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Medio Oriente: La sanguinosa realtà non ha alcun legame con le illusioni di questo presidente

di Robert Fisk - 18/01/2008





Tra lenzuola di seta – in una camera da letto in cui anche le mura sono coperte di seta – e proprio nel palazzo del re Abdullah dell’Arabia saudita, questa mattina si è svegliato il presidente George Bush per confrontarsi con un Medio Oriente che non ha alcuna relazione con le politiche della sua amministrazione, né con gli avvertimenti che egli sta dando regolarmente ai sovrani e agli emiri e agli oligarchi del Golfo: che l’Iran piuttosto che Israele rappresenta il loro nemico.

Ieri il presidente stava seduto a suo agio accanto all’amicone monarca, con addosso quello che a un occhio diffidente poteva apparire come il tipo di cardigan blu casual che egli potrebbe indossare nel suo ranch texano; aveva anche ricevuto una "Medaglia al merito" di oro tintinnante – che sembrava un po’ la catena ornamentale del Lord Cancelliere, sebbene non fosse stato reso noto quale particolare merito sia valso a Bush questa onorificenza reale. Si potrebbe trattare del merito ipocrita di aver fornito al Regno ancora altre armi dal valore di miliardi, da essere usate contro i nemici immaginari del regime saudita.

Una cosa illusoria, naturalmente, come tutti i discorsi che gli arabi hanno ascoltato dagli americani negli ultimi sette anni, così come a partire da quando il presidente in scadenza (di mandato) ha dato il via alla sua gita in Medio Oriente.

Non vorresti pensarlo, guardando questo uomo ridicolo, che si muove baldanzoso mano nella mano con il Re, in quella che presumibilmente potrebbe essere una danza, brandendo una massiccia e luccicante scimitarra saudita, un Saladino dei giorni nostri, che avrebbe fatto paura al leader kurdo che un tempo sterminò i crociati in quella che Bush chiama "la West Bank contesa".

È questo il modo in cui si immagina si comportino i presidenti americani “zoppi”? Di certo, gli abitanti del Medio Oriente che guardano a questa performance ignobile si staranno chiedendo tutti questo. A partire dalla Rivoluzione iraniana del 1979, una Guerra fredda islamica sta infiammando il Medio Oriente – ma è questo il modo in cui Bush pensa che si dovrebbe lottare per l’essenza dell’Islam?

Già ieri all’imbrunire, il mondo del presidente Usa stava esplodendo a Beirut, quando una massiccia auto-bomba è scoppiata nei pressi di un veicolo 4x4 che conduceva degli impiegati dell’ambasciata americana, uccidendo quattro libanesi e, a quanto pare, ferendo gravemente un autista dell’ambasciata Usa. E mentre Bush si stava rilassando nel ranch reale saudita ad Al Janadriyah, le forze israeliane uccidevano 19 palestinesi nella striscia di Gaza, per lo più membri di Hamas, uno di loro il figlio di Mahmoud Zahar, uno dei leader del movimento. Più tardi (quest’ultimo) ha dichiarato che Israele non avrebbe lanciato l’attacco – nel giorno in cui anche un israeliano è stato ucciso da un razzo palestinese – se non fosse stato incoraggiato a farlo da George Bush.

Difficilmente si sarebbe potuto illustrare in maniera più drammatica la differenza tra la realtà e il mondo sognato dall’amministrazione Usa. Dopo aver promesso ai palestinesi uno "stato sovrano e con continuità territoriale" prima della fine dell’anno, e aver garantito "sicurezza" a Israele – sebbene, come hanno notato gli arabi, non sicurezza per la "Palestina" – Bush è arrivato nel Golfo per terrorizzare i sovrani e gli oligarchi dei regni petroliferi col pericolo di un’aggressione iraniana. Come d’abitudine, è arrivato con le solite offerte americane di grosse vendite di armi per proteggere questi regimi per lo più non democratici e polizieschi dalla nazione potenzialmente più pericolosa dell’"asse del male".

