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Da Weimar all'italietta odierna. Il ruolo della finanza: strumento e sua autonomia “relativa”

di Gianfranco La Grassa - 18/01/2008

 

1. Usando per precauzione la solita formuletta mutatis mutandis, sostengo da tempo che la situazione odierna in Italia è simile a quella della Repubblica di Weimar all’inizio degli anni ’30; naturalmente con una differenza indubbiamente al momento decisiva: manca la grande crisi iniziata nel 1929, ufficialmente terminata nel 1933 (per gli Usa, Inghilterra, Francia, ecc. ma non certo per la Germania) e sfociata in una tendenziale stagnazione – con anni di breve ripresa e successivi nuovi impantanamenti – fino alla seconda guerra mondiale.

E’ evidente che le fasi storiche non si ripetono pari pari, è ormai stucchevole ripeterlo. Tuttavia, le analogie tra epoca ed epoca, tra condizione (strutturale) di un paese e quella di un altro, sono spesso molteplici; non è perciò illecito basarsi sull’esperienza di un periodo precedente e di un altro paese per tentare di capire che cosa accade oggi in Italia. Vediamo allora, in modo del tutto schematico (e anche magari con qualche ipotesi forzata circa gli avvenimenti di allora), l’andamento della crisi tedesca degli anni ‘30.

La suddetta Repubblica di Weimar durò dal 1919 (subito dopo la guerra e la sconfitta tedesca) al 1933, quando fu abbattuta dai nazisti. La Germania, come ben si sa, dovette subire una dura punizione economica nell’immediato dopoguerra, passando nei primi anni venti per una inflazione astronomica, anche perché fu obbligata a pesanti risarcimenti nei confronti dei paesi vincitori, giudicati eccessivi perfino da molti politici ed economisti di questi stessi paesi. Di solito, non viene messo in sufficiente risalto che nel corso degli anni venti, e ancor più nel periodo della grande crisi, il sistema economico tedesco (in particolare quello industriale) fu di fatto obbligato a produrre per pagare il debito; tutto questo provocò anche la formazione di una particolare “filiera” di potere, che subordinava l’industria (i settori produttivi) alla finanza e, nell’ambito di quest’ultima, subordinava la tedesca a quella anglosassone, la più forte nel campo dei paesi vincitori. Dire anglosassone, nasconde però l’essenziale: l’effettiva preminenza spettava alla finanza americana.

Si dice di solito che i paesi più duri nei confronti degli sconfitti tedeschi siano stati Inghilterra e Francia; politicamente è probabilmente vero, ma è necessario mettere in evidenza i mezzi usati dalla politica. La subordinazione della Germania, con l’obbligo di pagare gli enormi risarcimenti richiesti, era ottenuta in particolare con l’impiego dello strumento finanziario, e dunque dell’apparato che manovrava lo strumento in questione; tale apparato era già allora dominato dai grandi istituti bancari americani. La City era ancora la Borsa più importante del mondo, ma le grandi banche degli Usa erano le più potenti, poiché tale paese aveva già di fatto conquistato quella preminenza centrale che si affermerà con maggior nettezza dopo il 1945. Gli Usa si presentavano magari ai tedeschi con la “faccia buona” rispetto ai loro “alleati” francesi e inglesi (che in seguito “calarono le brache” di fronte alla Germania nazista prima di dover, obtorto collo, accettare lo scontro bellico con essa), ma in realtà l’industria tedesca, durante Weimar, fu ostacolata, “sfruttata”, costretta a produrre soprattutto per pagare i debiti di guerra, ecc. dalla finanza avente al suo vertice quella americana.

