Cos'è l'ego? Intervista a James Hollis su Jung
di Amy Edelstein - 05/01/2006
Fonte: innernet.it
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Amy Edelstein: Cos’è l’ego, secondo Jung? James Hollis: L’ego, così come è stato definito da Jung, è il complesso centrale della consapevolezza. Quando sentiamo la parola complesso, siamo portati a pensare a qualcosa di patologico, mentre in realtà un complesso non è altro che un grappolo di energia affettivamente carico. Il complesso dell’ego comincia a formarsi quando ci stacchiamo dall’altro primario, che in genere è nostra madre; cioè, quando ci stacchiamo dal seno. E se da un lato questa separazione è necessaria per la formazione dell’individuo, dall’altro è molto dolorosa, perché rappresenta la perdita di quella primitiva esperienza di unità e sensazione di appartenenza. Jung considerava essenziale per la consapevolezza la formazione dell’ego. La consapevolezza implica la divisione tra soggetto e oggetto: per diventare conscio, devo conoscere ciò che non sono. Ho bisogno di percepire ciò che è là come opposto a ciò che è qui. Inoltre, egli vedeva l’ego come un elemento necessario dell’intenzionalità, della concentrazione e della risolutezza. In che modo io e te siamo riusciti a combinare un incontro per parlare dello stesso argomento? Grazie alla “risolutezza dell’ego”, un elemento che ha fatto sì che questa conversazione accadesse. L’ego, in quanto complesso, è estremamente malleabile e “occupabile”. Quando viene occupato dai contenuti dell’inconscio, quando è sotto il controllo di altri complessi, diventa insicuro, manipolato ecc. Vedi, ciò che spesso chiamiamo ego è in realtà l’ego posseduto da uno o più complessi, per esempio il complesso dei soldi, del potere, del sesso, dell’aggressività. Tali complessi non sono la natura essenziale di un individuo, ma hanno il potere di usurpare o possedere l’ego. Amy Edelstein: Secondo la concezione di Jung, l’ego è un elemento della personalità positivo, negativo o neutrale? James Hollis: Come ho già detto, l’ego è una formazione necessaria per lo sviluppo dell’identità, della consapevolezza, dell’intenzionalità e della risolutezza: elementi tutti positivi. L’ego in sé non è un problema. Ma quando è posseduto dalle nostre insicurezze, quando è sotto il controllo del nostro passato, diventa per così dire nevrotico, si trasforma in un ostacolo. Quindi, il problema non è l’ego; il problema è ciò che accade all’ego. L’equilibrio perfetto – se mai potessimo raggiungerlo – sarebbe uno stato di ego aperto, in dialogo con le altre parti del mondo esteriore e interiore, in cui possiamo assorbire messaggi dalla cultura (senza necessariamente farci incorporare da quest’ultima) e anche dialogare con l’inconscio. Amy Edelstein: Questi complessi hanno una loro volontà o siamo noi, alla fin fine, a scegliere il complesso prevalente? James Hollis: Facciamo un esempio. Una persona dice: “Quando osservo il mio passato, vedo certi schemi in atto. L’unica persona presente in ogni momento della mia vita sono io, quindi sono in qualche modo il creatore di quegli schemi. Posso incolpare la civiltà occidentale o i miei genitori, se lo voglio, ma devo riconoscere che in qualche modo sto creando tutto ciò”. Diremo che in questo caso l’ego sta operando bene, perché si sta aprendo al dialogo con altre parti della psiche. Amy Edelstein: L’ego, secondo Jung, equivale a ciò che chiamiamo io? James Hollis: In generale, “chi penso di essere” è lo stato dell’ego. Ma il problema è che “chi penso di essere” può anche essere un complesso. Posso essere nato in una famiglia di schiavi e avere l’identità di uno schiavo. L’unico momento in cui siamo in uno stato di puro ego, penso, è quando stiamo reagendo in modo strettamente riflessivo al momento. Durante un’attività sportiva, non si è normalmente in un complesso. Il battitore può essere tanto nervoso da non riuscire a ruotare la mazza, ma di solito quando la palla viene lanciata, si è totalmente concentrati e presenti