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Il turismo standardizzato e quello della fine del mondo

di redazionale - 18/01/2008

Il turismo ambientale, che comprende anche il “turismo climatico” o "della fine del mondo" cresce tre volte di più di quello tradizionale, giurando su una sua sostenibilità non sempre veritiera e spesso non praticata

 

Dall’audizione della decima commissione per le attività produttive della Camera è emerso un quadro non proprio roseo del turismo italiano: offerta inadeguata, imprese sottocapitalizzate, offerta “vecchia” che non ci permettere di essere competitivi con Paesi più aggressivi e nuovi turismi che si affacciano nel mondo sfruttando nicchie di offerta sempre più richieste.

Durante la sua audizione davanti alla Commissione, Raffaele Vanni del Consiglio nazionale dell´economia e del Lavoro (Cnel) ha spiegato che «la nostra formula d´offerta non si è coniugata con i trend del mercato mondiale attuale, sia riguardo alla tipologia di prodotto sia nelle modalità temporali, ferme al concetto di soggiorni di 15 o sette giorni. Oggi abbiamo centinaia di milioni di turisti che fanno viaggi brevi, di tre e quattro giorni, ed esigono una risposta ad alta flessibilità che in Italia non c´è ancora. Così come non c´è più nel mondo, una domanda gestita prevalentemente dai tour operators e dalle agenzie, bensì un´elevata componente di turismo individuale. Tutto questo presuppone un´offerta di servizi che nel nostro paese soffre di un deficit strutturale. Non si può più pensare di soddisfare la clientela internazionale con alberghi e ristorazione. Ci vuole ben altro: escursioni, facilities e strumenti per la mobilità rapida da una meta all´altra. Oltre a tutto, la nostra offerta di punta, mare, spiagge e sole, presenta ormai un´enorme e agguerrita concorrenza estera, molto più attrattiva anche in termini , tariffari, e l’Italia non ha ancora lanciato».

Insomma il turismo ha bisogno di un mix contraddittorio fatto di superamento della dimensione familiare delle imprese, di concentrazione e innovazione, offerta di panorami ed ambienti integri e nuove infrastrutture per rendere più gradevole il soggiorno e veloci i trasporti. Una specie di quadratura del cerchio che da sempre è la contraddizione insanabile dell’industria turistica. Forse, il fallimento del federalismo turistico affidato alle regioni dipende anche dalla sottovalutazione, non solo della necessità di un governo nazionale del settore, come emerso nell’audizione della Camera, ma forse anche di più dalla scarsa importanza che si dà alla mutazione del turismo mondiale, accelerata dai cambiamenti climatici in corso che rischiano di scompaginare rendite che si davano per eternamente acquisite e di aprire mercati prima impensabili. E la politica italiana, fatta soprattutto di localistici aggiustamenti e di rincorsa a miopi richieste corporative (e conservatrici) non sembra non solo capace di dare risposte, ma di comprendere lo sconvolgimento in atto.

Un esempio estremo viene dal singolare mercato del “turismo climatico”, innescato dalla scioglimento dei ghiacci in Artide ed Antartide e dall’estinzione accelerata delle specie, con turisti ricchi e “eco” che si precipitano a vedere in costose crociere o viaggi-avventura i ghiacciai antartici che precipitano in mare o le piccole isole coralline che affogano nel Pacifico, assicurandosi una finestra esclusiva sulla “fine del mondo”.

Il cambiamento climatico, che potrebbe rappresentare un colpo mortale per il turismo del Mediterraneo e che nessuna strategia commerciale e nessuna Commissione parlamentare italiana hanno ancora mai preso davvero in considerazione, sta portando frotte di viaggiatori ben paganti a vedere il disastro prossimo-venturo, a rimirare ghiacci marini ed orsi bianchi che forse tra 30 o 50 anni non ci saranno più, oppure i paradisi dei mari del sud, i piccoli Stati insulari che già ammainano le loro recenti bandiere davanti all’oceano che sale. “Vederlo prima che sparisca” sembra il grido di battaglia di questo nuovo turismo eco-catastrofico, un urlo che si potrebbe applicare anche ai nostri monumenti rosi dall’inquinamento, abbandonati per troppa abbondanza, mai conosciuti perché sono usciti dalla storia per entrare nei polverosi magazzini di qualche soprintendenza.

Eppure, ne parlavamo ieri su Greenreport, anche il Mediterraneo, anche le nostre coste e le nostre isole, sono un punto caldo della perdita di biodiversità del pianeta, anche qui agisce in maniera visibile, anche se meno estrema, il global warming. Forse il modo migliore per salvare il turismo, per essere davvero competitivi, sarebbe quello di valorizzare quel che abbiamo, di difenderlo con politiche di contrasto al riscaldamento globale, valorizzando una biodiversità animale, vegetale ed umana troppo spesso trascurata, facendo ridiventare interessante questo nostro Paese. Ma per questo, più che di standardiddazione turistica, di nuovi porti, strade e cemento, occorrono politiche capaci di pensare il futuro e di analizzare i rischi che già sono presenti, di proporre vie d’uscita sostenibili.

La Lipu ieri ci diceva che con tre gradi di temperatura in più perderemmo il Gabbiano corso, la Pernice rossa ed un po’ di altri uccelli marini, perderemmo bellezza e simboli di una fauna che in pochi conoscono, ma quell’estinzione è anche il bioindicatore di uno sconvolgimento climatico che spazzerebbe via il turismo dalle nostre coste insieme al becco rosso del Gabbiano corso, ed anche i turisti seguirebbero gli uccelli verso latitudini più gradevoli, magari per venire a vedere in un nuovo pellegrinaggio delle catastrofi il deserto che avanza sulle coste di quella che fu la verde Italia.

Il turismo mondiale negli ultimi 10 anni ha avuto un incremento del 4,3% all’anno ed è destinato a crescere ancora, spinto dall’ingresso nel mercato dei nuovi ricchi asiatici, nel 2007 ha fatturato 7.000 miliardi di dollari, il 10,7% del Pil mondiale e da lavoro, direttamente o indirettamente, a 231 milioni di persone. E’ forse diventato il più grande generatore di ricchezza del pianeta ma con un costo ambientale enorme, a volte fino all’insostenibilità, come dimostrano lo sconcio di certe coste dell’Europa mediterranea completamente artificializzate o le vere e proprie operazioni di colonialismo turistico in corso in molti Paesi in via di sviluppo, con l’esportazione di fortezze di benessere occidentale chiuse in ambiente tropicale.

Il turismo ambientale, che comprende anche il “turismo climatico” cresce tre volte di più, giurando su una sua sostenibilità non sempre veritiera e spesso non praticata.

E allora, i codici di condotta “verde” forse non dovrebbero più riguardare nicchie e Paesi ma tutta l’industria turistica che, tolte punte di completa artificializzazione come gli Emirati Arabi o il turismo stile Las Vegas e Disneyland, si basa ancora su una materia prima sempre meno disponibile ed in rapido mutamento: l’ambiente.