Nel 1933, mentre gli altri paesi capitalistici avanzati (primi fra tutti gli Usa, centro da cui si era diffusa la “grande crisi”) erano di fatto usciti dalla fase peggiore di quest’ultima, la Germania vi era ancora dentro: 6 milioni di disoccupati, un Pil ridotto a non molto più della metà di quello pre-crisi, ecc. Il partito nazista fu il vero artefice della rinascita dell’industria, della subordinazione della finanza ai suoi progetti (certo di tipo imperialistico e di revanche, questo è logico); nel 1934, quando si tenne il Congresso del partito nazionalsocialista a Norimberga, il Pil aveva superato quello pre-crisi e i disoccupati erano scesi a un milione. Chiunque non capisca che questo fatto è stato decisivo per il solidificarsi del predominio nazista in Germania non capisce un bel nulla, è ottenebrato da pura ideologia. Sia chiaro che qui non s’intende minimamente negare gli orrori del nazismo, né fare alcuna opera di revisionismo storico (negazionismo, ecc.); si vuol semplicemente porre in luce la ragione di un successo che le spiegazioni in termini di violenza, di cattiveria o ferocia, ecc. oscurano completamente, lasciando spazio al ripetersi di fenomeni simili.

Gli “antifascisti” (puramente celebrativi e retorici) odierni fanno sparire e offendono il senso ideale profondo della Resistenza, di allora, quando straparlano oggi di quel processo, che vinse in Italia e nel 1933 in Germania, come si trattasse semplicemente della perdita della ragione, di degenerazione dell’essere umano. E pregherei di smetterla anche con la banalità secondo cui si affermò la “banalità del male”. Si affermò invece chi diede una risposta ad una crisi profonda, ad un asservimento che comportava sacrifici immensi per la stragrande maggioranza del popolo a tutto vantaggio di alcune classi dominanti vincitrici della guerra, proterve ed esose nel loro tentativo di schiacciare il vinto e di impinguarsi con il lavoro delle sue classi sociali produttive. I socialdemocratici (la sinistra!) fu complice di quei governanti tedeschi che accettarono la servitù e la spoliazione; e i comunisti andarono prima “di qua” e poi “di là”, incapaci com’erano di trovare un orientamento deciso e soprattutto in grado di mobilitare la popolazione (non semplicemente la “classe operaia” di cui era infarcita la loro schematica ideologia) nella lotta per l’affrancamento dal predominio sopraffattore delle classi dominanti dei paesi capitalistici vincitori, senza tuttavia andare nella direzione della “rivincita” e dell’espansione imperialistica in competizione con questi ultimi.

Se ci fu, per fortuna, una debolezza fondamentale nell’impianto politico-ideologico nazista (fin dall’inizio), questa non fu rappresentata soltanto da una certa ottusità culturale e da una dose inusitata di violenza devastante. Vi fu la sottovalutazione della funzione storica ormai assunta dagli Usa e l’almeno apparente convinzione che fosse sufficiente – comunque essenziale almeno in quel periodo storico – ottenere la rivincita contro Inghilterra e Francia; essendo ancora i principali possessori di colonie, tali paesi furono scambiati per le più forti potenze da battere. Può però darsi, più semplicemente, che non ci si volesse inimicare pure gli Usa, risolvendo prima il problema della leadership in Europa; comunque non è il caso di affrontare qui un argomento che esigerebbe una ricerca storica più esauriente, tenuto conto fra l’altro del confronto ormai acceso che da tempo opponeva gli Stati Uniti al Giappone (con cui la Germania infine si alleò strettamente) per il controllo dell’area asiatica.

 

2. In ogni caso, l’esperienza di Weimar e del nazismo sono un’ottima illustrazione della funzione (strumentale) assunta in realtà dalla finanza nell’ambito del capitalismo, al contrario di quanto ha sempre pensato il marxismo, rimasto alla superficie del fenomeno e sostenitore della tesi secondo cui questo settore sarebbe divenuto prevalente nel sistema capitalistico con la formazione, quindi, di una classe dominante quasi signorile, di rentier (i fruitori di quelle rendite finanziarie che, oggi, gli ultimi esiti degenerati del comunismo identificano con milioni di piccoli risparmiatori); una classe, dunque, di meri parassiti che avrebbe infine sollevato contro di sé la gran massa dei produttori (“dall’ingegnere all’ultimo manovale” per dirla con le parole stesse di Marx). Un simile errore di valutazione dipende dall’aver considerato in generale il semplice modo di produzione capitalistico, mentre il capitalismo è in realtà una formazione sociale complessa che ha attraversato diverse fasi di sviluppo e si articola in formazioni particolari (paesi, nazioni, specifiche aree socio-territoriali) con mutevoli rapporti di relativa preminenza fra loro.

