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Il ritorno dei Barbari

di Edoardo Castagna - 21/01/2008


 


F
orse è arrivato il momento dell’equilibrio. Da una parte, il mito dei barbari come «flagello di Dio», per rimanere al nomignolo con il quale è passato alla storia Attila, re degli Unni. Quelli calati sull’Impero romano animati da cieca furia devastatrice, che hanno distrutto tutto senza erigere nulla: non un’arte, non una cultura, non una lingua. Non una civiltà, insomma, paragonabile a quella latina che avevano trovato. Dall’altra parte, il più recente ma non meno infondato – se preso alla lettera – mito della «migrazione di popoli» (
Völkerwanderungen, nella lingua di quella scuola tedesca che per prima ha iniziato a parlarne): i barbari (ma meglio una denominazione più neutrale, meglio chiamarli 'nomadi') come motore di un processo di pacifica integrazione e rivitalizzazione delle esauste strutture romane. Barbari – pardon: nomadi – ricchi di una civiltà originale e alieni da ogni violenza; e forse anche – nelle degenerazioni nazistoidi dell’esaltazione a rovescio dei Secoli bui – migliori: più nobili, più virili, più morali.
  Solo da pochi anni la storiografia è riuscita a uscire stabilmente da questa altalena di miti, e non senza ricadute nei fraintendimenti del passato – non rari, purtroppo, in quei manuali scolastici che invece dovrebbero essere il primo mattone di una corretta conoscenza del nostro passato. In Italia è stato forse più difficile che altrove lasciarsi alle spalle l’idea di barbarie come età di mera decadenza, legati come siamo al seducente splendore della grandezza romana; ma il giro di boa potrebbe essere la mostra che aprirà i battenti tra una settimana a Palazzo Grassi, «Roma e i barbari. La nascita di un nuovo mondo». Una mostra che segue a ruota quella appena chiusa a Torino, dedicata ai barbari più 'italiani', i Longobardi.
  Tutti segnali che convergono verso quel punto d’equilibrio per il quale oggi possiamo finalmente dirci pronti. È il programma esplicito del curatore della mostra veneziana, il francese Jean-Jacques Aillagon, che ha dichiarato: «L’esposizione deve superare le due caricature».
  Proclami a parte, questa sintesi deve riempirsi di contenuti. E la ricerca storica ha già da tempo molte conclusioni da offrire. Quelli 'barbarici' non furono secoli né bui né luminosi, ma semplicemente secoli di storia. Lungi dall’essere una sorta di buco nero, fatto solo di distruzione e di regresso, incubarono il soggetto decisivo dei tempi a venire, fino ai nostri giorni
(compresi): l’Europa. Nel mondo classico baricentro della civiltà era il Mediterraneo, i cui molteplici apporti culturali – greci, egizi, fenici, ebraici, mesopotamici – erano stati portati a sintesi da Roma. La caduta dell’Impero d’Occidente, figlia più di processi interni che di pressioni esterne – le orde gotiche o unne non erano certo più temibili di quelle teutoni o galle a suo tempo annientate da Mario e da Cesare –, trasformò il Mare Nostrum in frontiera, da area di contatto qual era in età classica. L’asse della storia piegò versò Nord, includendo quelle regioni 'barbariche' che il Limes aveva relegato oltre i confini della civiltà.
  Un mutamento, traumatico e a tratti anche violento, che non poté raggiungere immediatamente un nuovo equilibrio. Ma che non per questo fu privo di elementi di innovazione, che avrebbero lasciato il segno.
  Socialmente, i barbari proposero all’Europa, il nuovo soggetto che stava nascendo dalla fusione tra Latini – a loro volta portatori delle eredità greche e giudaico­cristiane – e Germani, una diversa concezione dell’individuo: più autonomo e al tempo stesso personalmente impegnato dall’appartenenza al gruppo, meno legato a concezioni astratte quali Stato o legge e più a rapporti umani diretti. Diversa da quella latina era la considerazione della donna, diverso l’atteggiamento nei confronti del vinto, che piuttosto che essere ridotto in schiavitù – istituzione incompatibile con il nomadismo – veniva arruolato nell’orda, sia pure in
posizione subalterna. E diversa era anche la concezione del potere: non influenzati dalle autocrazie orientali, i barbari avevano conservato un’idea della regalità come 'delega' a un singolo dell’autorità del gruppo. La delega era prima di tutto militare, decretata dall’assemblea del popolo in armi, secondo antiche ascendenze – riconducibile alla comune matrice indoeuropea – e non estranea a quella greco-latina, con la quale infatti poté integrarsi. Le invasioni la ribadirono, a fronte delle degenerazioni satrapesche subite dall’Impero romano.
  Il processo di fusione tra i due elementi fondanti della nascente Europa fu favorito dalla comune fede cristiana, alla quale la gran parte dei popoli germanici si era convertita prima di irrompere al di qua del
Limes. Purtroppo, spesso la cristianizzazione dei barbari avvenne in prima battuta secondo il credo ariano diffuso dal goto Ulfila, romano fu anzi, per ognuno dei vari regni romano-barbarici, la tappa fondamentale e la sanzione dell’avvio del processo di integrazione.
  Ai barbari dobbiamo una certa concezione del diritto, dove l’individuo ha un valore in sé più decisamente affermato rispetto a quello romano con il quale si sarebbe fuso, dando origine ai sistemi giuridici moderni. Ai barbari dobbiamo le nostre lingue, nate dagli innesti germanici sul latino (nel caso delle lingue romanze) o, viceversa, da quelli latini sui dialetti teutonici (nel caso delle lingue germaniche).
  Ai barbari dobbiamo anche una rivitalizzazione biologica del Vecchio continente, che ai tempi di Roma imperiale pativa l’impoverimento generato dal frequente ricorso all’aborto e ad altre pratiche di denatalità – tanto che alla fine per trovare qualche soldato gli imperatori furono costretti ad arruolare proprio i barbari. Non è difficile scorgere similitudini con la situazione dell’Occidente dei nostri giorni, civiltà matura e demograficamente stagnante che ha bisogno – per fortuna, non più a fini bellici – di nuova linfa umana. Con tutti i problemi, di integrazione e di comprensione, che ne conseguono. Un parallelo suggestivo, che dovrebbe indurci a rileggere con ancor più attenzione la storia dei Secoli 'bui'.
 




creando una frattura religiosa che tuttavia – salvo casi isolati, come quello dei Vandali di Genserico – raramente degenerò in aperte discriminazioni contro i vinti cattolici. E la conversione al credo







Alcune delle opere esposte a Palazzo Grassi. A destra, un foglietto del «Dittico del console Aerobindus»; sotto, la «Patena di Gourdion»; in basso, il «Busto di Marc’Aurelio»