sul momento. Quello è uno stato di puro ego. Amy Edelstein: Lo stato di puro ego di Jung equivale alla condizione in cui conosciamo la realtà per ciò che è? James Hollis: Sì, giusto. In questo senso non è molto diverso dal concetto zen di “non-mente”, cioè puro essere. Ma per agire nella società, abbiamo bisogno di un ego che ci permetta di strutturare il tempo e di organizzare la nostra energia al servizio di certe astrazioni come l’economia, il servizio ecc. Il concetto junghiano di ego si è evoluto col tempo. All’inizio Jung voleva, penso, privilegiare i messaggi dell’inconscio e dire che il compito dell’ego era stare al servizio di ciò che l’inconscio desiderava. In seguito, modificò questa concezione e sottolineò la necessità di una responsabilità etica. Per esempio, se sogno di uccidere qualcuno, non è che mi sveglio e uccido quella persona. Mi chiedo: “Cosa vuol dire questo sogno?”. Questo è un uso appropriato dell’ego: rielaborare consciamente le esperienze della vita, senza dare un peso eccessivo né al mondo esteriore né a quello interiore. Amy Edelstein: Quali erano le idee di Jung sulla relazione tra la coscienza e l’ego? James Hollis: Prima di rispondere a questa domanda, lasciami fare un passo indietro. Vedi, per Jung la realtà sovraordinata è ciò che chiamava il Sé, che non va confuso con l’ego. Nella prima metà della vita, il nostro compito è sviluppare un ego, una consapevolezza di noi stessi abbastanza salda da permetterci di lasciare i genitori e andare nel mondo dicendo: “Assumimi, posso fare questo lavoro”, “Fidanziamoci, sono affidabile”, ecc. Se non sviluppiamo sufficientemente la consapevolezza dell’ego, restiamo bambini. Il dialogo, nella prima metà della vita, è il dialogo con il mondo. Cosa mi chiede il mondo? Invece, nella seconda metà della vita, diceva Jung, l’ego deve cominciare un dialogo con il Sé. A questo punto, la domanda è: “Cosa mi chiede il Sé?”. Questo è un dialogo molto più interiorizzato; potremmo dire che è un dialogo religioso. Infatti, il Sé potrebbe condurci in una direzione sgradita all’ego, volta non all’autoesaltazione, ma al sacrificio. Per esempio, se l’aspirazione del Sé è essere un artista, è probabile che nella nostra cultura patirai la fame. Ma se questo è ciò che il Sé chiede e l’ego continua a scappare in altre direzioni, il risultato sarà un’enorme sofferenza interiore. Quindi, alla fine, l’ego deve rispettare le richieste del Sé; ha la responsabilità etica e religiosa di dialogare con quest’ultimo, continuando però a vivere nel mondo reale. E tra i compiti dell’ego c’è anche il far fronte al possibile conflitto derivante. Amy Edelstein: Cos’è il Sé, secondo Jung? È ciò che rappresenta o ci invita a realizzare il nostro potenziale più elevato di esseri umani? James Hollis: Il Sé sarebbe la saggezza dell’organismo. La totalità dell’intenzionalità di ciò che siamo, che trascende la consapevolezza. Amy Edelstein: Hai detto che, “dialogando con il Sé”, potremmo scoprire che il nostro destino è diventare artisti. Quando Jung parla di queste “aspirazioni del Sé”, sembra che si riferisca a quei ruoli nella vita per cui siamo più adatti e dove possiamo esprimere al meglio il nostro talento. Aggiunge anche che ciò non implica necessariamente un cammino spirituale. James Hollis: Beh, si tratterebbe della nostra vocazione autentica, nel senso della parola latina “vocatus”, essere chiamati. Cosa si è chiamati a essere, come persone? Ciò ha poco o nulla a che fare con l’ego. La storia è piena di persone il cui ego avrebbe potuto sentirsi appagato dalla posizione che occupavano, ma che sentirono un’altra aspirazione e dovettero abbandonare il mondo sicuro in cerca di un significato o una profondità maggiori. Amy Edelstein: Qual è, per te, lo scopo della psicologia junghiana? Forse aiutarci a realizzare il nostro potenziale più elevato? James Hollis: Sì. Vedi, per Jung la metafora centrale era l’«individuazione», che tanto spesso viene confusa con lo sviluppo dell’ego. Invece, essa