Certamente la finanza, come qualsiasi altro settore delle varie sfere sociali (non solo quella strettamente economica), ha una sua autonomia nell’insieme della società, e tende quindi a badare ai suoi interessi, non a quelli complessivi; del resto, all’interno di essa, esistono diversi gruppi di agenti (oggi non solo bancari poiché l’apparato finanziario è molto più differenziato di un tempo) facenti parte degli strati dominanti come quelli di ogni altro settore e sfera sociale, visto che tutti svolgono funzioni strategiche ai fini della lotta reciproca per la supremazia. Solo che tali agenti operano da “soggetti” nell’ambito della riproduzione di un sistema articolato di predominanza, che conosce nel tempo mutamenti della sua strutturazione interna. Esiste dunque l’autonomia relativa dei diversi settori (e dei vari gruppi interconflittuali di agenti dominanti che si muovono in essi), e questa autonomia conduce certamente alla differente crescita degli stessi con usuali periodiche sproporzioni nei loro reciproci rapporti, quindi con ipertrofia di alcuni rispetto agli altri; la crisi di sistema è una “malattia” dell’organismo (una sorta di auto-salasso) in quanto risposta che tende a riportare i rapporti tra settori e tra gruppi verso nuove forme strutturali di coordinamento, pur sempre temporaneo. Esistono infatti fasi mono e policentriche nei rapporti intercapitalistici; e tali fasi, pur se assumono maggior rilevanza sul piano geopolitico (mondiale), interessano pure, in via subordinata, i rapporti tra settori e tra gruppi all’interno delle diverse formazioni particolari (paesi, ecc.).

Nel periodo di Weimar, la finanza assunse un aspetto parassitario, ma solo perché funzionava da strumento di predominio degli Usa rispetto al paese vinto e subordinato (pur con le sue potenzialità di paese capitalistico avanzato). I gruppi finanziari (tedeschi, intrecciati a quelli preminenti americani) erano dei parassiti per la Germania, ma non certo per il paese che la sovrastava. E quando scoppiò la crisi del 1929, è un errore di fondo, tipico del marxista tradizionale, credere che essa dimostrasse il predominio ormai irreversibile di una finanza che avrebbe condotto il capitalismo (la formazione capitalistica in generale) alla rovina con il suo ineliminabile parassitismo e l’insaziabile sete di profitti, responsabile dell’impoverimento definitivo della popolazione (nella sua grande maggioranza), che si sarebbe così ribellata. Infatti, non avvenne nulla di tutto ciò. E chi vede nel New Deal il semplice salvataggio del sistema capitalistico da parte dello Stato – pensato allora come neutrale oppure, ed è esattamente la visione antitetico-polare, quale strumento di una Classe capitalistica (solo ideale e immaginaria nella sua unità e compattezza, poiché è al contrario costituita di gruppi strategici in reciproca lotta) – compie un grossolano svarione.

La crisi fu appunto la malattia (non mortale, quindi non definitiva) che mutò strutturalmente i rapporti sociali interni ai differenti paesi capitalistici, riportando in primo piano i settori (e gruppi di agenti) produttivi e ridimensionando quelli finanziari al loro ruolo di coadiutori delle strategie conflittuali. Nel paese predominante vi fu un certo tipo di risposta alla “malattia” che si coagulò, per quanto concerne il suo più appariscente (e anche efficace) aspetto, nella politica (statale) del New Deal; nel paese (capitalisticamente avanzato e solo sconfitto), si ebbe un altro tipo di risposta assai più “energico”, con il nazismo, poiché bisognava anche infrangere la subordinazione del periodo di Weimar. Tuttavia, tale forza politica, nella sua lotta alla finanza in quanto “strumento” delle strategie di supremazia statunitensi, volle inserire, quale aspetto prevalente, la lotta all’ebraismo (e quindi i temi della razza ariana superiore, ecc.). La finanza che opprimeva la Germania non era ebraica (il fatto che ci fossero i Rothschild o altri non ha alcun significato funzional-strutturale); era puramente e semplicemente il tramite della preminenza americana. Tutto lì.  