È stato un potente - e anche bizzarro – esempio  della passeggiata del presidente Usa nel Medio Oriente arabo, un ritorno alla "politica della paura" che Washington ha regolarmente proposto ai leader del Golfo. Egli si è accordato per fornire ai sauditi almeno 41 milioni di sterline di armi, una cifra pronta a crescere fino a oltre 10 miliardi di sterline in armamenti per i potentati del Golfo sotto un accordo annunciato lo scorso anno – presumibilmente tutti diretti a proteggerli dalle supposte ambizioni territoriali del folle presidente dell’Iran, Mahmoud Ahmadinejad. Come al solito, Washington ha garantito agli israeliani che il loro "margine qualitativo" in armi avanzate sarebbe stato mantenuto, proprio nel caso in cui i sauditi – che non sono mai entrati in guerra con nessuno eccetto Saddam Hussein dopo la sua invasione del Kuwait nel 1990 – decidessero di lanciare un attacco suicida contro il solo vero alleato degli Stati Uniti in Medio Oriente.

Questo, naturalmente, non è tutto ciò che è stato presentato agli arabi. Si è potuto vedere Bush baciare apertamente le guance di re Abdullah e stringere la mano del monarca autocratico il cui Stato musulmano wahabita ha solo di recente mostrato la sua "pietà" per una donna saudita che era stata accusata di adulterio dopo essere stata violentata sette volte nel deserto fuori Riyadh. I sauditi, è superfluo dirlo, sono ben coscienti che il regno di Bush sta finendo tra il caos in Pakistan, una disastrosa guerriglia contro le forze occidentali in Afghanistan, i selvaggi combattimenti a Gaza, la quasi guerra civile in Libano e il disastro infernale dell’Iraq.

La bomba a Beirut, poco prima delle cinque della sera, deve essere arrivata come un duro scossone per il lussurioso presidente che ha così stretti legami col regime saudita – nonostante il fatto che la maggioranza degli attentatori nei crimini contro l’umanità dell’11 settembre 2001 venissero dal Regno – che ha concesso ai suoi principi ereditari di tornare a casa dagli Stati Uniti subito dopo gli attacchi. Due viaggi nel ranch texano di Bush da parte del re Abdullah sono stati apparentemente sufficienti per garantire al presidente Usa una notte nel palazzo reale saudita, circondato da prati curati e colline fiorite.

Sentita a distanza di molte miglia nella capitale libanese, la bomba ha devastato gli edifici di una via angusta nella parte est della città attraverso cui stava passando l’automezzo, proprio mentre l’ambasciatore Usa – in un’altra via cittadina – si stava dirigendo a un ricevimento in un hotel del centro di Beirut, prima di partire per Washington. Un portavoce del dipartimento di Stato, comunque, ha insistito nel dire che nessun cittadino statunitense è stato ferito. Il Suv americano ha imboccato un oscuro vicolo nei pressi del ponte Karantina per dirigersi a nord di Beirut lungo la sponda dell’unico fiume della città, quando è stato colpito, spingendo i funzionari dell’esercito libanese a chiedersi se l’attentatore fosse a conoscenza della strada che stavano prendendo.

Secondo alcune voci si trattava di un convoglio "posticcio" organizzato per distogliere i possibili attentatori dal percorso che stava compiendo l’ambasciatore Jeffrey Feltman verso un ricevimento in un hotel del centro. Una fabbrica artigianale di tappeti è stata devastate dall’esplosione che ha divelto tetti e distrutto finestre a più di mezzo miglio di distanza.

Per i leader arabi, il messaggio di Bush ai leader del Golfo è suonato ancora una volta familiare. Negli anni ottanta, quando l’amministrazione Reagan sosteneva l’invasione dell’Iran da parte di Saddam Hussein, Washington occupò il suo tempo a mettere in guardia i leader del Golfo dal pericolo di un’aggressione iraniana. Quando Saddam invase il Kuwait, la retorica Usa cambiò: adesso era l’Iraq a costituire il pericolo più grosso per i loro regni. Ma dopo che l’emirato fu liberato, ai monarchi petrolieri fu detto che – ancora una volta – era l’Iran a essere il loro nemico.