consiste nel mettere l’ego in relazione a quella realtà sovraordinata che tutti siamo. “Individuazione” vuol dire diventare ciò che vogliono gli dei, non l’ego. E può esserci una grande differenza. Quando qualcuno dice: “Sia fatta la tua volontà, non la mia”, questo è l’ego che dialoga con il Sé. Ebbene, Sé è una parola come Dio, volontariamente ambigua; non si riferisce a un’entità, ma a un mistero. Amy Edelstein: In che modo la terapia junghiana ci aiuta a coltivare quella forza di volontà necessaria a rispondere alla chiamata del Sé? James Hollis: Se non prestiamo ascolto al Sé, la conseguenza è la sintomatologia. Quando il Sé viene violato, ciò si rifletterà nelle nostre relazioni, attaccherà il corpo, sarà nei nostri sogni, produrrà stati emotivi. In altre parole, la sintomatologia è un indicatore dell’autonomia del Sé, perché sta dicendo: “Guarda, sei fuori strada”. E il fine della terapia (che si tratti di una terapia convenzionale con un terapista o di un processo individuale) è prestare attenzione a ciò che questi sintomi stanno dicendo. L’approccio junghiano alla sintomatologia non è reprimere, ma chiedere: “Cosa vuol dire? Dov’è la ferita, qual è il rimedio richiesto?”. Per esempio, il nostro scopo non è rimuovere la depressione. Quest’ultima, in realtà, è un modo per dire che non stiamo vivendo una parte essenziale della nostra vita. Nel nostro istituto abbiamo dei dipinti del pittore svizzero Peter Birkhauser. All’inizio, egli faceva il grafico. Era molto razionale e pensava che l’arte moderna fosse anarchica e priva di valore. Poi, arrivato alla mezza età, cadde in profonda depressione. Andò in terapia a Zurigo e il terapista gli chiese di cominciare a dipingere i sogni. Egli lo fece, arrivando a sviluppare un tipo di creatività e un’arte completamente diverse, che lo resero discretamente famoso in Svizzera. Questo era un esempio di critica, da parte del Sé, della limitata comprensione che l’ego aveva di se stesso. Esistono quadri nei quali egli appare spaventato da questa creatività. Uno si intitola Sulla soglia: in esso tiene ansiosamente chiusa una porta al di là della quale c’è un animale spaventoso. Naturalmente, l’ego avrà paura di aprire quella porta: verrebbe mangiato vivo! Ma l’animale simboleggiava la sua vocazione, e quando aprì la porta, fu inondato di energia. Dunque, puoi vedere perché il dialogo con il mondo interiore è tanto necessario quanto quello con il mondo esteriore. Ed è indispensabile rafforzare l’ego, affinché possa sostenere questo dialogo, senza però fantasticare di tenere tutto sotto controllo. L’atteggiamento giusto, per l’ego, è un’umiltà sincera. Amy Edelstein: Nelle tradizioni spirituali l’ego è visto come una forza negativa; per esempio, come orgoglio o egoismo. Da questo punto di vista, è paradossale immaginare che possa coltivare un atteggiamento di umiltà. Ma sembra che Jung pensasse a due diversi aspetti o stadi di sviluppi dell’ego: uno in cui l’ego, in quando funzione autoregolantesi, ha bisogno di rafforzarsi per aiutarci ad affrontare le sfide del mondo; l’altro in cui l’ego deve farsi umile per permettere all’individuo di scoprire la saggezza più profonda e sottile della vita. James Hollis: Giusto. Parlando in termini generali, esistono due compiti nella nostra evoluzione. Uno è la creazione di un ego abbastanza forte da poter affrontare la vita, conformandola alle sue richieste. L’altro è avere la forza di rendere umile l’ego, dicendo: “E ora cosa vogliono gli dei da me?”