E’ bene tener presente quella esperienza oggi, anche in Europa in generale, ma soprattutto in Italia poiché è questo paese ad essere nuovamente divenuto uno degli anelli principali del predominio statunitense nella nostra area. Se gli Usa perdessero il controllo anche solo di alcune delle principali formazioni particolari europee, quelle più avanzate e facenti parte della sua stessa struttura capitalistica (dei funzionari, privati, del capitale), si troverebbe presto in grosse difficoltà rispetto alla crescita delle “nuove potenze a est”. L’Italia fu importante durante il periodo del contrasto tra i “due campi” (che tuttavia ha “congelato” la configurazione politica mondiale per mezzo secolo; fenomeno storico a mio avviso non ancora ben compreso); dopo il crollo dell’Urss e del suo “campo”, sembrò possibile creare un diverso sistema di alleanze-subordinazione con il nostro paese utilizzato maggiormente in funzione del conflitto in Medio Oriente.

Già nel 1999 – di fronte a certe aspirazioni tedesche nei confronti di alcuni paesi est-europei – vi fu una revisione strategica americana con il riutilizzo dell’Italia affidata ai “rinnegati” del sedicente “comunismo” (Governo D’Alema in funzione militar-aggressiva contro la Jugoslavia). E’ stato però soprattutto con la nuova impetuosa, e stabile (almeno così sembra), crescita di potenza della Russia che il nostro paese ridiventa importante a tutti gli effetti come base per il controllo d’Europa, almeno della zona est-meridionale. Per questo, la UE è fin troppo buona e remissiva di fronte all’attuale Governo; non si debbono troppo intralciare i piani americani indebolendo eccessivamente l’attuale sistema politico italiano, ormai comunque nel marasma più completo. I tentativi di passaggio alla Seconda Repubblica sono impantanati, con spinte e controspinte continue. Si cercano alchimie istituzionali per assicurare una stabilità governativa affidata a schieramenti messi in competizione, che debbono però continuare a garantire la netta subordinazione italiana ai piani egemonici americani e a funzionare da loro base d’appoggio nello scontro con le “potenze a est”.

Non si debbono distruggere quei punti avanzati, quelle poche imprese dei settori di eccellenza che abbiamo (le solite Eni, Finmeccanica, Enel, ecc.). Queste debbono però essere strettamente controllate onde impedire che servano ad un autentico slancio di autonomia italiano con riflessi (negativi per gli Usa) in campo europeo. Interessante sarebbe avere maggiori notizie (non le solite giornalistiche, di destra o sinistra che siano, del tutto anodine) su quanto si è verificato realmente, dietro le quinte, nella contesa tra Kazakistan e il consorzio (capeggiato dall’Eni, ma con molte altre imprese, fra cui l’americana Exxon) che dovrà sfruttare l’enorme giacimento del Kashagan. Il governo kazako (con l’appoggio discreto e nascosto della Russia? Difficile a dirsi) ha ottenuto di portare la sua compagnia nazionale allo stesso livello di partecipazione azionaria delle altre principali, fra cui l’Eni è considerata la capofila del consorzio (è realmente tale?).  

[Negli ultimi tempi, la Russia, dopo aver rimesso i suoi aerei strategici in volo permanente come ai vecchi tempi, ha inviato la sua flotta sia nel Baltico che nel Mediterraneo; a nord per controllare le proprie tubature della pipeline North Transgas, e a sud per proteggere l’ampliamento del porto di Tartus in Siria, che dovrebbe diventare una importante base navale russa. Quest’ultimo progetto, oltre a più vasti propositi di influenza nella zona, sembra in qualche modo diretto pure a ostacolare, creando una potenziale minaccia, il progetto occidentale Nabucco, un gasdotto che dovrebbe, a partire dal 2010, portare gas dalla zona del Caspio fino a buona parte d’Europa (nel 2025 potrebbe contribuire per il 15% ai fabbisogni di gas della UE) aggirando Russia e Ucraina. Alla sua costruzione sono interessate la Mol (ungherese), la Bulgargaz (bulgara), la Transgas (romena), la Botas (turca), la Omv (austriaca), che costituiranno la Nabucco Gas Pipeline per gestire un gasdotto lungo 3400 Km. in grado di trasportare fino 30 miliardi di mc. di gas annui. La Russia, quasi sicuramente, non lascerà procedere il progetto in tutta tranquillità. E non è detto che non si stia già interessando anche dei rapporti tra Kazakistan e il consorzio che dovrà sfruttare il giacimento di Kashagan].