Gli arabi non sono presi da questa confusa narrativa del ”bene-contro-male" più di quanto lo siano dalla promesse di Washington di contribuire a creare uno Stato palestinese entro la fine dell’anno, appena un giorno prima che Israele ammettesse pubblicamente di pianificare ancora altre abitazioni per i coloni in territorio arabo tra colonie ebraiche costruite illegalmente in territorio palestinese.

Eppure per capire la natura di questa straordinaria relazione con le monarchie del Golfo, è necessario ricordare che da quando il padre del presidente promise una “oasi di pace" libera dalle armi nel Golfo, Washington – insieme alla Gran Bretagna, la Francia e la Russia – sta riversando armi nella regione.

Nell’ultimo decennio, gli arabi del Golfo hanno sperperato miliardi dei loro dollari provenienti dal petrolio in armi americane. Le statistiche parlano chiaro. Solo nel 1998 e nel 1999, le spese militari dei Paesi arabi del Golfo sono arrivate a 40 miliardi di sterline. Tra il 1997 e il 2005, gli sceicchi degli Emirati Arabi Uniti – ospiti di Bush prima che continuasse per Riyadh – hanno firmato contratti per armi dal valore di 9 miliardi di sterline con i paesi occidentali. Tra il 1991 e il 1993 – quando l’Iraq era il "nemico" – la Us Military Training Mission gestiva più di 14 miliardi di sterline in commesse militari saudite e 12 miliardi di sterline per l’acquisto di nuove armi statunitensi. Al giorno d’oggi, i sauditi sono già in possesso di 72 bombardieri da combattimento americani F-15 e di 114 Tornado britannici.

Quanto poco è cambiato negli ultimi 17 anni. Il 17 maggio 1991, per esempio, George Bush padre disse che allora c’erano "ragioni concrete per essere ottimisti" sulla pace in Medio Oriente. "Continueremo il lavoro per il processo [di pace]", disse allora. "Non abbiamo intenzione di abbandonarlo".

James Baker, che era il segretario di Stato Usa, avvertì il 23 maggio 1991 che la continuazione della costruzione di insediamenti ebraici in territorio palestinese "impediva" una futura pace in Medio Oriente, jproprio come ha detto la scorsa settimana l’attuale segretario di Stato. All’epoca, gli israeliani furono rassicurati da Dick Cheney sul fatto che gli Stati Uniti avrebbero salvaguardato la loro “sicurezza".
Può darsi che l’Occidente abbia la memoria corta. Gli arabi, cui capita di vivere nella porzione di terra che noi chiamiamo Medio Oriente e che non sono stupidi, non ce l’anno. Capiscono tutti fin troppo bene quello che ora rappresenta George W Bush. Dopo aver difeso la "democrazia" nella regione – una politica che ha consentito la vittoria degli sciiti in Iraq, di Hamas a Gaza e una sostanziale aumento di potere politico per i Fratelli musulmani in Egitto – a Washington sembra essere spuntato il dubbio che ci sia qualcosa di leggermente sbagliato nelle priorità di Bush.
Invece di promuovere un "Nuovo Medio Oriente", Bush, immerse tra le lenzuola di seta del palazzo reale saudita, si sta adesso impegnando per un ritorno al "Vecchio Medio Oriente", un luogo di polizie segrete, camere di tortura –  in cui i prigionieri possano essere vantaggiosamente "tradotti" – e "moderati" presidenti e monarchi dittatoriali. E quale dei despoti del Golfo avrà da obiettare?

The Independent, 16 gennaio 2008
(Traduzione di Carlo M. Miele)

L’articolo in lingua originale