciita" che minaccia la regione, contro la quale i funzionari arabi un tempo lanciavano seri ammonimenti. L' "asse della moderazione" proposto dall'amministrazione Bush, che unisce gli Stati arabi sunniti e Israele contro l'Iran, è sparito senza troppo rumore.

Nel frattempo, il GCC sembra più unito e sicuro di sé di quanto non sia mai stato da anni. Agli inizi di questa settimana, i sei Paesi membri si sono messi d'accordo per formare un mercato comune. L'Arabia Saudita e il Qatar hanno cercato di comporre le loro divergenze. Le pressioni per le riforme politiche interne sono state generalmente neutralizzate, e il boom petrolifero ha consentito all'Arabia Saudita di portare avanti una politica estera dinamica. Gli Stati del Golfo non abbandoneranno tanto presto i loro protettori Usa, ma sembrano più disposti che mai ad agire di loro iniziativa.

I segnali emergenti di un incerto disgelo nel Golfo non sono dovuti solo alla pubblicazione delle conclusioni della National Intelligence Estimate (NIE) del mese scorso, secondo cui l'Iran non sta più perseguendo un programma di armamenti nucleari. La NIE ha contribuito a dare il via al disgelo, convincendo gli arabi che una guerra guidata dagli Usa contro l'Iran è diventata assai meno probabile. Ma è chiaro da tempo che la maggior parte dei governanti del Golfo non ha alcuna voglia di una guerra che manderebbe all'aria il loro boom economico e li metterebbe massimamente a rischio. Oggi i media del Golfo parlano più di evitare la guerra che di fomentarla.

Persino in Iraq, i timori di una guerra per procura fra Iran e Arabia Saudita hanno lasciato il posto a indizi di un modus vivendi emergente. I regimi del Golfo restano ostili al governo iracheno filo-iraniano, tuttavia, invece di cercare di sostituirne il leader sciita, Nuri al-Maliki, adesso sembrano accontentarsi del fatto che l'ascesa dei "risvegli" sunniti– consigli di quartiere appoggiati dagli Usa che hanno iniziato a combattere al Qaeda – terrà a bada le ambizioni iraniane. I protetti sauditi e iraniani in Iraq sembrano persino ritagliarsi zone di influenza, come fanno pensare i recenti colloqui fra il Consiglio di Salvezza di al Anbar, sunnita, e il Consiglio Supremo islamico iracheno, sciita.

Questo non significa che gli Stati del Golfo siano a loro agio rispetto al potere iraniano. Il sentimento anti-sciita e anti-persiano esiste in tutto il Golfo. La disputa territoriale dell'Iran con gli Emirati Arabi Uniti genera notevoli passioni in quel Paese. Pochi leader del Golfo o leader arabi accettano pubblicamente di buon grado un programma nucleare iraniano. E la proposta di Ahmadinejad per una nuova architettura di sicurezza del Golfo che comprenda l'Iran è stata vista in larga misura come una iniziativa per l'egemonia iraniana, non come un vero patto di sicurezza collettiva.

Gli Stati del Golfo vedono l'Iran come una sfida con cui si confrontano da decenni, non come una minaccia urgente o esistenziale. Il cambiamento dell'approccio arabo potrebbe lasciare agli Usa poca scelta se non quella di fare lo stesso. Proprio come il contenimento americano dell'Iraq iniziò a crollare alla fine degli anni '90, quando i suoi vicini arabi persero fiducia nel valore delle sanzioni, i nuovi atteggiamenti del Golfo probabilmente adesso determineranno ciò che gli Usa possono fare con l'Iran.


Marc Lynch è professore di Scienze politiche e di affari internazionali alla George Washington University.


(Traduzione di Ornella Sangiovanni)

Articolo originale


The Christian Science Monitor