 

3. Nell’ambito di queste ormai sempre più complesse partite geopolitiche, l’Italia sembra diventata un vero campo di battaglia – vagamente simile al Libano (soprattutto di anni fa) – in cui viene giocato, senza esclusione di colpi, un discreto numero di tali partite (è tuttavia difficile valutare appieno la loro consistenza e ampiezza rispetto al complesso delle stesse). Ne sappiamo veramente poco; certo, una situazione così marcia e di caos crescente non è solo “merito” interno; destra e ancor più sinistra ci mettono del loro, ma sono chiaramente al servizio di interessi strategici più vasti, la cui testa è negli Usa mentre quella che denomino GFeID (italiana) è coinvolta godendo di proventi (una sorta di “provvigioni”), che assomigliano un po’ a quelli delle vecchie “borghesie compradore” dei paesi un tempo semicolonizzati (oggi lo sono di fatto ancora pur con modalità differenti e meno appariscenti di una volta). Da quanto ho fin qui sostenuto sorge la somiglianza della nostra situazione interna con quella di Weimar. Manca (ancora per molto?) la “grande crisi”, ma la struttura del potere finanziario, la “filiera” che porta dai grandi istituti finanziari americani a quelli italiani (intrecciati ad alcuni europei, si pensi ad es. a quel decisivo nodo della finanza in Italia, le Generali, oggetto di acuti contrasti per il suo controllo), è simile a quella d’allora.

Anche nell’epoca che stiamo vivendo, l’apparente predominio incontrastato, che gli Usa hanno avuto dal crollo del “socialismo reale” (e soprattutto dell’Urss) fino ad anni recentissimi, ha favorito l’aspra competizione tra i loro gruppi dominanti (democratici e repubblicani essendo gli artefici del “gioco degli specchi” in quel paese); quelli finanziari sono stati in ultima analisi, per un lungo periodo di tempo, funzionali alle strategie di questo conflitto, che non è però affatto soltanto economica (e tanto meno prevalentemente finanziario), bensì fondamentalmente strategico-politico come lo è sempre quello che si sviluppa nel paese predominante (in una fase monocentrica) o, avviandosi verso il policentrismo, nei diversi poli, sia al loro interno che nel conflitto tra questi. Quando tuttavia la finanza (i suoi vari gruppi di agenti strategici, quelli che fanno parte dei dominanti) è chiamata a fornire fino in fondo gli strumenti per questa lotta, spremendo al massimo l’intera società, arriva il momento della “resa dei conti”, con l’instaurarsi di una situazione critica nata dall’estrema tensione delle forze in campo e dall’eccessiva sproporzione tra settori, nel cui ambito quello finanziario è cresciuto in modo abnorme; ciò accade soprattutto nel paese predominante centrale, per l’ovvio motivo che è questo ad aver sviluppato la massima potenza in campo mondiale. Uno sviluppo di potenza che non può prescindere dall’utilizzazione di mezzi finanziari, indispensabili non soltanto ad acquisire i presupposti materiali (anche bellici) della stessa – ricerca scientifica e tecnologica e sua ricaduta nei settori produttivi – ma anche al funzionamento dei servizi segreti, alle manovre diplomatiche, al finanziamento (e corruzione) di associazioni politiche e culturali in paesi altri, ecc.; tutti mezzi di allargamento e consolidamento della sfera d’influenza geopolitica.