. Questa è una cosa completamente diversa. Amy Edelstein: Jung ha parlato estesamente dell’ombra. Cos’è l’ombra per lui, e qual è il suo rapporto con l’ego? James Hollis: OK. La definizione più funzionale di un’ombra è: quella parte di me che mi mette a disagio con me stesso. Subito il pensiero corre a stati tipici come la rabbia. Io non voglio riconoscere la mia rabbia, perché disturba l’immagine che ho di me stesso. Ma molte volte, come nel caso del pittore svizzero, anche le nostre caratteristiche più potenti fanno parte della nostra ombra. Per cui, l’ombra è tutto ciò che sfida la fantasia dell’ego di tenere ogni cosa sotto controllo. Amy Edelstein: Ovvero, l’ombra può anche includere le nostre caratteristiche positive o quegli impulsi che possono portarci nell’ignoto e forse stimolare la nostra crescita? James Hollis: Sì, proprio così. Per questo ombra non è sinonimo di negatività. L’ombra è onnipresente nella nostra cultura: nell’indifferenza alle sofferenze che ci circondano, nel peccato di omissione, ma anche di eccesso di zelo ecc. D’altra parte, l’ombra è spesso il luogo dove vanno cercate le autentiche energie creative. Amy Edelstein: Jung vedeva il male come un complesso di forze dentro di noi? Oppure il male erano le nostre spinte egotiste e narcisiste portate all’estremo? James Hollis: Beh, queste sono tutte possibilità. Nel suo libro Risposta a Giobbe, egli parla del lato ombra di Dio, dicendo che tutta la teologia occidentale è stata unilaterale. L’ombra è stata cancellata, nascosta o proiettata su un nemico lontano. Il lato oscuro della divinità è la nostra opacità verso il lato oscuro in noi stessi. Sotto queste dualità le energie vitali sono unite, ma l’ego (e questo è un buon esempio di ciò che l’ego può fare), sentendosi a disagio con l’ambiguità di tutto ciò, cerca di separare le cose: “Io sono buono, tu sei cattivo. La nostra gente è buona, quella al di là dell’Hudson è cattiva”. Cerca anche di creare una scissione nella teologia. Nel monoteismo, cosa fai con il male? Lo etichetti come Satana, l’«avversario» o il diavolo, che vuol dire il principio opposto. E tale scissione è l’ego che cerca di privilegiare la sua insicurezza. Direi che il segno di un ego sano è la capacità di convivere con l’ansia, l’ambiguità e l’ambivalenza (le tre A), senza cercare di risolverle sempre. Infatti, la vita è ansiosa, ambivalente e ambigua: questa è la realtà. E più cerchiamo di risolverla o di dividerla, più ricadiamo in qualche tipo di fondamentalismo (militare, politico, teologico, economico, psicologico) che ha in sé i germi del totalitarismo. Gran parte di ciò che definisco fondamentalismo è in realtà un disturbo legato all’ansia, un tentativo di risolverla con un pensiero categorico e facendo proiezioni sugli altri. È un processo molto inconscio, opera di un ego decisamente immaturo. Puoi vedere quanto è importante che l’ego sia forte abbastanza da tollerare queste tensioni. Quando non riesco a sopportarle, le scaricherò su di te. Questa è tutta proiezione. E la proiezione è ciò che l’ego non sta affrontando. Puoi vedere in quanti modi diversi usiamo la parola ego. È possibile dargli una connotazione positiva; non è sempre un ostacolo all’illuminazione. È responsabile della consapevolezza, del comportamento etico e della soluzione al conflitto degli opposti. Amy Edelstein: Molti psicologi occidentali hanno criticato le tradizioni spirituali orientali per la loro concezione negativa dell’ego. Temono che il risalto dato all’addomesticamento, la sottomissione e la distruzione dell’ego possa impedire un sano sviluppo di quest’ultimo, compromettendo la nostra maturazione di individui. Cosa pensi di questa differenza di opinioni? James Hollis: Francamente, penso che in molti casi siamo di fronte a una confusione lessicale tra ego ed egotismo. Anche la concezione junghiana di individuazione è stata fraintesa come una forma di egotismo, quando in realtà si tratta di umiltà e di sottomissione alla propria vocazione di individuo. E questo è ben lontano dall’egotismo. Amy Edelstein: La concezione junghiana del nostro potenziale più elevato di esseri umani sembra includere la dimensione spirituale più di quanto faccia quella freudiana. James Hollis: Certamente. In realtà, il Sé è, in termini generali, un incontro religioso. Di fatto, Jung ha detto: “Ogni autentico incontro col Sé viene sperimentato come una sconfitta dell’ego”, perché le fantasie dell’ego sul controllo o il benessere vengono cancellate da ciò che vuole il Sé. |