Si crea appunto la disproporzione tra settori, con crescita pletorica di quello finanziario; si verifica dunque – ed è logico che ciò accada nel paese più potente e più lanciato alla (difesa della) supremazia – una sorta di rottura dei vasi sanguigni e allagamento dei tessuti. Ovviamente, i tecnici vedono il fenomeno – dal loro punto di vista superficiale e limitato – come cattiva amministrazione dell’apparato finanziario, uso di strumenti ad altissimo rischio, ricerca smodata di utili e via dicendo. Diceva Marx (acutamente) che la scienza sarebbe inutile se ci si arresta alla più banale empiria; i sensi ci indicano che è il Sole a girare intorno alla Terra, occorre ben altro per comprendere la “realtà”. I “sensi” ci dicono che gli organismi finanziari americani hanno esagerato con i crediti immobiliari inesigibili (i subprime), con i derivati, con autentiche scommesse che hanno succhiato tutte le possibili risorse dei “risparmiatori”, mettendo adesso in crisi l’intero sistema con pericoli di grave caduta della domanda (da qui deriva tutto il discorrere sulla necessità di aumentare i salari, di contenere i prezzi, e su altre misure che, pur approvabili per molti motivi, non otterranno alcun risultato, se non minore e passeggero, perché si cura l’effetto della “malattia” non la sua causa; si mette una pomata epidermica per attenuare il prurito e la presenza di brufoli, non si cura il mal di fegato, causato da abbondanti libagioni, che è all’origine del fenomeno).      

La vera malattia è in realtà conseguenza della politica di potenza, con ricerca della preminenza globale, con il tentativo di contrastare la crescita delle nuove “potenze a est”, con tutto ciò che ne è conseguito sul piano finanziario e di cui ho cercato di dare una idea pur sommaria. Adesso la sproporzione, e le “malefatte” del sistema finanziario, non possono guarire senza passare per un periodo di “malattia”; dire quanto grave sarà quest’ultima sarebbe voler fare l’indovino, ma è probabile che non si tratterà di un lieve malessere. Sono anche molto dubbioso sul fatto che proprio l’Europa ne sarà meno toccata in base al presunto decoupling (sdoppiamento o “disaccoppiamento”) del suo sistema economico rispetto a quello americano. Ho già scritto sul blog che forse ne saranno meno investite Cina, ma soprattutto la Russia – o comunque, anche se interessati, tali paesi (in specie il secondo) hanno una organizzazione strutturale più adatta a combatterne le conseguenze – mentre proprio l’Europa, essendo stata troppo a lungo succube degli Stati Uniti, ha un’economia strettamente intrecciata a quella Usa e non se la caverà a buon mercato. La stessa Germania comincia a risentire i contraccolpi della crisi incipiente, ed è di questi giorni il ridimensionamento delle sue aspettative di crescita. L’Italia è però messa ben peggio giacché è un vero “paese di frontiera”, non solo legato agli Usa, bensì pure campo di battaglia (abbastanza confuso nelle divisioni che lo attraversano) tra diversi gruppi dominanti in lotta per prevalere.

 

4. Non ce la caveremo perciò a buon mercato. Dobbiamo in ogni caso scontare un periodo burrascoso, e non solo sul piano economico. A questo punto – lo dico pur sapendo quanto poco probabile sia il verificarsi di ciò che sarebbe necessario – l’unica reale via di uscita è rappresentata dal prodursi di un autentico “evento rivoluzionario”. Ed è su questo che ci si deve soffermare. Utilizzando le due categorie di rivoluzione cui mi riferisco spesso, dentro o contro il capitale, dico subito che ritengo del tutto improbabile, anzi improponibile, la seconda. Le forze politiche, sparute e minoritarie, che restano agganciate al fantasma di una prospettiva del genere sono del tutto degenerate, composte da “piccole masse” di “giovani” (di cervello, non sempre d’età) desperados, guidate da imbroglioni di infimo taglio. Il loro ruolo è oggi apertamente reazionario: o fanno da copertura all’attuale Governo, che marcisce e infetta gran parte dell’organismo sociale pur di restare al servizio di quella “filiera” di potere, che dalla GFeID italiana arriva al vertice americano, almeno fino a quando non si sia tentato il colpo del definitivo regolamento di conti al suo interno e di occupazione di tutti i posti decisivi nell’apparato economico e politico (e nei corpi speciali in armi); oppure fingono, in piccole bande, di mantenere un ruolo “radicale” mediante una scervellata attività (im)politica ormai datata di decenni (era in voga nel ‘77) che facilita l’opera dei “poteri forti”, e rischia perfino di favorire l’instaurarsi di una dittatura (magari all’“olio di vaselina”) di stampo, appunto, reazionario.

Dovrebbe nascere una forza politica, assolutamente diversa, che ponga all’ordine del giorno una rottura con l’intero sistema dei sicari (politici) della “filiera” di potere appena considerata; essa non dovrebbe porsi immediatamente nell’ottica della resa dei conti con i mandanti di questi sicari politici (sappiamo che si tratta della GFeID e dei suoi punti riferimento statunitensi, sia politici che finanziari), conscia del fatto che, quando si tolgono di mezzo i sicari, anche i mandanti si indeboliscono e debbono “trattare”, abbassando le ali e “starnazzando” assai di meno. Una simile organizzazione, necessariamente tesa alla ricerca di collegamenti con i suoi simili in altri importanti paesi europei, dovrebbe essere principalmente concentrata sulla “rivoluzione” contro il capitale americano. Si tratta di un progetto politico indipendentista, del tutto incomprensibile per quei rimasugli (e rigurgiti) reazionari che trattano il capitalismo italiano come parte integrante di un unico imperialismo mondiale (rappresentato dall’insieme dei paesi afferenti alla formazione dei funzionari (privati) del capitale). Si sconta in tal caso l’inadeguatezza del marxismo ortodosso (fondato da Kautsky e fonte di tutte le nequizie commesse dalle socialdemocrazie in ogni tempo), il quale ignora l’articolazione spaziale della formazione capitalistica generale suddivisa in tante particolari, tra loro connesse da rapporti di preminenza e subordinazione, la cui struttura viene periodicamente (nelle epoche policentriche) rimessa in discussione dallo sviluppo ineguale delle formazioni particolari in oggetto.

L’attenzione dell’ortodosso sclerotico è concentrata solo sul conflitto tra proprietà capitalistica e lavoro salariato; per cui l’articolazione dei gruppi dominanti (agenti strategici) – sia all’interno delle diverse formazioni particolari, sia nell’ambito del conflitto tra queste – non fa parte del suo bagaglio teorico. Egli è dunque cieco di fronte ai fenomeni più importanti che hanno interessato da sempre l’evoluzione della società moderna. Oggi, poi, i sopravvissuti di questa impostazione possono solo fare danni poiché, con il loro semplicistico criterio di conflitto, contribuiscono alla creazione di alcuni presupposti favorevoli al precipitare di una autentica reazione sulle nostre teste. Lasciando da parte questi ormai decrepiti e inaciditi resti di un’epoca che fu (finita nella tragedia ma anche nella farsa), resta la prospettiva, per quanto poco probabile, di una “rivoluzione” contro il capitale americano. Questo sarebbe il primo passo da compiere (ma siamo già in ritardo).

Se ne dovrà parlare con più calma e ponderazione. Tuttavia, l’iniziativa deve partire da gruppi politici in condensazione che siano in grado di coinvolgere in un nuovo progetto (“rivoluzionario”) i settori di punta (“di eccellenza”) della nuova ondata di distruzione creatrice, mettendo in mora quelli della passata ondata, che invece spadroneggiano nei paesi subordinati al capitalismo americano, favoriti da una struttura finanziaria “weimariana” (quella americana dominante si ramifica nei paesi in questione). La crisi prossima ventura può essere un’occasione di “indipendenza”, ma senza ridicole (o consapevolmente ingannevoli?) mascherature del tipo della tesi che sostiene il decoupling. Tranciare la filiera di potere “weimariana” (il che significa annientare il sistema politico che ne è il sicario) non comporta fin da subito il “salvataggio” dalla crisi; anzi, in un primo tempo è probabile si verifichino contraccolpi negativi (economici, ma anche politici di resistenza reazionaria) che vanno affrontati non certo con la “democrazia elettoralistica”, strumento di perpetuazione del vecchio sistema di potere (subordinato agli Usa).

Va detto con fermezza che, malgrado la crisi incombente, ci si deve battere per aumenti salariali. Non però inventandosi che tale misura è anticrisi, in quanto consente l’aumento della domanda. O si è sciocchi o si è conniventi. L’aumento salariale corrisponde semplicemente ad una misura immediata di “equità” (perché i livelli di vita si stanno veramente abbassando notevolmente). Si tratta, inoltre, di una misura mirante a legare masse di lavoratori, comunque rilevanti, al progetto “rivoluzionario” di rovesciamento della filiera di potere già più volte considerata. Deve però essere ben chiaro che soltanto l’organizzazione “rivoluzionaria”, sconfiggendo la “grande finanza e industria decotta” (con la sua subordinazione al centro predominante), è in grado di ristrutturare il sistema-paese dando la preminenza ai suddetti settori di eccellenza decisivi, una volta superata la crisi, al fine di incrementare e produttività e produzione per supportare la redistribuzione di reddito inizialmente effettuata.

E’ anche necessario avere molta pazienza con i settori del lavoro autonomo, assai poco interessati alla società nel suo insieme, che spesso “fanno i furbi”, accrescendo i prezzi ed evadendo le imposte. Capisco che il resto della popolazione si irriti (eufemismo); e tuttavia, non sono questi il nemico principale; dirigere la rabbia verso di loro è il modo migliore per favorire i disegni della filiera di potere weimariana. Anche per questo motivo, si capisce bene che l’eventuale organizzazione di “rivoluzionari” contro il capitale americano non deve essere assillata da preoccupazioni elettorali; deve agire con decisione frantumando quel groviglio di interessi che ci opprime e ci consegna alla predominanza altrui e alle sue crisi devastanti la nostra struttura, il nostro stesso convivere, sociale.

Qual è uno degli elementi di debolezza di una simile possibile via di uscita dalla rovina pressoché certa cui andiamo incontro rapidamente? Manca qualsiasi sostegno da parte delle dirigenze di quelle imprese (poche per di più) che rappresentano, o potrebbero rappresentare, i nostri settori di punta. Queste dirigenze non hanno nulla a che vedere con la stoffa di un, mettiamo, Enrico Mattei (oggi, ne sono convinto, un dirigente di questo tipo si schiererebbe per un progetto “rivoluzionario” del genere accennato); abbiamo gruppi manageriali divisi al loro interno, privi di un centro unico di potere, avvolti in compromessi con i sicari politici della filiera suddetta, i quali resistono sulla scena per eliminare ogni e qualsiasi possibilità di utilizzo delle nostre punte industriali avanzate contro la subordinazione e per una indipendenza, che comunque esigerebbe ormai un collegamento con rilevanti schieramenti analoghi in alcuni altri paesi europei. Manca una forza in grado di fare una vera politica estera di affrancamento dalla subordinazione agli Stati Uniti, di collegamento con le crescenti “potenze a est”, senza però nuove subalternità; semplicemente l’uso di abilità manovriera nella nuova situazione di avanzante policentrismo.

Siamo indietro, terribilmente indietro, ma non ne usciremo con le sciocchezza della rivoluzione totale, verso la nuova società. Quelli che fingono di volerla sono ormai dei puri reazionari. Manca quindi perfino la mera potenzialità di un’autentica rivoluzione contro il capitale. Affidarsi puramente e semplicemente a quella dentro il capitale, è oggi del tutto ambiguo; potremmo per altra via ritrovarci una “dittatura” (quella detta all’olio di vaselina) del tutto dipendente dai gruppi dominanti dello stesso paese, cui siamo già subordinati “democraticamente” (gli Usa). L’unica via di uscita è la “rivoluzione” contro il capitale americano; cioè una lotta che in qualche modo ha dei tratti indipendentistici, di autonomia che si potrebbe dire nazionale se non fosse che esige, per riuscire nei suoi intenti, la ricerca di collegamenti – politici, economici, culturali – in altri paesi (europei ovviamente).